Ivan Marcialis
2006-03-30 11:34:36 UTC
Ciau bella gente,
finalmente ho trovato un po’ di tempo e di voglia per scrivere il
resoconto del viaggio in Thailandia. Spero che possa in qualche modo
esservi utile e possa ricambiare i mille consigli che mi avete dato
prima di partire. E’ decisamente lungo ma come diceva Pascal, “Ho
scritto un racconto più lungo del solito, semplicemente perché non ho
avuto il tempo per farlo più corto” e scopiazzando dal diario tenuto in
viaggio sono uscite miliardi di pagine. Abbiate pazienza :(
Devo ringraziarvi inoltre per avermi chiesto di scrivere il resoconto.
L’essermi preso “l’impegno” con voi mi ha dato lo stimolo per stare
qualche ora davanti al pc a ripercorrere con attenzione i miei primi 40
giorni orientali, cosa che mi ha consentito di riordinare idee e
sensazioni e di fissarle su “carta”. Grazie.
*PS*
Ho inserito alcune foto del viaggio su pbase: http://www.pbase.com/ivan76/
*Resoconto*
Grazie alla meritoria China Airlines e dopo dieci ore di soporifero
volo, sono arrivato a Bangkok il 14 di dicembre dell’anno appena
terminato. Sono sceso dall’aereo con la convinzione di seguire il piano
di lasciare subito la capitale nuova per visitare la più tranquilla
capitale vecchia. Essendo partito solo col mio sacco non avevo da
attendere bagagli, quindi appena sceso dall’aereo sono andato a piedi
alla vicinissima stazione dei treni. Destinazione Ayuthaya, raggiunta in
circa una mezz’ora e per pochi bath ma con in testa ancora strani dubbi
riguardo alla sua pronuncia: Ayuthayà, Ayuthàya... o forse Ayùthaya.
Arrivato in città ho preso una stanza al Tony’s Place, un posto carino,
in una comoda posizione e soprattutto economico, 200 bath per una camera
pulita e spaziosa senza il bagno. Qui ho trascorso la mia prima notte in
oriente e due giorni pieni, abbastanza stancanti. Per visitare i vari
templi sparsi all’interno del parco storico ho noleggiato una
bicicletta, caldo e voglia non consentivano che un’andatura moderata e
le due giornate sono volate via rapidamente. Tra i vari Wat visti mi va
di ricordare il Wat Phanan Choeng visitato la seconda sera. Un tempio
relativamente moderno e certamente meno suggestivo di altri visti ad
Ayuthaya prima e in tutta la Thailandia poi, ma ricordo bene questo
perché ero, se non l’unico turista, sicuramente l’unico occidentale. Qui
mi sono sbilanciato nella mia prima pratica buddista: ho acceso qualche
incenso e ho donato un fiore di loto all’immenso Buddha in bronzo
posizionato nella sala principale. Ho cercato di imitare i presenti ma
mi sono sicuramente incasinato buttando via la sottilissima foglia d’oro
da appiccicare al Buddha, credo nella parte per la quale si chiede la
guarigione. Peccato, mi avrebbe pure fatto comodo. Prima di uscire,
riparato dalla mia solitudine, mi sono addirittura prodigato in un breve
ma sincero inchino. Ho provato una strana sensazione, difficile da
decifrare. Nulla di mistico, purtroppo. Mi sono invece quasi vergognato,
un po’ perché stavo contravvenendo al mio tanto sbandierato ateismo, un
po’ perché lo stavo facendo più per spirito di partecipazione che per
uno slancio religioso. Vabbé sicuramente nessuno l’ha trovato fuori
luogo, come detto, ero solo.
Restituita la bici e liberata la stanza ho fatto un bel giro per i
vicoli del mercato di Chao Phrom. La Lonely Planet lo indicava come un
possibile posto dove mangiare: non mi è venuta fame! Lo so che la carne
esposta li è la stessa che ritrovavo nei piatti dei ristoranti, ma
odori, insetti e sporcizia non erano proprio da acquolina in bocca, poi
tra zampe di gallina e strani pesci, il vedere esposte anche tartarughe
di tutte le dimensioni e rospi grandi quanto principi normanni mi ha un
po’ inquietato. Non sto qui a dirvi che questo tipo di reticenze le ho
lasciate in quel mercato e da allora ho mangiato praticamente di tutto
ed ovunque, anche se gli scarafaggi essiccati davvero sono stati una
barriera insormontabile. Al Tony’s Place ho acquistato il biglietto del
bus notturno per spostarmi a Chang Mai: 350 bath e dieci ore. Il bus era
uno di quelli turistici, enorme e a due piani, con colori e disegni
discutibili. I sedili erano abbastanza scomodi e l’aria condizionata
troppo... condizionata, fortunatamente ero stato avvertito e mi ero
tenuto a portata di mano un maglione: utilissimo. Con me avevo anche
qualche mandarino e dell’acqua che uniti ad un sonno da tenere al
guinzaglio hanno composto un bagaglio più che sufficiente per completare
lo spostamento.
A Chang Mai non ho avuto nessuna difficoltà a trovare un comodo
alloggio, tra le altre cose il più economico in cui sono stato, 90 bath,
presso la Lamchang Guesthouse. Nella capitale del Nord mi sono
trattenuto 4 notti, forse una di troppo all’interno dell’economia del
viaggio. Anche se decisamente meno turistica di altre località Chang Mai
è in grado di offrire qualsiasi cosa, mercati belli ed economici,
meravigliosi wat, parchi ricchi di vegetazione e animali, uno grande zoo
e tutto quello che non è a portata di mano o di motorbike e facilmente
raggiungibile acquistando uno dei mille servizi offerti dalle numerose
agenzie di viaggi. Tra le varie esperienze vissute a Chang Mai mi sembra
doveroso segnalare il mio primo massaggio tradizionale tailandese,
presso l’Old Medicine Ospital, che ospita anche una scuola dove poterne
apprendere l’arte. Che meraviglia. La massaggiatrice non rappresentava
esattamente lo stereotipo di tailandese gnocca, era più che altro una
donna al cubo, ma il messaggio è stato spettacolare, decisamente poco
rilassante e talvolta anche doloroso ma finita la seduta stavo talmente
bene che durante il resto del viaggio non ho dovuto cercare scuse per
ripetere l’esperienza.
Altra esperienza singolare che mi va di raccontare è stata la scalata al
Doi Suthep. Avevo ancora la moto in affitto ma ho deciso di lasciarla a
valle e salire a piedi, il tutto per il mio solito spirito di
emulazione. L’aveva fatto infatti Corrado Ruggeri e l’ha brevemente
raccontato in “Farfalle sul Mekong” (uno dei libri che mi sono portato
dietro). So che cercare di scopiazzare esperienze di altri lette in un
libro non è il massimo ma... che dire... credo davvero ci sia di peggio.
Ho iniziato la “scalata” di buon ora, alle otto meno un quarto ero già
in cammino, con la vana convinzione di evitare il caldo. Ho cominciato
con un buon passo, superando addirittura un gruppo di giovani bonzi. Lo
spirito è rimasto alto fino a quando, già stanchissimo, ho trovato il
primo cartello. Speravo di essere circa a metà dell’opera ma la
segnaletica mi annunciava beffardamente che ero si alla metà ma della
metà del percorso. Avevo percorso solo tre dei dodici chilometri che
portano al tempio. Intanto i passeggeri dei sawngthaew (i taxi pick-up
che si trovano ovunque in Thailandia) mi salutavano con sorrisi ironici
che sembravano ricordarmi quanto fossi inconsapevole di cosa mi
aspettasse, non avevano tutti i torti, la parte più difficile doveva
ancora arrivare. Un ragazzo tailandese mi ha addirittura salutato come
si deve ai monaci, bastardissimo! Intanto i piedi mi facevano un male
cane... le stronze Superga che indossavo non erano certo adatte alla
camminata, ho provato a fare qualche metro scalzo, follia. Le bolle sui
mignoli facevano male davvero e in più di un’occasione ho pensato di
cedere, fermare un bus, un pick-up, un motorino, un elefante o il santo
protettore di chi cerca passaggi, dargli tutti i bath che voleva e
salire con lui. Nel mentre, però, continuavo a salire e le espressioni
di chi mi superava cominciavano a cambiare, oppure ero io ad aver
bisogno di leggere in quei visi incoraggiamento e non scherno, fatto sta
che ogni pollice rivolto verso l’alto mi ha fatto fare qualche centinaio
di metri fiducioso, senza dubbi e perplessità. Sono arrivato al tempio
stanco come mai in vita mia, dopo circa due ore e mezza: trenta minuti
in più dei bonzi ma anche trenta in meno del giornalista-scrittore. La
mia fatica, però, non era terminata, ancora 306 gradini mi separavano
dalla meta: non sono stati un problema. La scalinata bella com’è pareva
quasi una passerella d’onore messa li apposta per chi decide di salire a
piedi. Nelle scale almeno una decina di persone mi hanno fermato per
dirmi che mi avevano visto salire a piedi e per farmi i complimenti,
qualche giapponese ammiccava dicendomi che era una cosa buona per la
“forza”, non ho indagato sul significato recondito del termine.
Il tempio è comunque davvero bello anche se pieno di turisti, la maggior
parte dei quali tailandesi, il Wat Phra That Doi Suthep è infatti uno
dei templi più sacri del paese e merita davvero una visita anche se si
dovesse decidere di raggiungerlo in maniera più comoda.
Ho lasciato Chang Mai per partecipare ad un trekking di due giorni nelle
campagne poco più a nord della città. Ho acquistato il pacchetto presso
un’agenzia ma praticamente tutte le guesthouse offrono servizi identici
anche se forse un po’ più cari. Io ho speso circa 1200 bath.
L’escursione era organizzata alla perfezione e oserei dire anche troppo,
ingenuamente speravo potesse essere un modo per vedere un pizzico di
Thailandia non corrotta dal turismo e non è stato così, davvero.
L’escursione è stata comunque divertente. Le campagne che abbiamo
attraversato erano veramente molto suggestive e il villaggio Karen (una
di quelle che chiamano Tribe Hill) era spettacolare. Non eravamo certo
il primo gruppo di farang che mettevano piede in quelle terre ma per me
è stato davvero qualcosa di nuovo. Un breve tuffo in qualcosa che credo
assomigli alla vera cultura thai di qualche decennio fa e che oggi sta
forse vivendo quella fase di transizione che le città hanno vissuto da
tempo. Lì si vedevano ancora chiare le contraddizioni tra ciò che era e
ciò che qualcuno ha deciso dovrà essere: tra la biancheria stesa si
alternavano t-shirt nike con costumi tipici delle tribù del nord e le
palafitte, case per i karen ma anche per porci e galline che vivono tra
i pilastri, sono alimentate da piccoli pannelli solari.
Il trekking comprendeva anche un due ore di “elephant riding” in mezzo
alla foresta e rifting su una zattera fatta con enormi bamboo: uno spasso.
Siamo tornati dall’escursione verso le cinque del pomeriggio, il tempo
per farmi una doccia nell’agenzia di viaggi (quando si dice servizio
completo :) e poi volare verso la stazione dei bus.
Ho preso il biglietto per Bangkok su un autobus di seconda classe, un
po’ più caro di quello dell’andata ma decisamente più comodo e
soprattutto pieno di tailandesi e non di miei vicini di casa. Sono
arrivato all’Eastern Bus Terminal prestissimo, ho acquistato un
biglietto per Aranya Prathet e sono partito senza dove attendere più di
qualche minuto, prezzo 150 bath e 5 ore di viaggio. Avevo già il visto
per la Cambogia, l’ho fatto in un’agenzia a Chang Mai pagandolo trenta
dollari invece che i venti che avrei speso al confine, poco male. Ho
passato la frontiera senza nessun problema e accompagnato da un giovane
cambogiano che, mentre rispondeva alle mie domande, cercava di vendermi
il biglietto del bus per arrivare a Siem Reap. “Com’è che abbiamo
superato il confine della Thailandia e nessuno ci ferma?”, “Perché non
siamo ancora entrati in Cambogia, siamo in terra franca” fa lui. “Come?
500 metri di terra franca?”, e lui prontamente “Il discorso è che hanno
spostato il confine Cambogiano per far posto ai Casinò!”. Assurdo! Tra
le due frontiere c’è davvero una concentrazione di case da gioco degna
di Las Vegas, ricchi tailandesi si avvicendano tra i vari hotel a 5
stelle accompagnati da procaci donzelle e attesi da limousine bianche,
duecento metri più avanti bambini di pochi anni muoiono di fame
dimenticati dentro cunette mute e invisibili, al riparo dagli occhi
indiscreti delle telecamere di sicurezza degli alberghi appena superati.
Da brivido.
