IO
2003-10-16 12:45:49 UTC
Il 7 dicembre 1941 il Giappone entrava in guerra contro gli Stati uniti col
celebre attacco aereo contro la flotta americana all'ancora nella rada di
Pearl harbour.
Gli americani hanno sempre considerato questo attacco come "un giorno
d'infamia".
Ma le cose stavano veramente così?
Analizziamo seriamente e serenamente la situazione in quel fatale dicembre
del 1941. Il Giappone si trovava da mesi sotto un metodico stritolamento dei
suoi rifornimenti marittimi a causa di un embargo di materie prime e
petrolio imposto dagli Stati Uniti.
I governanti del Giappone si trovavano così di fronte ad una drammatica
scelta obbligata: apitolare alle richieste artificiosamente elevate degli
Stati Uniti, che cercavano un casus belli per entrare nel secondo conflitto
mondiale (Si ricordi che il Giappone era membro dell'asse quindi la Germania
e l'Italia avrebbero dichiarato anche loro guerra agli Stati Uniti, cosa che
difatti avvenne) oppure dichiarare guerra agli Stati Uniti, ben sapendo che
la partita rischiava di essere mortale.
Però la Flotta degli Stati Uniti era numericamente superiore a quella del
Giappone, schierando, nel solo pacifico 12 corazzate (le 9 di Pearl Harbour
più tre in California) contro le 6 corazzate e 4 Incrociatori da Battaglia
che il Giappone poteva schierare, non considerando le differenze
qualitative, che pendevano a favore degli Stati Uniti.
Quindi, per l'indispensabile necessità del Giappone di implementare l'unica
strategia possibile contro un nemico indubbiamente superiore per potenza e
risorse economiche, cioè una rapida conqusta della maggior parte possibile
dell' Oceano Pacifico seguita da una difesa la più strenua possibile
sperando di poter trattare una pace onorevole, si rendeva assolutamente
necessario neutralizzare nel modo più completo possibile il potenziale
militare del nemico, cioè gli Stati Uniti, almeno per il tempo necessario ad
effettuare le pianificate conquiste nel Pacifico. Anche l'ammiraglio
Yamamoto era perfettamente consapevole della natura disperata di questa
guerra: Garantì che la Flotta giapponese poteva tenere testa agli Stati
Uniti per un anno, massimo un anno e mezzo, dopodichè la sconfitta sarebbe
arrivata, e la si poteva solo rimandare.
Consapevoli della massima importanza che rivestiva l'attacco a Pearl
Harbour, i Marinai giapponesi si impegnarono fino in fondo, dall'Ammiraglio
Yamamoto Isoroku fino all'ultimo dei fuochisti, per cercare di ottenere una
vittoria impossibile, perfettamente consci della posta in gioco, cioè la
sopravvivenza del Giappone come Paese di rilievo nel contesto di un mondo
dominato dalle nazioni bianche e cristiane.
La lotta era persa in partenza, ma l'attacco a Pearl harbour, e la
distruzione o neutralizzazione di una consistentissima aliquota della Flotta
avversaria dava una minima speranza per il Giappone di arrivare ad una
onorevole pace di compromesso.
Considerata da quest'ottica, l'attacco a Pearl Harbour non fu un atto
d'infamia, bensì un disperato tentativo di equilibrare un divario di forze
troppo considerevole in una partita in cui la posta in gioco era la
sopravvivenza stessa del Giappone.
La guerra, nonostante innumerevoli atti d'eroismo fu persa, proprio come
aveva previsto l'Ammiraglio Yamamoto, che non vide la sconfitta e la rovina
della sua Patria, ucciso in un vile agguato aereo.
Il Giappone potè rialzarsi dalla rovina solo perchè gli Americani,
nell'ottica della Guerra Fredda, trovarono conveniente avere un Giappone
economicamente forte per contrastare la pressione dei paesi comunisti nella
regione.