A Poipet, la prima cittadina che si incontra entrando in Cambogia,
trovare un mezzo per raggiungere Siem Reap non è stato facile. Volevo
arrivarci con un pick up, avevo letto che era il mezzo più economico e
mi ero convinto fosse anche il più interessante. Trovarne uno è stata
una lotta. Sulla via principale decine di ragazzini autisti di mototaxi
insistono per portarti alla stazione dei bus che dista solo pochi metri
dal confine e cercano di persuaderti che questi siano gli unici mezzi
disponibili per lasciare Poipet. E i pick up? “I turisti non possono
usarli, è troppo pericoloso e la polizia non lo permette” questa era la
parola d’ordine sulla bocca di tutte le persone a cui ho chiesto, ho
insistito a lungo fino a quando la ragazza della biglietteria dei bus,
mossa a compassione o forse solo più gentile di altri personaggi, mi ha
spiegato il da farsi. Ho camminato per circa due chilometri lungo la
strada principale nella direzione opposta alla frontiera dribblando
venditori vari finché ho trovato il mio pick up che per circa quattro
dollari americani (usati alla frontiera e a Siem Reap quanto il Riel, la
moneta locale) mi ha portato prima a Sisophon e poi a Siem Reap. Non
credo di aver risparmiato tempo con questo mezzo alternativo e nemmeno
troppi soldi, perlomeno rispetto al bus (costava circa dieci dollari), e
fare il viaggio nel retro del furgone e tutt’altro che comodo, ma è
stata un’esperienza interessante, il pick up si è fermato decine di
volte in un continuo alternarsi di passeggeri e ho avuto modo di dare
rapide occhiate ai villaggi di passaggio. La LP diceva che le strade in
Cambogia sono notevolmente migliorate negli ultimi tempi, ora non so se
il pick up prenda una strada alternativa rispetto a quella dei bus (di
fatto non ne abbiamo incrociato), ma quella percorsa non era
propriamente agevole. Sui 130 chilometri percorsi quelli asfaltati si
potevano contare sulle dita di una mano e i ponti attraversati
sembravano sostenerci più per cortesia che per senso del dovere, fatto
sta che il viaggio è durato 5 ore durante le quali avrò respirato non
meno di due etti di polvere. Per il ritorno ho optato per un posto
all’interno del pick up, un po’ più caro ma decisamente più comodo e poi
c’era almeno la possibilità di fare un briciolo di conversazione.
Sono arrivato a Siem Reap di sera, ho facilmente trovato una guesthouse
carina con bagno in camera per due dollari a notte, incluso nel prezzo
anche un socievole odore di muffa col quale ho condiviso la mia
permanenza in Cambogia: la stanza era senza finestre. La cittadina offre
centinaia di sistemazioni per tutte le tasche e davvero parecchi posti
dove mangiare, Angkor richiama migliaia di turisti e Siem Reap offre
tutti i servizi di cui possono aver bisogno. Per quel poco che ho visto,
avendola girata solo di notte visto che passavo le mie ore diurne al
sito archeologico, Siem Reap mi è parsa carina e vivace ma nulla di più.
Mi sono trattenuto quattro notti e tre giorni anche se due, forse,
sarebbero stati sufficienti ma visto che il biglietto era stato pagato
(40 dollari per visite di 3 giorni altrimenti 20 dollari al giorno) l’ho
sfruttato per tutta la sua validità. Comunque sia in tre giorni non ho
mai visto due volte la stessa cosa, eccezion fatta per i templi che mi
sono piaciuti di più e che ho voluto rivedere a differenti ore del
giorno e quindi con luce diversa.
Angkor è un sogno. E’ talmente bella che pare finta. Angkor Wat è così
grande e decorato in maniera così spettacolare che non perdersi dentro
per una mezza giornata è davvero un peccato. Ma tutti i templi sono
meravigliosi. Il Bayon con le sue cento facce, il Ta Prohm e il Preah
Palilay sui quali la natura ha sconfitto l’ostinazione dell’uomo, il
Banteay Srei, noto come il tempio delle donne o della bellezza, è
piccolo e splendido. Non mancano certo i turisti ad Angkor ma il parco è
talmente grande che non è difficile visitarne alcune parti in perfetta
solitudine. La novità rispetto a quanto mi era stato detto è che oggi
non è più possibile affittare una motocicletta per visitare il parco,
perlomeno non è più possibile farlo in autonomia, in compenso farsi
portare da un tuk tuk o da una motoretta con autista è tutt’altro che
dispendioso. L’ultimo giorno ho affittato una bicicletta, non è stato
male, anche se i 30 chilometri fatti per arrivare al Banteay Srei sono
stati davvero un massacro, fortunatamente per il ritorno un gentile
operaio ha caricato me e velocipede sul retro del pick up: sia fatta
lode ai gentilissimi operai cambogiani.
Sono stato pochi giorni in Cambogia e il poco che ho capito di questa
terra mi ha lasciato tanta voglia di tornarci. Mi è sembrata un po’ più
“vera” di una Thailandia che si mette abito da sera e ombretto per
mostrarsi ai turisti, almeno la Thailandia con cui sono andato a cena
io. La Cambogia mi è parsa davvero diversa, ha tutto un altro odore
rispetto alla terra del sorriso. La guerra non passa senza lasciare
segni, è come una cagnaccio morto che non abbaia e non morde più ma la
cui carcassa puzza a dispetto delle frettolose palate di calce
rovesciategli sopra. Lungo le strade i cartelloni non pubblicizzano i
prodotti delle multinazionali ma ricordano, mostrando un mitragliatore
spezzato, che i cambogiani non hanno più bisogno di armi. Ci sono più
centri di riabilitazione e centri per la costruzione di protesi di
quanti tabacchini si trovino in Italia. La povertà c’è e la si respira
ad ogni passo. Quando cenavo nella bancarelle ero sempre circondato da
bambini che chiedevano soldi. Ho smesso di pensare che gli servissero
per droghe o per pagare il “pappone” di turno la prima sera, quando,
dopo essermi alzato, li ho visti precipitarsi al mio tavolo per divorare
il poco che era rimasto sui miei piatti. Non hanno mai disdegnato le
scodelle di riso che ordinavo per loro e per chissà chi altro. Metà la
mangiavano in un baleno l’altra metà veniva custodita in una bustina
offerta dal venditore e portata via tra mille sorrisi.
Della Cambogia non ho visto altro e davvero non mi è bastato, ero però
in viaggio già da due settimane e avevo troppa voglia di andare al mare,
di riposarmi, di stare al mare, di rilassarmi, di stare al mare: volevo
una spiaggia! Ho lasciato la terra dei Khmer percorrendo la medesima
strada usata all’andata ma diretto verso Ko Samet. La speranza, partendo
all’alba, era di arrivare all’isola in giornata passare li qualche
giorno in modo da poter fare poi il capodanno a Pattaya, come alcuni
italiani conosciuti in aereo mi avevano consigliato. “Il 31 vai a
Pattaya, vedrai che ti diverti!”. Avevo sottovalutato lo spostamento e
in una giornata non solo mi e’ risultato impossibile arrivare a Ko Samet
ma anche raggiungere Ban Phe (la cittadina dalla quale si prende il
traghetto per l’isola) o Rayong una città poco distante un po’ più
grande e dove sarebbe stato più facile trovare alloggio. Era già buio e
io stavo ancora a Chonburi così ho deciso di passare quella notte a Pattaya.
Sono arrivato a Pattaya verso le dieci di sera ed ho girato circa due
ore alla ricerca di un posto economico dove dormire: non l’ho trovato!
La stanza l’ho poi presa in un albergo per la bella cifra di 800 bath
(il posto più caro dove ho dormito in Thailandia) proprio nel mezzo
della Wolking Street, il fulcro (almeno spero) dell’animazione sessuale
della città. Pattaya è una città incredibile, assurda per certi versi.
Pattaya è una città dove ti capita di vedere un McDonald seguito da un
Kentaky Fried Chicken che precede un Pizza Hut dopo il quale c’è un
Burger King e quando ci passi davanti sei pure contento perché sono
l’unica pausa pubblicitaria tra le centinaia di go-go bar e, incredibile
a dirsi, sono gli unici posti in cui non ritrovi decine di giovani
palestrati amerigani giunti in branco a Pattaya nella speranza, forse,
di rivivere le atmosfere raccontate dagli ex militari che passavano lì
le loro settimane di congedo durante la guerra in Vietnam.
Due ore di passeggiata mi sono bastate. Due ore durante la quali sono
stato fermato da almeno un centinaio di prostitute vestite tutte come le
concubine porche di Babbo Natale. Due ore sono state sufficientemente
istruttive per convincermi a rifiutare il cortese suggerimento di chi mi
consigliava di passare lì il capodanno. Sono scappato da Pattaya il
mattino dopo per non tornarci di sicuro durante questo viaggio. Si fotta
Pattaya anche perché mi è davvero sembrato che lo stia già facendo.
Sono arrivato a Ko Samet il giorno dopo, all’ora di pranzo. E’ stata la
prima località di mare vista in Thailandia ma davvero non mi è rimasta
nel cuore. Troppi cantieri, troppo cara, troppi turisti. La spiaggia da
sogno, Coral Beach (Ao Kiew Na Nok), che la vecchia LP che avevo con me
descriveva come la più tranquilla e isolata oasi di pace per viaggiatori
zaino in spalla, non esiste più. Altri turisti mi avevano avvisato ma ho
voluto controllare di persona. Ho noleggiato il classico scooter, questa
volta nella versione enduro visto le condizioni delle strade (300 bath
per 24h) e ci sono arrivato davanti. Al bivio per la baia c’era una
sbarra con delle guardie che mi hanno bloccato impedendomi di entrare
anche solo per un’occhiata dicendomi che era proprietà privata, quando
ho fatto presente che ero un turista e come tale ero interessato a
visitare la struttura per prendere un bungalow mi hanno nuovamente
bloccato dicendomi che a petto nudo non potevo entrare. Ho chiesto
alcune informazioni, una notte nel nuovo resort costa tra i dodici e
sedici mila bath, circa 300 euro, li dove pochi anni fa si spendevano
tre dollari per dormire. Coral Beach non esiste più. Per non dare adito
a fraintendimenti gli hanno pure cambiato nome, ora si chiama Paradise
Beach. Coral Beach è scomparsa e Ko Samet, un immenso cantiere aperto
che cerca nuovi spazi per bungalow più accoglienti, sta scomparendo.
Forse, come dice Terzani, è l’Asia, l’oriente, la spiritualità delle
terre del sol levante che stanno scomparendo, che tristezza. Alla baia
sono comunque arrivato da una stradina laterale ed era davvero un
paradiso, ci ho passato due splendide mattinate in perfetta tranquillità
in solitaria compagnia di qualche tailandese intento a raccogliere
“pericolosissimi” pezzi di corallo e pietre non a tono col nuovo albergo.
Ao Kiew Na Nok all’alba è splendida, il mare è così calmo e limpido che
è facile lasciarsi prendere da mistici slanci di onnipotenza e pensare
di poterci camminare sopra, la sabbia è bianca e piatta con qualche
palma abusiva e tanti pezzi di corallo ad insidiare i piedi dei
miliardari più temerari. Ao Kiew Na Nok all’alba è deserta, i miliardari
in vacanza, giustamente, tendono a svegliarsi con comodo ma anche più
tardi turisti in spiaggia non ne ho visto neanche uno, i pochi clienti
del Paradise Resort, assurdità nell’assurdità, stavano in piscina.
Il bungalow che ho scelto non era comunque male, 400 bath a notte per un
letto a circa 400 centimetri dall’acqua: che spettacolo. La spiaggia si
chiama Vong Duen, forse la peggiore dell’isola ma quella dove si
potevano trovare gli alloggi più economici e anche quella con un pochino
più di “vita”. Il tempo a Ko Samet passava sornione, e io sono stato
davvero bene. Non credo fosse il posto in se, tutto sommato mi è
piaciuto molto meno di altri, ma per me credo fosse la vicinanza col
mare. Che meraviglia i pomeriggi a Ko Samet passati a leggere mentre il
mare lentamente si ritirava per concedere qualche metro di spiaggia ai
tavoli dei ristoranti, sforzo che si è rivelato a volte inutile visto
che all’imbrunire una incostante pioggia convinceva gli avventori
dell’opportunità di mangiare al coperto, sopra il cemento. Ho passato la
terza e ultima sera a Koh Samet in beata solitudine, cosparso di autan e
circondato da batterie di zampironi, le zanzare però sembravano
disinteressarsi delle mie precauzioni e tutti gli strumenti bellici a
mia disposizione hanno manifestato tutta la loro inefficacia nei
numerosi pizzichi disseminati in modo più o meno casuale su gambe e
braccia. Fortunatamente, nonostante inquietanti avvertimenti riguardanti
la presenza della malaria sull’isola, sono ancora qui, vivo e vegeto.
Il giorno dopo l’ho dedicato agli spostamenti. Un piccolo pulmino preso
a Ban Phe (250 Bath) mi ha portato fino a Bangkok, si era pattuito di
lasciarmi al Southern Bus Terminal, ma l’autista, bontà sua, ha trovato
più opportuno risparmiarsi due ore di traffico e lasciarmi dalla parte
opposta della città, sul lato orientale. Ho raggiunto la stazione nel
primo pomeriggio e ho trascorso il resto li attorno, in attesa del Bus
per Krabi che partiva alle otto di sera. L’attesa alla stazione è stata
qualcosa di indescrivibile, non per il tempo e la noia, non il caldo,
non la stanchezza. La cosa incredibile è stata la gente, la folla! Mai
vista una cosa del genere. La confusione era tale che anche quando il
pullman aveva già lasciato Bangkok mi è rimasto il dubbio di aver preso
quello sbagliato. Era come se avessero aperto le porte del paradiso e i
meno meritevoli fossero andati di buon ora ai cancelli con la speranza
di trovare un posto che credevano di non meritare. La gente si accalcava
ai banchi informativi adiacenti ai posteggi per avere informazioni sul
proprio bus, prendere il biglietto per il bagaglio o solo nella
fiduciosa attesa che si scoprisse un altro posto libero e nel mentre
decine di bus si alternavano spingendosi e rovesciando cataste di
bagagli pur di trovare posto nel parcheggio di competenza: l’Asia.
Il viaggio verso Krabi è stato... è stato... soporifero. Ho dormito come
un bimbo, forse mezzo sdraiato sul giovane militare che mi sedeva a
fianco o forse ridotto a cuscino del medesimo militare, chissà. Arrivato
in città ho facilmente trovato da dormire poco distante dalla via
principale, in un bungalow, con bagno in comune che usavo solo io,
immerso nel verde, alla modica cifra di 100 Bath a notte. La città in se
non offre granché ma non mi è dispiaciuta. I turisti che frequentano la
zona preferiscono dormire a Ao Nang e quindi la città mi è sembrata
risultare serenamente tailandese. La zona attorno è meravigliosa,
altissimi faraglioni di roccia calcarea fanno ombra a chi gli pare e
minuscole e bellissime spiagge si susseguono a poche decine di metri
l’una dall’altra, anche le isolette attorno sono belle e Ao Phra Nang
(Railay Beach) è meravigliosa. Sono stato a Krabi 4 giorni in modo da
avere una base tranquilla dove passare il capodanno.
Credo che la cosa che ricorderò con più lucidità di questa breve
permanenza saranno le mongolfiere, sono rimasto almeno un’ora a
guardarle la notte di capodanno sulla spiaggia di Ao Nang. Le
mongolfiere di cui parlo erano dei grossi cilindri di carta sul cui
fondo, unico punto aperto, veniva legata una qualche fiammella. Dopo
averla accesa bastava attendere pochi momenti: il cilindro si gonfiava,
lentamente la mongolfiera si alzava e infine se ne andava, diventando
solo una luce nel cielo mentre raggiungeva le altre. Nel buio non era
difficile contarne centinaia, migliaia. I cartelli dei venditori
esortavano e invogliavano all’acquisto proponendo un baloon in memoria
delle vittime dello Tzunami ma credo che a quelle finte stelle ci
fossero appesi, più che tristi ricordi, solo semplici e privati
desideri. Nel mentre le mongolfiere aumentavano. Salivano, a volte,
dritte e decise, raggiungendo il cielo in un baleno. Altre volte
disegnavano incerte traiettorie sinusoidali sfiorando quasi l’acqua e
lasciando l’improvvisato pubblico di turisti col fiato sospeso, come se
alla mongolfiera altrui avessero appeso anche un pezzetto dei loro sogni
e quasi si sentissero in colpa che quel loro desiderio gravasse tanto da
determinare quel percorso incerto... tutto però, quando anche le più
timide volavano via, finiva in applauso. Si può pensare che la
traiettoria potesse dipendere dalla perizia di chi preparava la
mongolfiera o forse dal vento o dal caso, ma la tentazione di
convincersi che le traiettorie dipendessero dai desideri espressi era
troppo forte e dopo pochi lanci anche io, come forse altri, ho ceduto.
Mi piacerebbe poter dire che tutti i palloni sono diventati stelle, mi
piaceva l’idea di donare a tutti fortunati presenti, e quindi anche a
me, il medesimo felice destino, l’avverarsi dei propri desideri, ma
ovviamente non è stato così, alcuni sono tristemente finiti in acqua.
Una ragazza giapponese ha provato ad incitare il suo per qualche minuto
ma non c’è stato nulla da fare. Forse ha avuto troppa fretta nel
liberare il pallone o forse a quella mongolfiera ci appeso un desiderio
troppo grande, troppo pesante per un pallone di carta di riso.
A volte il destino delle mongolfiere si poteva prevedere guardando chi
si accingeva a liberarle. Un occidentale, un tipo sui cinquanta, grosso,
con la faccia da marinaio stanco di star per mare, stava li con la sua
compagna tailandese e la figlia circa quindicenne molto probabilmente
avuta con una moglie europea. Il tipo ha diligentemente comprato tre
palloni, uno per ogni permutazione possibile di quella nuova famiglia
“made in Thailand”. Il primo pallone è volato via rapidamente come se
avesse un motore, l’aveva lanciato lui con la sua nuova lei. Il secondo
sempre affidato a lui ma questa volta in compagnia della figlia, ha
tentennato un poco, volando per un po’ parallelo al mare ma tutto
sommato senza preoccupare troppo i presenti, il suo destino era
ovviamente già segnato e poco dopo l’ha raggiunto in cielo insieme agli
altri. L’ultimo, alle cure di figlia e nuova moglie, ha avuto una
partenza più difficile, sembrava non aver voglia di alzarsi, quando è
stato liberato ha indugiato per un po’ lungo la battigia, si è poi
alzato di qualche metro per guadagnare il mare ma di li a poco ha
cominciato ad abbassarsi: terrore. Un benevolo alito di vento che pareva
venisse dai polmoni del marinaio con la faccia triste l’ha però
riportato su per riprendere, poco dopo, la sua nuova parabola
discendente puntando inesorabilmente il mare e ancora una volta qualcosa
l’ha risollevato per disegnare ancora quattro o cinque curve come
questa. Troppi desideri contrastanti appesi a quel pallone, forse troppi
sogni disattesi. L’ultima linea disegnata ha comunque puntato dritta
verso il cielo, completando così, con i due precedenti palloni, la nuova
micro costellazione familiare. Leggere in anticipo i percorsi di quei
palloni era fin troppo facile e, in quella notte di capodanno davanti al
Mar delle Andatane, non poteva certo mancare il lieto fine. Davvero uno
spettacolo!
Si potrebbe pensare che, se delle esperienza vissute a Krabi quella che
amo ricordare è un capodanno trascorso a guardare palloni volare, la
zona non offra molto ma non credo sia così. La zona come già detto è
molto bella e offre quasi tutto quello che si possa cercare. A krabi ho
cercato relax e l’ho trovato proprio lì, dietro ogni angolo.
Ho comunque lasciato Krabi senza indugi, la mia prossima destinazione
era Koh Phi Phi, da molti descritta come una delle isole più belle delle
Thailandia, non ha deluso le aspettative. Koh Phi Phi è in realtà un
arcipelago di due isole, Phi Phi Don e Phi Phi Leh. La prima è la più
grande ed è anche l’unica dove è possibile soggiornare. Trovare un
alloggio economico non è stato semplice anche perché se non si è
prenotato nulla non viene spontaneo muoversi in barca per cerca dove
dormire. Quando si arriva sull’isola si approda a Ton Sai e le
possibilità sono due: o si cerca un alloggio nel paese, con tutti i pro
e i contro, oppure si noleggia una barca che ti porti nei vari bungalow
disseminati sull’isola, per raggiungere i quali non c’è nessuna via
sulla terra ferma. Ho scelto la prima soluzione un po’ per risparmiare,
a Ton Sai spendevo 500 Bath a notte, e un po’, essendo arrivato
sull’isola in perfetta solitudine, con la speranza che il paese avesse
una vita più vivace delle belle spiagge che circondano l’isola. Anche in
quella circostanza sono stato fortunato, il paese è reso decisamente
vivace dai miliardi di turisti che lo popolano e risulta facilissimo
trovare persone con cui dividere il costo del noleggio di una barca e
con cui condividere una mezza giornata a spasso tra le cale più nascoste
dell’isola. A Phi Phi Leh ho dedicato una mezza giornata è davvero non è
stato abbastanza. L’isoletta è una meraviglia e il mare e le spiagge
sono da... troppo facile dire che sono da film viste in quelle acque è
stato girato “The Beach”. Ao Maya, la spiaggia usata come location per
le riprese, è da star male, il tramonto li è meraviglioso, il sole cade
lento e silenzioso e rende l’atmosfera tanto romantica che se un riccio
di mare mi avesse chiesto di sposarlo non sarei stato in grado di dirgli
di no! Che spettacolo la Thailandia.
Purtroppo non sono potuto stare tutto il tempo che avrei voluto
sull’isola anche perché, eccezion fatta per Pattaya, era il posto più
caro dove sono stato e, a parte per il magiare e il dormire, a Koh Phi
Phi è davvero troppo facile spendere soldi: corsi di sub o immersioni
singole, semplice snorkelling o gite alla ricerca di squali (dove ho
chiesto mi hanno detto che se non fossi riuscito a vederne mi avrebbero
reso i soldi), paracadute ascensionale o escursioni per fare free climb.
Non ci si annoia certo a Koh Phi Phi ma non è esattamente il posto
ideale per chi sta cercando di fare un viaggio in economia.
Ho lasciato Koh Phi Phi un po’ triste, mi dava l’idea di non aver
vissuto a pieno l’isola ma al contempo ero anche felice di cambiare
posto. Il posto era davvero così bello che a volte metteva malinconia.
Inoltre, vuoi per l’erba comprata lì, davvero pesante e da assumere con
gran moderazione, vuoi per il trip sul bipensiero che mi si è insinuato
leggendo Orwell, una notte mi ha preso a brutti pensieri e il mattino
dopo ho lasciato l’isola. Avevo pensato di lasciarci anche “1984” e di
scambiarlo con qualche altro libro in una delle tante librerie che
offrono servizi come questo ma nessuna ha voluto un libro in italiano.
Sicuramente sull’isola ho lasciato i miei occhiali da vista, o meglio li
ho lasciati sul fondo dello splendido mare che la circonda, tuffandomi
da una barca senza levarmeli, vuoi per il richiamo del mare più bello
visto in Thailandia o, anche qui, vuoi per l’erba davvero pesante e da
assumere con gran moderazione.
Un’enorme e anonimo traghetto mi ha poi portato a Koh Lanta, una grossa
isola poco distante. Koh Lanta è strana, sembra l’anticamera di Koh Phi
Phi. Il mare è bello ma non splendido, si trovano tanti turisti ma mai
troppi, ci sono molti servizi ma non più di quanti ne servono. Koh Lanta
mi è davvero piaciuta tanto, ho trovato un bungalow stupendo a pochi
metri dal mare, alla fine di Long Beach per soli 200 Bath e nel bar del
resort, il Lapala, facevano le macedonie più abbondanti e il the freddo
più buono di tutta la Thailandia. Il proprietario, un ragazzo di non più
di vent’anni, era un grande appassionato di galli da combattimento e il
prato di fronte alla mia stanza era il loro campo di allenamento,
parlando con lui (ma come cacchio si chiamava??) e sfogliando le
incomprensibili riviste scritte in thai dedicate all’argomento, mi sono
fatto una mezza cultura tanto da sentirmi addirittura pronto a puntare
qualche bath su un combattimento vero, purtroppo non c’è stata l’occasione.