Quindi aveva ragione Yamamoto quando avvertiva che si svegliava un gigante
addormentato, ma quel gigante addormentato stava strangolando economicamente
il Giappone.
celebre attacco aereo contro la flotta americana all'ancora nella rada di
Pearl harbour.
Gli americani hanno sempre considerato questo attacco come "un giorno
d'infamia".
Ma le cose stavano veramente così?
Analizziamo seriamente e serenamente la situazione in quel fatale dicembre
del 1941. Il Giappone si trovava da mesi sotto un metodico stritolamento dei
suoi rifornimenti marittimi a causa di un embargo di materie prime e
petrolio imposto dagli Stati Uniti.
I governanti del Giappone si trovavano così di fronte ad una drammatica
scelta obbligata: apitolare alle richieste artificiosamente elevate degli
Stati Uniti, che cercavano un casus belli per entrare nel secondo conflitto
mondiale (Si ricordi che il Giappone era membro dell'asse quindi la Germania
e l'Italia avrebbero dichiarato anche loro guerra agli Stati Uniti, cosa che
difatti avvenne) oppure dichiarare guerra agli Stati Uniti, ben sapendo che
la partita rischiava di essere mortale.
Però la Flotta degli Stati Uniti era numericamente superiore a quella del
Giappone, schierando, nel solo pacifico 12 corazzate (le 9 di Pearl Harbour
più tre in California) contro le 6 corazzate e 4 Incrociatori da Battaglia
che il Giappone poteva schierare, non considerando le differenze
qualitative, che pendevano a favore degli Stati Uniti.
Quindi, per l'indispensabile necessità del Giappone di implementare l'unica
strategia possibile contro un nemico indubbiamente superiore per potenza e
risorse economiche, cioè una rapida conqusta della maggior parte possibile
dell' Oceano Pacifico seguita da una difesa la più strenua possibile
sperando di poter trattare una pace onorevole, si rendeva assolutamente
necessario neutralizzare nel modo più completo possibile il potenziale
militare del nemico, cioè gli Stati Uniti, almeno per il tempo necessario ad
effettuare le pianificate conquiste nel Pacifico. Anche l'ammiraglio
Yamamoto era perfettamente consapevole della natura disperata di questa
guerra: Garantì che la Flotta giapponese poteva tenere testa agli Stati
Uniti per un anno, massimo un anno e mezzo, dopodichè la sconfitta sarebbe
arrivata, e la si poteva solo rimandare.
Consapevoli della massima importanza che rivestiva l'attacco a Pearl
Harbour, i Marinai giapponesi si impegnarono fino in fondo, dall'Ammiraglio
Yamamoto Isoroku fino all'ultimo dei fuochisti, per cercare di ottenere una
vittoria impossibile, perfettamente consci della posta in gioco, cioè la
sopravvivenza del Giappone come Paese di rilievo nel contesto di un mondo
dominato dalle nazioni bianche e cristiane.
La lotta era persa in partenza, ma l'attacco a Pearl harbour, e la
distruzione o neutralizzazione di una consistentissima aliquota della Flotta
avversaria dava una minima speranza per il Giappone di arrivare ad una
onorevole pace di compromesso.
Considerata da quest'ottica, l'attacco a Pearl Harbour non fu un atto
d'infamia, bensì un disperato tentativo di equilibrare un divario di forze
troppo considerevole in una partita in cui la posta in gioco era la
sopravvivenza stessa del Giappone.
La guerra, nonostante innumerevoli atti d'eroismo fu persa, proprio come
aveva previsto l'Ammiraglio Yamamoto, che non vide la sconfitta e la rovina
della sua Patria, ucciso in un vile agguato aereo.
Il Giappone potè rialzarsi dalla rovina solo perchè gli Americani,
nell'ottica della Guerra Fredda, trovarono conveniente avere un Giappone
economicamente forte per contrastare la pressione dei paesi comunisti nella
regione.
Quindi aveva ragione Yamamoto quando avvertiva che si svegliava un gigante
addormentato, ma quel gigante addormentato stava strangolando economicamente
il Giappone.