A questo punto del viaggio avevo ancora quindici giorni dei quaranta
totali e volevo usarli al meglio. Ero certo di voler passare gli ultimi
quattro a Bangkok e di usare i giorni necessari a prendere il brevetto
della PADI a Koh Tao, il resto era da decidere. In ballo c’erano Koh
Phan Ngan, Koh Samui, un qualcosa lontano dal mare oppure fare una
risalita verso Bangkok molto lenta e vedere un po’ di Thailandia meno
battuta dai turisti. Alla fine mi sono lasciato prendere dalle
descrizioni della Lonely Planet (La LP della Thailandia... :-( che
delusione) e ho puntato verso il Khao Sok National Park, pensando di
starci poco e permettendogli di rubare a Koh Samui i giorni che riteneva
necessari. Speravo di poter vedere qualche animale selvaggio, la guida
parlava addirittura di tigri e di elefanti, ma nulla. Volevo vedere il
famoso fiore più grande del mondo, quello che puzza di carne marcia, ma
non era stagione. Al parco ho trascorso tre giorni, la prima notte ho
dormito al Bamboo House, un resort vicino al centro visitatori del
parco, 150 Bath per una finta casa sugli alberi, davvero carina. Dai
gestori ho comprato anche la partecipazione ad un trekking di due giorni
sul lago. Nonostante i motivi per cui ero arrivato al parco siano stati
disattesi, non posso certo dire che non sia stata un’esperienza
interessante. La notte si dormiva su delle enormi zattere sulle quali
erano costruite delle piccolissime e traballanti capanne. Il “materasso"
era poggiato direttamente sul pavimento di canne tra le quali si vedeva
l’acqua del lago che stava a meno di quindici centimetri: meraviglioso.
Il trekking è stato davvero divertente, con una guida e un gruppo di
altri sei turisti ci siamo addentrati nella più classica delle foreste
tropicali, in mezzo ad enormi liane, strane piante sensibili al
contatto, scimmie e uccelli invisibili, per non farci mancare nulla la
guida ci ha fatto attraversare tanti fiumicelli in modo da avere
l’occasione di spiegarci i rischi che si potevano trovare con le
sanguisughe, ed io e un ragazzo tedesco, per non farci mancare nulla,
siamo stati lieti di supportare la spiegazione della guida mostrando le
sanguisughe che ci si erano attaccate sulle gambe. Scopo del trekking
era il raggiungere una grotta bellissima che stava ad una mezza giornata
di distanza, purtroppo non eravamo l’unico gruppo di escursionisti
presenti, ma la “folla” ci ha comunque concesso di vivere a pieno tutte
le emozioni: abbiamo attraversato fiumi sotterranei dove non si toccava
e se non ci si teneva a della corde attaccate alle pareti si veniva
trascinati via dalla debole corrente, ci siamo rinfrescati in cascate
meravigliose che si perdevano dentro anfratti, abbiamo visto miliardi di
pipistrelli filosofeggiare a mezzo metro dal nostro naso, insomma
abbiamo visto cose che noi umani non possiamo nemmeno immaginare :) .
Ho lasciato Khao Sok National Park fremente, non vedevo l’ora di tornare
al mare e soprattutto di arrivare a Koh Tao e immergermi nel
meraviglioso mondo delle immersioni marine. Il viaggio per arrivare
sull’isola è stato di quelli che non si dimenticano. In bus fino a
Suratthani e da lì in barca fino all’isola. Ci si può imbarcare
scegliendo soluzioni diverse, io ho scelto la night boat,
straconsigliata da tutti le persone con cui ho parlato e hanno fatto lo
stesso spostamento. La night boat, o battello notturno, è una sorta di
enorme peschereccio che parte verso le 23 e arriva sull’isola all’alba,
ovviamente, manco a dirlo, è anche il mezzo più economico per
raggiungere Koh Tao da Suratthani. La barca carica ogni notte tutto ciò
che serve all’isola per poter viziare i suoi turisti e soprattutto i
turisti da viziare. Si dorme tutti assieme nella stiva, cinquanta posti
letto se non ricordo male, ci sono materassi posati per terra stretti
quanto un tailandese mingherlino e lunghi molto meno di me. I miei piedi
andavano ad occupare parte dei gradini che portavano all’uscita di
sicurezza e le mie spalle parte dei materassi vicini, non diversamente
stavano i due turisti che avevo di fianco, uno spasso. Nonostante tutto
sono arrivato a Koh Tao riposato. Sull’isola ho alloggiato presso il
centro di diving scelto per il corso. Ho scelto il Dive point, i prezzi
erano uguali in tutta l’isola (8000 Bath per il brevetto Open Water) ma
nel mio bazzicava anche un istruttore free lance italiano e ho preferito
fare il corso con lui. Non volevo trovarmi nella triste situazione di
morire sott’acqua per non aver compreso il senso della frase “remember
to check if your regolator is opened”. L’istruttore, Diego, è un ragazzo
di Genova di ventitre anni, vive a Londra ma d’inverno lavora a Koh Tao
e d’estate ad Ibiza, se può si fa la stagione primaverile nella zona di
Cancun, ho pensato in più di un’occasione di consigliargli di provare a
farsi l’autunno a fanculo: non può far morire d’invidia chi vive
lavorando davanti ad un monitor. Ho desistito, era troppo simpatico e la
mia vita era nelle sua mani ;-)
Il corso è durato tre giorni ed è andato tutto alla perfezione, le mie
prime immersioni sono state semplicemente fantastiche, difficile
descrivere la sensazione che si prova a stare sott’acqua per la prima
volta senza disturbare chi ci abita, Koh Tao mi ha regalato una nuova
passione e non vedo l’ora di consumarla anche qui in Sardegna. Finito il
corso mi sono trattenuto altri due giorni sull’isola, non riuscivo ad
andarmene, a smettere di fare immersioni: una droga. Mi sono dovuto
imporre di andar via e come scusa ho usato il Full Moon Party, che come
si può facilmente intuire non capita tutti i giorni. La festa, come
amano dire i locali, è il più grande party sulla spiaggia del mondo e si
tiene a Koh Phan Ngan tutte le notti di luna piena. Sono arrivato
sull’isola il pomeriggio della festa e trovare da dormire vicino alla
spiaggia a prezzi economici mi è risultato impossibile, gli alloggi,
economici o no, erano tutti occupati. Per trovare un bungalow ho dovuto
affittare l’ennesima motoretta e spostarmi di qualche chilometro da Haat
Rin: sono stato fortunato. Il bungalow era uno spettacolo, come al
solito spoglio di qualsiasi cosa non fosse assolutamente utile, nella
fattispecie letto e zanzariera. E’ posizionato sopra una scogliera alta
una cinquantina di metri che cade quasi verticalmente su una piccola
spiaggia di sabbia dorata che impedisce alla tranquillissime onde di
picchiare inutilmente sugli enormi massi sui quali, per l’appunto, si
reggeva il bungalow. Il sole, grasso come un ricco cinese, decideva,
incredibile a dirsi, di suicidarsi ogni sera esattamente davanti alla
mia finestra ed io, inerme, l’ho lasciato fare godendomi lo spettacolo.
Sistemato il bagaglio mi sono buttato in spiaggia per mangiare e
rilassarmi un pochino prima della festa: panino e birra. Ho chiesto il
conto ma la cameriera mi ha portato un’altra Chang, “Ma avevo chiesto il
conto non un’altra birra”, e lei “scusami avevo capito male”: “bill”,
“beer” è un casino con sta “R” farlocca che si ritrovano. Poco male, mi
sono bevuto la birra e poi come ha detto lei “more Chang... more fun!”:
ottimo inizio.
La festa sulla spiaggia è tutta da ridere, comincia all’imbrunire e
finisce quando svieni. Ogni metro c’è una bancarella per comprare da
bere e se non hai voglia di birra puoi sempre optare per il secchiello
della felicità, un secchiello di quelli che usano i bambini per fare
castelli di sabbia riempito di ghiaccio e poi di tutto quello che hai
voglia di bere, il tutto per 200 bath, e dopo un paio di quelli capita
che poi ti ritrovi davvero a fare castelli. Io sono svenuto attorno alle
tre ma il mattino dopo verso le 10 ho visto che i più coriacei stavano
appena lasciando la spiaggia, probabilmente, in una vita precedente, ai
tempi di Re Artù, erano tutti grandi ingegneri.
Sull’isola mi sono trattenuto poco e il poco che ho visto mi è piaciuto
parecchio. Nonostante ad Haat Rin si avesse quasi difficoltà a trovare
uno spazio per sdraiarsi è facile trovare altre spiagge, altrettanto
belle, dove godersi sole e mare in quasi assoluta solitudine.
Ho lasciato l’isola due giorni dopo la festa, triste per la
consapevolezza che il viaggio stava ormai volgendo al termine ma curioso
come un pazzo, mi stava aspettando Bangkok. L’ho raggiunta, nuovamente
via Suratthani, prendendo per la prima volta il treno. I posti letto di
seconda classe sono spettacolari, un po’ più cari dei bus ma sicuramente
molto più comodi. Indubbiamente il mezzo migliore per spostamenti che
durano una notte intera. Si dorme tutti assieme in un’unica
cabina-vagone ma i letti sono protetti da una tendina che ti consente di
dormire sereno e hanno tutti una luce “privata” che ti permette di
leggere senza disturbare. Il treno è stato puntuale sia alla partenza
che all’arrivo e alle otto del mattino ero alla stazione centrale di
Bangkok. Da li ho preso un bus di linea, quelli senza aria condizionata,
che per 7 bath mi ha portato nella zona scelta per cercare un alloggio:
Banglampoo. Trovare da dormire vicino a Khao San Road è facile quanto
trovare un cinese a Pechino, ci sono decine di alberghi e guesthouse di
tutti i prezzi e per tutti i gusti, io mi sono buttato su una abbastanza
economica e con bagno in camera, prezzo 150 bath.
Le poche giornate trascorse a Bangkok, a parte la visita al palazzo
reale, le ho dedicate allo shopping, non avevo ancora comprato
praticamente nulla per non appesantire il sacco e mi sono fatto
facilmente affascinare dall’idea che girare per mercati fosse un buon
modo per conoscere una città, quindi una giornata a spasso per il
quartiere indiano e quello cinese e un’altra di corsa tra un battello e
un tuk tuk per visitare i mercati più moderni. Inutile dire che fare
compere a Bangkok da una certa soddisfazione, ho comprato di tutto
riempiendo una nuova enorme valigia, pantaloni, camicie, borse,
cravatte, lampade, sopramobili e non sono riuscito a spendere più di 150
euro, che spettacolo!
Le notti di Bangkok sono state un altro tuffo in un mondo davvero
inconsueto, almeno per me. La zona di Patpong e il Nana Plaza
riuscirebbero a far arrossire i più affezionati frequentatori della Red
Zone di Amsterdam. Il sesso in tutto le salse, per gioco, per noia, per
provare, per ridere, per raccontare e, ovviamente, per denaro. A
Bangkok, come nel resto della Thailandia, fortunatamente non ho comunque
avuto modo di vedere le scene raccapriccianti di cui spesso si sente
parlare. Bambine o bambini in vendita manco uno. Nessuno vecchio
occidentale in compagni di tredicenni. Niente di tutto ciò. Certo ho
visto parecchi occidentali in compagnie di prostitute e molti vecchi
occidentali in compagnia di belle e giovani prostitute, ma credo che a
riguardo nessuno possa sentirsi offeso, d’altronde nulla di diverso da
quello che succede in tutte le nostre città.
Spettacolare è stata anche la serata passata al Lumpini Stadium per
vedere qualche match di Muay Thai. Entrare allo stadio è tutt’altro che
economico, 1500 bath per tutti i turisti contro i 200 del biglietto per
i tailandesi ma, passato il fastidio per l’antipatica diversificazione,
si può godere di uno spettacolo davvero singolare. Nella serata in cui
sono andato io c’erano sette incontri, tutti abbastanza avvincenti. Il
pubblico era posizionato tutto attorno al ring su sedie o poco più
distante su gradinate. Un lato del ring era occupata dalla banda
musicale che accompagnava ogni incontro col suono di strani strumenti
dai quali usciva un rumore quasi stridulo e tutti contribuivano a
formare una musica ripetitiva, molto ritmica, a tratti quasi fastidiosa
che faceva da sottofondo all’incontro. Sul ring i lottatori passano
quasi tutto il tempo a studiarsi ballonzolando da un piede sull’altro
senza mai perdere il ritmo che la musica sembra proporgli e pare quasi
che scelgano il momento per sferrare il calcio o il pugno in modo che
questo non risulti disarmonico rispetto alla danza fino all’ora
eseguita. Ho sentito spesso parlare della capoeira come una danza simile
ad un’arte marziale, mi vien da dire che la box tailandese è l’arte
marziale più elegante e simile ad una danza che abbia mai visto, davvero
coinvolgente, affascinante.
Il resoconto, o come mi pare di aver capito si usi dire qui sul news
group, la recensione sarebbe terminata e sono davanti al monitor
aspettando che mi venga in mente una frase di chiusura, poche parole che
racchiudano il senso del viaggio che ho provato a raccontarvi, ho appena
capito che quelle parole non sono in grado di scriverle quindi non mi
resta che ringraziare tutti quelli che hanno avuto la pazienza di
leggere questo lunghissimo resoconto.
Ancora grazie a tutto il NG.
Ivan
PS
Un grazie particolare a chi mi ha consigliato di portarmi dietro “un
indovino mi disse”. Il libro mi è piaciuto davvero tanto e Terzani mi ha
davvero affascinato.
finalmente ho trovato un po’ di tempo e di voglia per scrivere il
resoconto del viaggio in Thailandia. Spero che possa in qualche modo
esservi utile e possa ricambiare i mille consigli che mi avete dato
prima di partire. E’ decisamente lungo ma come diceva Pascal, “Ho
scritto un racconto più lungo del solito, semplicemente perché non ho
avuto il tempo per farlo più corto” e scopiazzando dal diario tenuto in
viaggio sono uscite miliardi di pagine. Abbiate pazienza :(
Devo ringraziarvi inoltre per avermi chiesto di scrivere il resoconto.
L’essermi preso “l’impegno” con voi mi ha dato lo stimolo per stare
qualche ora davanti al pc a ripercorrere con attenzione i miei primi 40
giorni orientali, cosa che mi ha consentito di riordinare idee e
sensazioni e di fissarle su “carta”. Grazie.
*PS*
Ho inserito alcune foto del viaggio su pbase: http://www.pbase.com/ivan76/
*Resoconto*
Grazie alla meritoria China Airlines e dopo dieci ore di soporifero
volo, sono arrivato a Bangkok il 14 di dicembre dell’anno appena
terminato. Sono sceso dall’aereo con la convinzione di seguire il piano
di lasciare subito la capitale nuova per visitare la più tranquilla
capitale vecchia. Essendo partito solo col mio sacco non avevo da
attendere bagagli, quindi appena sceso dall’aereo sono andato a piedi
alla vicinissima stazione dei treni. Destinazione Ayuthaya, raggiunta in
circa una mezz’ora e per pochi bath ma con in testa ancora strani dubbi
riguardo alla sua pronuncia: Ayuthayà, Ayuthàya... o forse Ayùthaya.
Arrivato in città ho preso una stanza al Tony’s Place, un posto carino,
in una comoda posizione e soprattutto economico, 200 bath per una camera
pulita e spaziosa senza il bagno. Qui ho trascorso la mia prima notte in
oriente e due giorni pieni, abbastanza stancanti. Per visitare i vari
templi sparsi all’interno del parco storico ho noleggiato una
bicicletta, caldo e voglia non consentivano che un’andatura moderata e
le due giornate sono volate via rapidamente. Tra i vari Wat visti mi va
di ricordare il Wat Phanan Choeng visitato la seconda sera. Un tempio
relativamente moderno e certamente meno suggestivo di altri visti ad
Ayuthaya prima e in tutta la Thailandia poi, ma ricordo bene questo
perché ero, se non l’unico turista, sicuramente l’unico occidentale. Qui
mi sono sbilanciato nella mia prima pratica buddista: ho acceso qualche
incenso e ho donato un fiore di loto all’immenso Buddha in bronzo
posizionato nella sala principale. Ho cercato di imitare i presenti ma
mi sono sicuramente incasinato buttando via la sottilissima foglia d’oro
da appiccicare al Buddha, credo nella parte per la quale si chiede la
guarigione. Peccato, mi avrebbe pure fatto comodo. Prima di uscire,
riparato dalla mia solitudine, mi sono addirittura prodigato in un breve
ma sincero inchino. Ho provato una strana sensazione, difficile da
decifrare. Nulla di mistico, purtroppo. Mi sono invece quasi vergognato,
un po’ perché stavo contravvenendo al mio tanto sbandierato ateismo, un
po’ perché lo stavo facendo più per spirito di partecipazione che per
uno slancio religioso. Vabbé sicuramente nessuno l’ha trovato fuori
luogo, come detto, ero solo.
Restituita la bici e liberata la stanza ho fatto un bel giro per i
vicoli del mercato di Chao Phrom. La Lonely Planet lo indicava come un
possibile posto dove mangiare: non mi è venuta fame! Lo so che la carne
esposta li è la stessa che ritrovavo nei piatti dei ristoranti, ma
odori, insetti e sporcizia non erano proprio da acquolina in bocca, poi
tra zampe di gallina e strani pesci, il vedere esposte anche tartarughe
di tutte le dimensioni e rospi grandi quanto principi normanni mi ha un
po’ inquietato. Non sto qui a dirvi che questo tipo di reticenze le ho
lasciate in quel mercato e da allora ho mangiato praticamente di tutto
ed ovunque, anche se gli scarafaggi essiccati davvero sono stati una
barriera insormontabile. Al Tony’s Place ho acquistato il biglietto del
bus notturno per spostarmi a Chang Mai: 350 bath e dieci ore. Il bus era
uno di quelli turistici, enorme e a due piani, con colori e disegni
discutibili. I sedili erano abbastanza scomodi e l’aria condizionata
troppo... condizionata, fortunatamente ero stato avvertito e mi ero
tenuto a portata di mano un maglione: utilissimo. Con me avevo anche
qualche mandarino e dell’acqua che uniti ad un sonno da tenere al
guinzaglio hanno composto un bagaglio più che sufficiente per completare
lo spostamento.
A Chang Mai non ho avuto nessuna difficoltà a trovare un comodo
alloggio, tra le altre cose il più economico in cui sono stato, 90 bath,
presso la Lamchang Guesthouse. Nella capitale del Nord mi sono
trattenuto 4 notti, forse una di troppo all’interno dell’economia del
viaggio. Anche se decisamente meno turistica di altre località Chang Mai
è in grado di offrire qualsiasi cosa, mercati belli ed economici,
meravigliosi wat, parchi ricchi di vegetazione e animali, uno grande zoo
e tutto quello che non è a portata di mano o di motorbike e facilmente
raggiungibile acquistando uno dei mille servizi offerti dalle numerose
agenzie di viaggi. Tra le varie esperienze vissute a Chang Mai mi sembra
doveroso segnalare il mio primo massaggio tradizionale tailandese,
presso l’Old Medicine Ospital, che ospita anche una scuola dove poterne
apprendere l’arte. Che meraviglia. La massaggiatrice non rappresentava
esattamente lo stereotipo di tailandese gnocca, era più che altro una
donna al cubo, ma il messaggio è stato spettacolare, decisamente poco
rilassante e talvolta anche doloroso ma finita la seduta stavo talmente
bene che durante il resto del viaggio non ho dovuto cercare scuse per
ripetere l’esperienza.
Altra esperienza singolare che mi va di raccontare è stata la scalata al
Doi Suthep. Avevo ancora la moto in affitto ma ho deciso di lasciarla a
valle e salire a piedi, il tutto per il mio solito spirito di
emulazione. L’aveva fatto infatti Corrado Ruggeri e l’ha brevemente
raccontato in “Farfalle sul Mekong” (uno dei libri che mi sono portato
dietro). So che cercare di scopiazzare esperienze di altri lette in un
libro non è il massimo ma... che dire... credo davvero ci sia di peggio.
Ho iniziato la “scalata” di buon ora, alle otto meno un quarto ero già
in cammino, con la vana convinzione di evitare il caldo. Ho cominciato
con un buon passo, superando addirittura un gruppo di giovani bonzi. Lo
spirito è rimasto alto fino a quando, già stanchissimo, ho trovato il
primo cartello. Speravo di essere circa a metà dell’opera ma la
segnaletica mi annunciava beffardamente che ero si alla metà ma della
metà del percorso. Avevo percorso solo tre dei dodici chilometri che
portano al tempio. Intanto i passeggeri dei sawngthaew (i taxi pick-up
che si trovano ovunque in Thailandia) mi salutavano con sorrisi ironici
che sembravano ricordarmi quanto fossi inconsapevole di cosa mi
aspettasse, non avevano tutti i torti, la parte più difficile doveva
ancora arrivare. Un ragazzo tailandese mi ha addirittura salutato come
si deve ai monaci, bastardissimo! Intanto i piedi mi facevano un male
cane... le stronze Superga che indossavo non erano certo adatte alla
camminata, ho provato a fare qualche metro scalzo, follia. Le bolle sui
mignoli facevano male davvero e in più di un’occasione ho pensato di
cedere, fermare un bus, un pick-up, un motorino, un elefante o il santo
protettore di chi cerca passaggi, dargli tutti i bath che voleva e
salire con lui. Nel mentre, però, continuavo a salire e le espressioni
di chi mi superava cominciavano a cambiare, oppure ero io ad aver
bisogno di leggere in quei visi incoraggiamento e non scherno, fatto sta
che ogni pollice rivolto verso l’alto mi ha fatto fare qualche centinaio
di metri fiducioso, senza dubbi e perplessità. Sono arrivato al tempio
stanco come mai in vita mia, dopo circa due ore e mezza: trenta minuti
in più dei bonzi ma anche trenta in meno del giornalista-scrittore. La
mia fatica, però, non era terminata, ancora 306 gradini mi separavano
dalla meta: non sono stati un problema. La scalinata bella com’è pareva
quasi una passerella d’onore messa li apposta per chi decide di salire a
piedi. Nelle scale almeno una decina di persone mi hanno fermato per
dirmi che mi avevano visto salire a piedi e per farmi i complimenti,
qualche giapponese ammiccava dicendomi che era una cosa buona per la
“forza”, non ho indagato sul significato recondito del termine.
Il tempio è comunque davvero bello anche se pieno di turisti, la maggior
parte dei quali tailandesi, il Wat Phra That Doi Suthep è infatti uno
dei templi più sacri del paese e merita davvero una visita anche se si
dovesse decidere di raggiungerlo in maniera più comoda.
Ho lasciato Chang Mai per partecipare ad un trekking di due giorni nelle
campagne poco più a nord della città. Ho acquistato il pacchetto presso
un’agenzia ma praticamente tutte le guesthouse offrono servizi identici
anche se forse un po’ più cari. Io ho speso circa 1200 bath.
L’escursione era organizzata alla perfezione e oserei dire anche troppo,
ingenuamente speravo potesse essere un modo per vedere un pizzico di
Thailandia non corrotta dal turismo e non è stato così, davvero.
L’escursione è stata comunque divertente. Le campagne che abbiamo
attraversato erano veramente molto suggestive e il villaggio Karen (una
di quelle che chiamano Tribe Hill) era spettacolare. Non eravamo certo
il primo gruppo di farang che mettevano piede in quelle terre ma per me
è stato davvero qualcosa di nuovo. Un breve tuffo in qualcosa che credo
assomigli alla vera cultura thai di qualche decennio fa e che oggi sta
forse vivendo quella fase di transizione che le città hanno vissuto da
tempo. Lì si vedevano ancora chiare le contraddizioni tra ciò che era e
ciò che qualcuno ha deciso dovrà essere: tra la biancheria stesa si
alternavano t-shirt nike con costumi tipici delle tribù del nord e le
palafitte, case per i karen ma anche per porci e galline che vivono tra
i pilastri, sono alimentate da piccoli pannelli solari.
Il trekking comprendeva anche un due ore di “elephant riding” in mezzo
alla foresta e rifting su una zattera fatta con enormi bamboo: uno spasso.
Siamo tornati dall’escursione verso le cinque del pomeriggio, il tempo
per farmi una doccia nell’agenzia di viaggi (quando si dice servizio
completo :) e poi volare verso la stazione dei bus.
Ho preso il biglietto per Bangkok su un autobus di seconda classe, un
po’ più caro di quello dell’andata ma decisamente più comodo e
soprattutto pieno di tailandesi e non di miei vicini di casa. Sono
arrivato all’Eastern Bus Terminal prestissimo, ho acquistato un
biglietto per Aranya Prathet e sono partito senza dove attendere più di
qualche minuto, prezzo 150 bath e 5 ore di viaggio. Avevo già il visto
per la Cambogia, l’ho fatto in un’agenzia a Chang Mai pagandolo trenta
dollari invece che i venti che avrei speso al confine, poco male. Ho
passato la frontiera senza nessun problema e accompagnato da un giovane
cambogiano che, mentre rispondeva alle mie domande, cercava di vendermi
il biglietto del bus per arrivare a Siem Reap. “Com’è che abbiamo
superato il confine della Thailandia e nessuno ci ferma?”, “Perché non
siamo ancora entrati in Cambogia, siamo in terra franca” fa lui. “Come?
500 metri di terra franca?”, e lui prontamente “Il discorso è che hanno
spostato il confine Cambogiano per far posto ai Casinò!”. Assurdo! Tra
le due frontiere c’è davvero una concentrazione di case da gioco degna
di Las Vegas, ricchi tailandesi si avvicendano tra i vari hotel a 5
stelle accompagnati da procaci donzelle e attesi da limousine bianche,
duecento metri più avanti bambini di pochi anni muoiono di fame
dimenticati dentro cunette mute e invisibili, al riparo dagli occhi
indiscreti delle telecamere di sicurezza degli alberghi appena superati.
Da brivido.
A Poipet, la prima cittadina che si incontra entrando in Cambogia,
trovare un mezzo per raggiungere Siem Reap non è stato facile. Volevo
arrivarci con un pick up, avevo letto che era il mezzo più economico e
mi ero convinto fosse anche il più interessante. Trovarne uno è stata
una lotta. Sulla via principale decine di ragazzini autisti di mototaxi
insistono per portarti alla stazione dei bus che dista solo pochi metri
dal confine e cercano di persuaderti che questi siano gli unici mezzi
disponibili per lasciare Poipet. E i pick up? “I turisti non possono
usarli, è troppo pericoloso e la polizia non lo permette” questa era la
parola d’ordine sulla bocca di tutte le persone a cui ho chiesto, ho
insistito a lungo fino a quando la ragazza della biglietteria dei bus,
mossa a compassione o forse solo più gentile di altri personaggi, mi ha
spiegato il da farsi. Ho camminato per circa due chilometri lungo la
strada principale nella direzione opposta alla frontiera dribblando
venditori vari finché ho trovato il mio pick up che per circa quattro
dollari americani (usati alla frontiera e a Siem Reap quanto il Riel, la
moneta locale) mi ha portato prima a Sisophon e poi a Siem Reap. Non
credo di aver risparmiato tempo con questo mezzo alternativo e nemmeno
troppi soldi, perlomeno rispetto al bus (costava circa dieci dollari), e
fare il viaggio nel retro del furgone e tutt’altro che comodo, ma è
stata un’esperienza interessante, il pick up si è fermato decine di
volte in un continuo alternarsi di passeggeri e ho avuto modo di dare
rapide occhiate ai villaggi di passaggio. La LP diceva che le strade in
Cambogia sono notevolmente migliorate negli ultimi tempi, ora non so se
il pick up prenda una strada alternativa rispetto a quella dei bus (di
fatto non ne abbiamo incrociato), ma quella percorsa non era
propriamente agevole. Sui 130 chilometri percorsi quelli asfaltati si
potevano contare sulle dita di una mano e i ponti attraversati
sembravano sostenerci più per cortesia che per senso del dovere, fatto
sta che il viaggio è durato 5 ore durante le quali avrò respirato non
meno di due etti di polvere. Per il ritorno ho optato per un posto
all’interno del pick up, un po’ più caro ma decisamente più comodo e poi
c’era almeno la possibilità di fare un briciolo di conversazione.
Sono arrivato a Siem Reap di sera, ho facilmente trovato una guesthouse
carina con bagno in camera per due dollari a notte, incluso nel prezzo
anche un socievole odore di muffa col quale ho condiviso la mia
permanenza in Cambogia: la stanza era senza finestre. La cittadina offre
centinaia di sistemazioni per tutte le tasche e davvero parecchi posti
dove mangiare, Angkor richiama migliaia di turisti e Siem Reap offre
tutti i servizi di cui possono aver bisogno. Per quel poco che ho visto,
avendola girata solo di notte visto che passavo le mie ore diurne al
sito archeologico, Siem Reap mi è parsa carina e vivace ma nulla di più.
Mi sono trattenuto quattro notti e tre giorni anche se due, forse,
sarebbero stati sufficienti ma visto che il biglietto era stato pagato
(40 dollari per visite di 3 giorni altrimenti 20 dollari al giorno) l’ho
sfruttato per tutta la sua validità. Comunque sia in tre giorni non ho
mai visto due volte la stessa cosa, eccezion fatta per i templi che mi
sono piaciuti di più e che ho voluto rivedere a differenti ore del
giorno e quindi con luce diversa.
Angkor è un sogno. E’ talmente bella che pare finta. Angkor Wat è così
grande e decorato in maniera così spettacolare che non perdersi dentro
per una mezza giornata è davvero un peccato. Ma tutti i templi sono
meravigliosi. Il Bayon con le sue cento facce, il Ta Prohm e il Preah
Palilay sui quali la natura ha sconfitto l’ostinazione dell’uomo, il
Banteay Srei, noto come il tempio delle donne o della bellezza, è
piccolo e splendido. Non mancano certo i turisti ad Angkor ma il parco è
talmente grande che non è difficile visitarne alcune parti in perfetta
solitudine. La novità rispetto a quanto mi era stato detto è che oggi
non è più possibile affittare una motocicletta per visitare il parco,
perlomeno non è più possibile farlo in autonomia, in compenso farsi
portare da un tuk tuk o da una motoretta con autista è tutt’altro che
dispendioso. L’ultimo giorno ho affittato una bicicletta, non è stato
male, anche se i 30 chilometri fatti per arrivare al Banteay Srei sono
stati davvero un massacro, fortunatamente per il ritorno un gentile
operaio ha caricato me e velocipede sul retro del pick up: sia fatta
lode ai gentilissimi operai cambogiani.
Sono stato pochi giorni in Cambogia e il poco che ho capito di questa
terra mi ha lasciato tanta voglia di tornarci. Mi è sembrata un po’ più
“vera” di una Thailandia che si mette abito da sera e ombretto per
mostrarsi ai turisti, almeno la Thailandia con cui sono andato a cena
io. La Cambogia mi è parsa davvero diversa, ha tutto un altro odore
rispetto alla terra del sorriso. La guerra non passa senza lasciare
segni, è come una cagnaccio morto che non abbaia e non morde più ma la
cui carcassa puzza a dispetto delle frettolose palate di calce
rovesciategli sopra. Lungo le strade i cartelloni non pubblicizzano i
prodotti delle multinazionali ma ricordano, mostrando un mitragliatore
spezzato, che i cambogiani non hanno più bisogno di armi. Ci sono più
centri di riabilitazione e centri per la costruzione di protesi di
quanti tabacchini si trovino in Italia. La povertà c’è e la si respira
ad ogni passo. Quando cenavo nella bancarelle ero sempre circondato da
bambini che chiedevano soldi. Ho smesso di pensare che gli servissero
per droghe o per pagare il “pappone” di turno la prima sera, quando,
dopo essermi alzato, li ho visti precipitarsi al mio tavolo per divorare
il poco che era rimasto sui miei piatti. Non hanno mai disdegnato le
scodelle di riso che ordinavo per loro e per chissà chi altro. Metà la
mangiavano in un baleno l’altra metà veniva custodita in una bustina
offerta dal venditore e portata via tra mille sorrisi.
Della Cambogia non ho visto altro e davvero non mi è bastato, ero però
in viaggio già da due settimane e avevo troppa voglia di andare al mare,
di riposarmi, di stare al mare, di rilassarmi, di stare al mare: volevo
una spiaggia! Ho lasciato la terra dei Khmer percorrendo la medesima
strada usata all’andata ma diretto verso Ko Samet. La speranza, partendo
all’alba, era di arrivare all’isola in giornata passare li qualche
giorno in modo da poter fare poi il capodanno a Pattaya, come alcuni
italiani conosciuti in aereo mi avevano consigliato. “Il 31 vai a
Pattaya, vedrai che ti diverti!”. Avevo sottovalutato lo spostamento e
in una giornata non solo mi e’ risultato impossibile arrivare a Ko Samet
ma anche raggiungere Ban Phe (la cittadina dalla quale si prende il
traghetto per l’isola) o Rayong una città poco distante un po’ più
grande e dove sarebbe stato più facile trovare alloggio. Era già buio e
io stavo ancora a Chonburi così ho deciso di passare quella notte a Pattaya.
Sono arrivato a Pattaya verso le dieci di sera ed ho girato circa due
ore alla ricerca di un posto economico dove dormire: non l’ho trovato!
La stanza l’ho poi presa in un albergo per la bella cifra di 800 bath
(il posto più caro dove ho dormito in Thailandia) proprio nel mezzo
della Wolking Street, il fulcro (almeno spero) dell’animazione sessuale
della città. Pattaya è una città incredibile, assurda per certi versi.
Pattaya è una città dove ti capita di vedere un McDonald seguito da un
Kentaky Fried Chicken che precede un Pizza Hut dopo il quale c’è un
Burger King e quando ci passi davanti sei pure contento perché sono
l’unica pausa pubblicitaria tra le centinaia di go-go bar e, incredibile
a dirsi, sono gli unici posti in cui non ritrovi decine di giovani
palestrati amerigani giunti in branco a Pattaya nella speranza, forse,
di rivivere le atmosfere raccontate dagli ex militari che passavano lì
le loro settimane di congedo durante la guerra in Vietnam.
Due ore di passeggiata mi sono bastate. Due ore durante la quali sono
stato fermato da almeno un centinaio di prostitute vestite tutte come le
concubine porche di Babbo Natale. Due ore sono state sufficientemente
istruttive per convincermi a rifiutare il cortese suggerimento di chi mi
consigliava di passare lì il capodanno. Sono scappato da Pattaya il
mattino dopo per non tornarci di sicuro durante questo viaggio. Si fotta
Pattaya anche perché mi è davvero sembrato che lo stia già facendo.
Sono arrivato a Ko Samet il giorno dopo, all’ora di pranzo. E’ stata la
prima località di mare vista in Thailandia ma davvero non mi è rimasta
nel cuore. Troppi cantieri, troppo cara, troppi turisti. La spiaggia da
sogno, Coral Beach (Ao Kiew Na Nok), che la vecchia LP che avevo con me
descriveva come la più tranquilla e isolata oasi di pace per viaggiatori
zaino in spalla, non esiste più. Altri turisti mi avevano avvisato ma ho
voluto controllare di persona. Ho noleggiato il classico scooter, questa
volta nella versione enduro visto le condizioni delle strade (300 bath
per 24h) e ci sono arrivato davanti. Al bivio per la baia c’era una
sbarra con delle guardie che mi hanno bloccato impedendomi di entrare
anche solo per un’occhiata dicendomi che era proprietà privata, quando
ho fatto presente che ero un turista e come tale ero interessato a
visitare la struttura per prendere un bungalow mi hanno nuovamente
bloccato dicendomi che a petto nudo non potevo entrare. Ho chiesto
alcune informazioni, una notte nel nuovo resort costa tra i dodici e
sedici mila bath, circa 300 euro, li dove pochi anni fa si spendevano
tre dollari per dormire. Coral Beach non esiste più. Per non dare adito
a fraintendimenti gli hanno pure cambiato nome, ora si chiama Paradise
Beach. Coral Beach è scomparsa e Ko Samet, un immenso cantiere aperto
che cerca nuovi spazi per bungalow più accoglienti, sta scomparendo.
Forse, come dice Terzani, è l’Asia, l’oriente, la spiritualità delle
terre del sol levante che stanno scomparendo, che tristezza. Alla baia
sono comunque arrivato da una stradina laterale ed era davvero un
paradiso, ci ho passato due splendide mattinate in perfetta tranquillità
in solitaria compagnia di qualche tailandese intento a raccogliere
“pericolosissimi” pezzi di corallo e pietre non a tono col nuovo albergo.
Ao Kiew Na Nok all’alba è splendida, il mare è così calmo e limpido che
è facile lasciarsi prendere da mistici slanci di onnipotenza e pensare
di poterci camminare sopra, la sabbia è bianca e piatta con qualche
palma abusiva e tanti pezzi di corallo ad insidiare i piedi dei
miliardari più temerari. Ao Kiew Na Nok all’alba è deserta, i miliardari
in vacanza, giustamente, tendono a svegliarsi con comodo ma anche più
tardi turisti in spiaggia non ne ho visto neanche uno, i pochi clienti
del Paradise Resort, assurdità nell’assurdità, stavano in piscina.
Il bungalow che ho scelto non era comunque male, 400 bath a notte per un
letto a circa 400 centimetri dall’acqua: che spettacolo. La spiaggia si
chiama Vong Duen, forse la peggiore dell’isola ma quella dove si
potevano trovare gli alloggi più economici e anche quella con un pochino
più di “vita”. Il tempo a Ko Samet passava sornione, e io sono stato
davvero bene. Non credo fosse il posto in se, tutto sommato mi è
piaciuto molto meno di altri, ma per me credo fosse la vicinanza col
mare. Che meraviglia i pomeriggi a Ko Samet passati a leggere mentre il
mare lentamente si ritirava per concedere qualche metro di spiaggia ai
tavoli dei ristoranti, sforzo che si è rivelato a volte inutile visto
che all’imbrunire una incostante pioggia convinceva gli avventori
dell’opportunità di mangiare al coperto, sopra il cemento. Ho passato la
terza e ultima sera a Koh Samet in beata solitudine, cosparso di autan e
circondato da batterie di zampironi, le zanzare però sembravano
disinteressarsi delle mie precauzioni e tutti gli strumenti bellici a
mia disposizione hanno manifestato tutta la loro inefficacia nei
numerosi pizzichi disseminati in modo più o meno casuale su gambe e
braccia. Fortunatamente, nonostante inquietanti avvertimenti riguardanti
la presenza della malaria sull’isola, sono ancora qui, vivo e vegeto.
Il giorno dopo l’ho dedicato agli spostamenti. Un piccolo pulmino preso
a Ban Phe (250 Bath) mi ha portato fino a Bangkok, si era pattuito di
lasciarmi al Southern Bus Terminal, ma l’autista, bontà sua, ha trovato
più opportuno risparmiarsi due ore di traffico e lasciarmi dalla parte
opposta della città, sul lato orientale. Ho raggiunto la stazione nel
primo pomeriggio e ho trascorso il resto li attorno, in attesa del Bus
per Krabi che partiva alle otto di sera. L’attesa alla stazione è stata
qualcosa di indescrivibile, non per il tempo e la noia, non il caldo,
non la stanchezza. La cosa incredibile è stata la gente, la folla! Mai
vista una cosa del genere. La confusione era tale che anche quando il
pullman aveva già lasciato Bangkok mi è rimasto il dubbio di aver preso
quello sbagliato. Era come se avessero aperto le porte del paradiso e i
meno meritevoli fossero andati di buon ora ai cancelli con la speranza
di trovare un posto che credevano di non meritare. La gente si accalcava
ai banchi informativi adiacenti ai posteggi per avere informazioni sul
proprio bus, prendere il biglietto per il bagaglio o solo nella
fiduciosa attesa che si scoprisse un altro posto libero e nel mentre
decine di bus si alternavano spingendosi e rovesciando cataste di
bagagli pur di trovare posto nel parcheggio di competenza: l’Asia.
Il viaggio verso Krabi è stato... è stato... soporifero. Ho dormito come
un bimbo, forse mezzo sdraiato sul giovane militare che mi sedeva a
fianco o forse ridotto a cuscino del medesimo militare, chissà. Arrivato
in città ho facilmente trovato da dormire poco distante dalla via
principale, in un bungalow, con bagno in comune che usavo solo io,
immerso nel verde, alla modica cifra di 100 Bath a notte. La città in se
non offre granché ma non mi è dispiaciuta. I turisti che frequentano la
zona preferiscono dormire a Ao Nang e quindi la città mi è sembrata
risultare serenamente tailandese. La zona attorno è meravigliosa,
altissimi faraglioni di roccia calcarea fanno ombra a chi gli pare e
minuscole e bellissime spiagge si susseguono a poche decine di metri
l’una dall’altra, anche le isolette attorno sono belle e Ao Phra Nang
(Railay Beach) è meravigliosa. Sono stato a Krabi 4 giorni in modo da
avere una base tranquilla dove passare il capodanno.
Credo che la cosa che ricorderò con più lucidità di questa breve
permanenza saranno le mongolfiere, sono rimasto almeno un’ora a
guardarle la notte di capodanno sulla spiaggia di Ao Nang. Le
mongolfiere di cui parlo erano dei grossi cilindri di carta sul cui
fondo, unico punto aperto, veniva legata una qualche fiammella. Dopo
averla accesa bastava attendere pochi momenti: il cilindro si gonfiava,
lentamente la mongolfiera si alzava e infine se ne andava, diventando
solo una luce nel cielo mentre raggiungeva le altre. Nel buio non era
difficile contarne centinaia, migliaia. I cartelli dei venditori
esortavano e invogliavano all’acquisto proponendo un baloon in memoria
delle vittime dello Tzunami ma credo che a quelle finte stelle ci
fossero appesi, più che tristi ricordi, solo semplici e privati
desideri. Nel mentre le mongolfiere aumentavano. Salivano, a volte,
dritte e decise, raggiungendo il cielo in un baleno. Altre volte
disegnavano incerte traiettorie sinusoidali sfiorando quasi l’acqua e
lasciando l’improvvisato pubblico di turisti col fiato sospeso, come se
alla mongolfiera altrui avessero appeso anche un pezzetto dei loro sogni
e quasi si sentissero in colpa che quel loro desiderio gravasse tanto da
determinare quel percorso incerto... tutto però, quando anche le più
timide volavano via, finiva in applauso. Si può pensare che la
traiettoria potesse dipendere dalla perizia di chi preparava la
mongolfiera o forse dal vento o dal caso, ma la tentazione di
convincersi che le traiettorie dipendessero dai desideri espressi era
troppo forte e dopo pochi lanci anche io, come forse altri, ho ceduto.
Mi piacerebbe poter dire che tutti i palloni sono diventati stelle, mi
piaceva l’idea di donare a tutti fortunati presenti, e quindi anche a
me, il medesimo felice destino, l’avverarsi dei propri desideri, ma
ovviamente non è stato così, alcuni sono tristemente finiti in acqua.
Una ragazza giapponese ha provato ad incitare il suo per qualche minuto
ma non c’è stato nulla da fare. Forse ha avuto troppa fretta nel
liberare il pallone o forse a quella mongolfiera ci appeso un desiderio
troppo grande, troppo pesante per un pallone di carta di riso.
A volte il destino delle mongolfiere si poteva prevedere guardando chi
si accingeva a liberarle. Un occidentale, un tipo sui cinquanta, grosso,
con la faccia da marinaio stanco di star per mare, stava li con la sua
compagna tailandese e la figlia circa quindicenne molto probabilmente
avuta con una moglie europea. Il tipo ha diligentemente comprato tre
palloni, uno per ogni permutazione possibile di quella nuova famiglia
“made in Thailand”. Il primo pallone è volato via rapidamente come se
avesse un motore, l’aveva lanciato lui con la sua nuova lei. Il secondo
sempre affidato a lui ma questa volta in compagnia della figlia, ha
tentennato un poco, volando per un po’ parallelo al mare ma tutto
sommato senza preoccupare troppo i presenti, il suo destino era
ovviamente già segnato e poco dopo l’ha raggiunto in cielo insieme agli
altri. L’ultimo, alle cure di figlia e nuova moglie, ha avuto una
partenza più difficile, sembrava non aver voglia di alzarsi, quando è
stato liberato ha indugiato per un po’ lungo la battigia, si è poi
alzato di qualche metro per guadagnare il mare ma di li a poco ha
cominciato ad abbassarsi: terrore. Un benevolo alito di vento che pareva
venisse dai polmoni del marinaio con la faccia triste l’ha però
riportato su per riprendere, poco dopo, la sua nuova parabola
discendente puntando inesorabilmente il mare e ancora una volta qualcosa
l’ha risollevato per disegnare ancora quattro o cinque curve come
questa. Troppi desideri contrastanti appesi a quel pallone, forse troppi
sogni disattesi. L’ultima linea disegnata ha comunque puntato dritta
verso il cielo, completando così, con i due precedenti palloni, la nuova
micro costellazione familiare. Leggere in anticipo i percorsi di quei
palloni era fin troppo facile e, in quella notte di capodanno davanti al
Mar delle Andatane, non poteva certo mancare il lieto fine. Davvero uno
spettacolo!
Si potrebbe pensare che, se delle esperienza vissute a Krabi quella che
amo ricordare è un capodanno trascorso a guardare palloni volare, la
zona non offra molto ma non credo sia così. La zona come già detto è
molto bella e offre quasi tutto quello che si possa cercare. A krabi ho
cercato relax e l’ho trovato proprio lì, dietro ogni angolo.
Ho comunque lasciato Krabi senza indugi, la mia prossima destinazione
era Koh Phi Phi, da molti descritta come una delle isole più belle delle
Thailandia, non ha deluso le aspettative. Koh Phi Phi è in realtà un
arcipelago di due isole, Phi Phi Don e Phi Phi Leh. La prima è la più
grande ed è anche l’unica dove è possibile soggiornare. Trovare un
alloggio economico non è stato semplice anche perché se non si è
prenotato nulla non viene spontaneo muoversi in barca per cerca dove
dormire. Quando si arriva sull’isola si approda a Ton Sai e le
possibilità sono due: o si cerca un alloggio nel paese, con tutti i pro
e i contro, oppure si noleggia una barca che ti porti nei vari bungalow
disseminati sull’isola, per raggiungere i quali non c’è nessuna via
sulla terra ferma. Ho scelto la prima soluzione un po’ per risparmiare,
a Ton Sai spendevo 500 Bath a notte, e un po’, essendo arrivato
sull’isola in perfetta solitudine, con la speranza che il paese avesse
una vita più vivace delle belle spiagge che circondano l’isola. Anche in
quella circostanza sono stato fortunato, il paese è reso decisamente
vivace dai miliardi di turisti che lo popolano e risulta facilissimo
trovare persone con cui dividere il costo del noleggio di una barca e
con cui condividere una mezza giornata a spasso tra le cale più nascoste
dell’isola. A Phi Phi Leh ho dedicato una mezza giornata è davvero non è
stato abbastanza. L’isoletta è una meraviglia e il mare e le spiagge
sono da... troppo facile dire che sono da film viste in quelle acque è
stato girato “The Beach”. Ao Maya, la spiaggia usata come location per
le riprese, è da star male, il tramonto li è meraviglioso, il sole cade
lento e silenzioso e rende l’atmosfera tanto romantica che se un riccio
di mare mi avesse chiesto di sposarlo non sarei stato in grado di dirgli
di no! Che spettacolo la Thailandia.
Purtroppo non sono potuto stare tutto il tempo che avrei voluto
sull’isola anche perché, eccezion fatta per Pattaya, era il posto più
caro dove sono stato e, a parte per il magiare e il dormire, a Koh Phi
Phi è davvero troppo facile spendere soldi: corsi di sub o immersioni
singole, semplice snorkelling o gite alla ricerca di squali (dove ho
chiesto mi hanno detto che se non fossi riuscito a vederne mi avrebbero
reso i soldi), paracadute ascensionale o escursioni per fare free climb.
Non ci si annoia certo a Koh Phi Phi ma non è esattamente il posto
ideale per chi sta cercando di fare un viaggio in economia.
Ho lasciato Koh Phi Phi un po’ triste, mi dava l’idea di non aver
vissuto a pieno l’isola ma al contempo ero anche felice di cambiare
posto. Il posto era davvero così bello che a volte metteva malinconia.
Inoltre, vuoi per l’erba comprata lì, davvero pesante e da assumere con
gran moderazione, vuoi per il trip sul bipensiero che mi si è insinuato
leggendo Orwell, una notte mi ha preso a brutti pensieri e il mattino
dopo ho lasciato l’isola. Avevo pensato di lasciarci anche “1984” e di
scambiarlo con qualche altro libro in una delle tante librerie che
offrono servizi come questo ma nessuna ha voluto un libro in italiano.
Sicuramente sull’isola ho lasciato i miei occhiali da vista, o meglio li
ho lasciati sul fondo dello splendido mare che la circonda, tuffandomi
da una barca senza levarmeli, vuoi per il richiamo del mare più bello
visto in Thailandia o, anche qui, vuoi per l’erba davvero pesante e da
assumere con gran moderazione.
Un’enorme e anonimo traghetto mi ha poi portato a Koh Lanta, una grossa
isola poco distante. Koh Lanta è strana, sembra l’anticamera di Koh Phi
Phi. Il mare è bello ma non splendido, si trovano tanti turisti ma mai
troppi, ci sono molti servizi ma non più di quanti ne servono. Koh Lanta
mi è davvero piaciuta tanto, ho trovato un bungalow stupendo a pochi
metri dal mare, alla fine di Long Beach per soli 200 Bath e nel bar del
resort, il Lapala, facevano le macedonie più abbondanti e il the freddo
più buono di tutta la Thailandia. Il proprietario, un ragazzo di non più
di vent’anni, era un grande appassionato di galli da combattimento e il
prato di fronte alla mia stanza era il loro campo di allenamento,
parlando con lui (ma come cacchio si chiamava??) e sfogliando le
incomprensibili riviste scritte in thai dedicate all’argomento, mi sono
fatto una mezza cultura tanto da sentirmi addirittura pronto a puntare
qualche bath su un combattimento vero, purtroppo non c’è stata l’occasione.
A questo punto del viaggio avevo ancora quindici giorni dei quaranta
totali e volevo usarli al meglio. Ero certo di voler passare gli ultimi
quattro a Bangkok e di usare i giorni necessari a prendere il brevetto
della PADI a Koh Tao, il resto era da decidere. In ballo c’erano Koh
Phan Ngan, Koh Samui, un qualcosa lontano dal mare oppure fare una
risalita verso Bangkok molto lenta e vedere un po’ di Thailandia meno
battuta dai turisti. Alla fine mi sono lasciato prendere dalle
descrizioni della Lonely Planet (La LP della Thailandia... :-( che
delusione) e ho puntato verso il Khao Sok National Park, pensando di
starci poco e permettendogli di rubare a Koh Samui i giorni che riteneva
necessari. Speravo di poter vedere qualche animale selvaggio, la guida
parlava addirittura di tigri e di elefanti, ma nulla. Volevo vedere il
famoso fiore più grande del mondo, quello che puzza di carne marcia, ma
non era stagione. Al parco ho trascorso tre giorni, la prima notte ho
dormito al Bamboo House, un resort vicino al centro visitatori del
parco, 150 Bath per una finta casa sugli alberi, davvero carina. Dai
gestori ho comprato anche la partecipazione ad un trekking di due giorni
sul lago. Nonostante i motivi per cui ero arrivato al parco siano stati
disattesi, non posso certo dire che non sia stata un’esperienza
interessante. La notte si dormiva su delle enormi zattere sulle quali
erano costruite delle piccolissime e traballanti capanne. Il “materasso"
era poggiato direttamente sul pavimento di canne tra le quali si vedeva
l’acqua del lago che stava a meno di quindici centimetri: meraviglioso.
Il trekking è stato davvero divertente, con una guida e un gruppo di
altri sei turisti ci siamo addentrati nella più classica delle foreste
tropicali, in mezzo ad enormi liane, strane piante sensibili al
contatto, scimmie e uccelli invisibili, per non farci mancare nulla la
guida ci ha fatto attraversare tanti fiumicelli in modo da avere
l’occasione di spiegarci i rischi che si potevano trovare con le
sanguisughe, ed io e un ragazzo tedesco, per non farci mancare nulla,
siamo stati lieti di supportare la spiegazione della guida mostrando le
sanguisughe che ci si erano attaccate sulle gambe. Scopo del trekking
era il raggiungere una grotta bellissima che stava ad una mezza giornata
di distanza, purtroppo non eravamo l’unico gruppo di escursionisti
presenti, ma la “folla” ci ha comunque concesso di vivere a pieno tutte
le emozioni: abbiamo attraversato fiumi sotterranei dove non si toccava
e se non ci si teneva a della corde attaccate alle pareti si veniva
trascinati via dalla debole corrente, ci siamo rinfrescati in cascate
meravigliose che si perdevano dentro anfratti, abbiamo visto miliardi di
pipistrelli filosofeggiare a mezzo metro dal nostro naso, insomma
abbiamo visto cose che noi umani non possiamo nemmeno immaginare :) .
Ho lasciato Khao Sok National Park fremente, non vedevo l’ora di tornare
al mare e soprattutto di arrivare a Koh Tao e immergermi nel
meraviglioso mondo delle immersioni marine. Il viaggio per arrivare
sull’isola è stato di quelli che non si dimenticano. In bus fino a
Suratthani e da lì in barca fino all’isola. Ci si può imbarcare
scegliendo soluzioni diverse, io ho scelto la night boat,
straconsigliata da tutti le persone con cui ho parlato e hanno fatto lo
stesso spostamento. La night boat, o battello notturno, è una sorta di
enorme peschereccio che parte verso le 23 e arriva sull’isola all’alba,
ovviamente, manco a dirlo, è anche il mezzo più economico per
raggiungere Koh Tao da Suratthani. La barca carica ogni notte tutto ciò
che serve all’isola per poter viziare i suoi turisti e soprattutto i
turisti da viziare. Si dorme tutti assieme nella stiva, cinquanta posti
letto se non ricordo male, ci sono materassi posati per terra stretti
quanto un tailandese mingherlino e lunghi molto meno di me. I miei piedi
andavano ad occupare parte dei gradini che portavano all’uscita di
sicurezza e le mie spalle parte dei materassi vicini, non diversamente
stavano i due turisti che avevo di fianco, uno spasso. Nonostante tutto
sono arrivato a Koh Tao riposato. Sull’isola ho alloggiato presso il
centro di diving scelto per il corso. Ho scelto il Dive point, i prezzi
erano uguali in tutta l’isola (8000 Bath per il brevetto Open Water) ma
nel mio bazzicava anche un istruttore free lance italiano e ho preferito
fare il corso con lui. Non volevo trovarmi nella triste situazione di
morire sott’acqua per non aver compreso il senso della frase “remember
to check if your regolator is opened”. L’istruttore, Diego, è un ragazzo
di Genova di ventitre anni, vive a Londra ma d’inverno lavora a Koh Tao
e d’estate ad Ibiza, se può si fa la stagione primaverile nella zona di
Cancun, ho pensato in più di un’occasione di consigliargli di provare a
farsi l’autunno a fanculo: non può far morire d’invidia chi vive
lavorando davanti ad un monitor. Ho desistito, era troppo simpatico e la
mia vita era nelle sua mani ;-)
Il corso è durato tre giorni ed è andato tutto alla perfezione, le mie
prime immersioni sono state semplicemente fantastiche, difficile
descrivere la sensazione che si prova a stare sott’acqua per la prima
volta senza disturbare chi ci abita, Koh Tao mi ha regalato una nuova
passione e non vedo l’ora di consumarla anche qui in Sardegna. Finito il
corso mi sono trattenuto altri due giorni sull’isola, non riuscivo ad
andarmene, a smettere di fare immersioni: una droga. Mi sono dovuto
imporre di andar via e come scusa ho usato il Full Moon Party, che come
si può facilmente intuire non capita tutti i giorni. La festa, come
amano dire i locali, è il più grande party sulla spiaggia del mondo e si
tiene a Koh Phan Ngan tutte le notti di luna piena. Sono arrivato
sull’isola il pomeriggio della festa e trovare da dormire vicino alla
spiaggia a prezzi economici mi è risultato impossibile, gli alloggi,
economici o no, erano tutti occupati. Per trovare un bungalow ho dovuto
affittare l’ennesima motoretta e spostarmi di qualche chilometro da Haat
Rin: sono stato fortunato. Il bungalow era uno spettacolo, come al
solito spoglio di qualsiasi cosa non fosse assolutamente utile, nella
fattispecie letto e zanzariera. E’ posizionato sopra una scogliera alta
una cinquantina di metri che cade quasi verticalmente su una piccola
spiaggia di sabbia dorata che impedisce alla tranquillissime onde di
picchiare inutilmente sugli enormi massi sui quali, per l’appunto, si
reggeva il bungalow. Il sole, grasso come un ricco cinese, decideva,
incredibile a dirsi, di suicidarsi ogni sera esattamente davanti alla
mia finestra ed io, inerme, l’ho lasciato fare godendomi lo spettacolo.
Sistemato il bagaglio mi sono buttato in spiaggia per mangiare e
rilassarmi un pochino prima della festa: panino e birra. Ho chiesto il
conto ma la cameriera mi ha portato un’altra Chang, “Ma avevo chiesto il
conto non un’altra birra”, e lei “scusami avevo capito male”: “bill”,
“beer” è un casino con sta “R” farlocca che si ritrovano. Poco male, mi
sono bevuto la birra e poi come ha detto lei “more Chang... more fun!”:
ottimo inizio.
La festa sulla spiaggia è tutta da ridere, comincia all’imbrunire e
finisce quando svieni. Ogni metro c’è una bancarella per comprare da
bere e se non hai voglia di birra puoi sempre optare per il secchiello
della felicità, un secchiello di quelli che usano i bambini per fare
castelli di sabbia riempito di ghiaccio e poi di tutto quello che hai
voglia di bere, il tutto per 200 bath, e dopo un paio di quelli capita
che poi ti ritrovi davvero a fare castelli. Io sono svenuto attorno alle
tre ma il mattino dopo verso le 10 ho visto che i più coriacei stavano
appena lasciando la spiaggia, probabilmente, in una vita precedente, ai
tempi di Re Artù, erano tutti grandi ingegneri.
Sull’isola mi sono trattenuto poco e il poco che ho visto mi è piaciuto
parecchio. Nonostante ad Haat Rin si avesse quasi difficoltà a trovare
uno spazio per sdraiarsi è facile trovare altre spiagge, altrettanto
belle, dove godersi sole e mare in quasi assoluta solitudine.
Ho lasciato l’isola due giorni dopo la festa, triste per la
consapevolezza che il viaggio stava ormai volgendo al termine ma curioso
come un pazzo, mi stava aspettando Bangkok. L’ho raggiunta, nuovamente
via Suratthani, prendendo per la prima volta il treno. I posti letto di
seconda classe sono spettacolari, un po’ più cari dei bus ma sicuramente
molto più comodi. Indubbiamente il mezzo migliore per spostamenti che
durano una notte intera. Si dorme tutti assieme in un’unica
cabina-vagone ma i letti sono protetti da una tendina che ti consente di
dormire sereno e hanno tutti una luce “privata” che ti permette di
leggere senza disturbare. Il treno è stato puntuale sia alla partenza
che all’arrivo e alle otto del mattino ero alla stazione centrale di
Bangkok. Da li ho preso un bus di linea, quelli senza aria condizionata,
che per 7 bath mi ha portato nella zona scelta per cercare un alloggio:
Banglampoo. Trovare da dormire vicino a Khao San Road è facile quanto
trovare un cinese a Pechino, ci sono decine di alberghi e guesthouse di
tutti i prezzi e per tutti i gusti, io mi sono buttato su una abbastanza
economica e con bagno in camera, prezzo 150 bath.
Le poche giornate trascorse a Bangkok, a parte la visita al palazzo
reale, le ho dedicate allo shopping, non avevo ancora comprato
praticamente nulla per non appesantire il sacco e mi sono fatto
facilmente affascinare dall’idea che girare per mercati fosse un buon
modo per conoscere una città, quindi una giornata a spasso per il
quartiere indiano e quello cinese e un’altra di corsa tra un battello e
un tuk tuk per visitare i mercati più moderni. Inutile dire che fare
compere a Bangkok da una certa soddisfazione, ho comprato di tutto
riempiendo una nuova enorme valigia, pantaloni, camicie, borse,
cravatte, lampade, sopramobili e non sono riuscito a spendere più di 150
euro, che spettacolo!
Le notti di Bangkok sono state un altro tuffo in un mondo davvero
inconsueto, almeno per me. La zona di Patpong e il Nana Plaza
riuscirebbero a far arrossire i più affezionati frequentatori della Red
Zone di Amsterdam. Il sesso in tutto le salse, per gioco, per noia, per
provare, per ridere, per raccontare e, ovviamente, per denaro. A
Bangkok, come nel resto della Thailandia, fortunatamente non ho comunque
avuto modo di vedere le scene raccapriccianti di cui spesso si sente
parlare. Bambine o bambini in vendita manco uno. Nessuno vecchio
occidentale in compagni di tredicenni. Niente di tutto ciò. Certo ho
visto parecchi occidentali in compagnie di prostitute e molti vecchi
occidentali in compagnia di belle e giovani prostitute, ma credo che a
riguardo nessuno possa sentirsi offeso, d’altronde nulla di diverso da
quello che succede in tutte le nostre città.
Spettacolare è stata anche la serata passata al Lumpini Stadium per
vedere qualche match di Muay Thai. Entrare allo stadio è tutt’altro che
economico, 1500 bath per tutti i turisti contro i 200 del biglietto per
i tailandesi ma, passato il fastidio per l’antipatica diversificazione,
si può godere di uno spettacolo davvero singolare. Nella serata in cui
sono andato io c’erano sette incontri, tutti abbastanza avvincenti. Il
pubblico era posizionato tutto attorno al ring su sedie o poco più
distante su gradinate. Un lato del ring era occupata dalla banda
musicale che accompagnava ogni incontro col suono di strani strumenti
dai quali usciva un rumore quasi stridulo e tutti contribuivano a
formare una musica ripetitiva, molto ritmica, a tratti quasi fastidiosa
che faceva da sottofondo all’incontro. Sul ring i lottatori passano
quasi tutto il tempo a studiarsi ballonzolando da un piede sull’altro
senza mai perdere il ritmo che la musica sembra proporgli e pare quasi
che scelgano il momento per sferrare il calcio o il pugno in modo che
questo non risulti disarmonico rispetto alla danza fino all’ora
eseguita. Ho sentito spesso parlare della capoeira come una danza simile
ad un’arte marziale, mi vien da dire che la box tailandese è l’arte
marziale più elegante e simile ad una danza che abbia mai visto, davvero
coinvolgente, affascinante.
Il resoconto, o come mi pare di aver capito si usi dire qui sul news
group, la recensione sarebbe terminata e sono davanti al monitor
aspettando che mi venga in mente una frase di chiusura, poche parole che
racchiudano il senso del viaggio che ho provato a raccontarvi, ho appena
capito che quelle parole non sono in grado di scriverle quindi non mi
resta che ringraziare tutti quelli che hanno avuto la pazienza di
leggere questo lunghissimo resoconto.
Ancora grazie a tutto il NG.
Ivan
PS
Un grazie particolare a chi mi ha consigliato di portarmi dietro “un
indovino mi disse”. Il libro mi è piaciuto davvero tanto e Terzani mi ha
davvero affascinato.