Artamano
2007-12-30 22:46:59 UTC
Come nacque la Bibbia
di David Donnini
http://www.nostraterra.it/
Indagine critica sulle radici storiche del Vecchio Testamento
"Dio non avrebbe mai scritto un libro come questo"
Sommario:
1 - UN FARAONE PARTICOLARE.
Una ventina d'anni fa, mentre rovistavo nella vecchia libreria di mio
padre, fra scaffali nei quali facevano bella mostra di sé le eleganti
costole rilegate in tela di volumi degli anni trenta e quaranta, mi capitò
fra le mani un testo di Sigmund Freud: "Mosè e il monoteismo".
Rimasi stupito del fatto che Freud si fosse occupato di
quell'argomento; ero abituato a titoli come "Psicopatologia della vita
quotidiana", o "L'interpretazione dei sogni", e pensavo che il padre della
psicanalisi non si fosse mai interessato di questioni storiche o religiose.
Iniziai a leggerlo e, devo confessare, fu un impatto travolgente; rimasi
talmente affascinato da ciò che scoprii che mi domandai com'era possibile
che certi significativi incontri dipendessero da circostanze così casuali. E
se non ci fosse stato questo libro nella casa dei miei genitori? L'avrei mai
letto?
Sigmund Freud era ebreo di nascita. Egli apparteneva ad una stirpe
che, in seguito alla plurisecolare persecuzione subita da parte dei
cristiani, ha sviluppato per reazione un fortissimo senso della propria
identità e trasmette ai propri figli un orgoglio fiero, composto ma deciso,
capace di lunga rassegnazione, ma anche di uno spirito di autodifesa e di
combattimento com'è difficile trovarne in altre realtà etnico-religiose.
La prima parte del libro faceva spesso riferimento ad un faraone
egiziano della XVIII dinastia, Amenofi IV. Costui fu il protagonista di una
eccezionale riforma politico-religiosa del sistema egiziano. L'occidente
cristiano non ha la benché minima idea di quanto sia debitore, nelle
caratteristiche della propria identità culturale, al faraone Akhenaton e ai
contenuti della sua riforma.
Sarà bene procedere con calma e ordine, cominciando da una brevissima
premessa sulla situazione dell'Egitto nel periodo che precedette l'ascesa al
potere di questo singolare faraone.
Sotto il regno di Amenofi III (negli anni dal 1405 al 1377 a.C.),
quando Tebe era la città reale, una fortissima casta sacerdotale, custode e
amministratrice del culto del dio Ammon, aveva sviluppato, in connubio con
l'aristocrazia del paese, un grande potere, ed era entrata in una posizione
conflittuale con l'egemonia della corte faraonica. Per questo motivo, ma
anche per una propensione caratteriale e ideologica, allorché succedette ad
Amenofi III il figlio che costui aveva avuto dalla regina Tiye, Amenofi IV
(intorno all'anno 1377 a.C.), l'Egitto fu protagonista del suo più grande
sconvolgimento, quale nemmeno le precedenti invasioni degli Hyksos avevano
potuto produrre.
In breve tempo, a partire dalla sua nomina al trono, il nuovo faraone
rivoluzionò la religione di stato, spodestò la classe sacerdotale, sostituì
il molteplice panteon egizio con una curiosa fede monoteistica. Si trattava
forse del primissimo esempio nella storia di monoteismo di stato, incentrato
sul culto del disco solare, che era chiamato Aton. Anche la capitale fu
spostata ad Akhet-aton, più a nord rispetto a Tebe, e il sovrano mutò il
proprio nome da Amenofi ad Akhenaton, o Ekhnaton (amato da Aton).
Nell'insegnamento di Akhenaton possiamo notare la insistente
ricorrenza del termine "maet" (verità), ed egli stesso si definiva "vivente
nella verità", al punto da sovvertire la tradizione che, nelle opere d'arte,
era solita presentare il sovrano in una forma stereotipata, coerente col
formalismo celebrativo, e si faceva ritrarre in scene di vita familiare,
mentre insieme alla moglie Nefertiti e alle figlie passeggiava e faceva
offerte al dio sole.
Fu, probabilmente, un faraone dal volto umano; sappiamo che perseguì
una politica pacifista, riducendo le spese militari e rinunciando alla
difesa ad oltranza dei territori fuori dall'Egitto. Possiamo ragionevolmente
ipotizzare che ciò comportasse una diminuzione del prelievo fiscale;
possiamo anche avanzare l'idea che il popolo percepisse, nella figura del
suo bizzarro faraone, qualcosa di meno lontano da sé di quanto non fossero
stati i precedenti sovrani e sacerdoti. Ma queste, ci tengo a chiarirlo,
sono speculazioni arbitrarie, senza un fondamento nelle prove storiche.
E' abbastanza immediato pensare che un sistema del genere
difficilmente avrebbe potuto funzionare a lungo. Infatti gli hittiti
premevano ai confini orientali del regno e sfruttarono la circostanza per
espandere il loro dominio a spese dell'Egitto. Molti fra i sacerdoti
spodestati e gli aristocratici intuirono i pericoli della circostanza e
tramarono per preparare una restaurazione del precedente regime e
riconquistare i privilegi perduti. Allorché Akhenaton morì (intorno al 1362
a.C.), la moglie Nefertiti si adoperò per far salire al trono il
giovanissimo genero Tut-ankh-aton, ma, alla morte della stessa Nefertiti,
sacerdoti ed aristocratici approfittarono della situazione instabile e
dell'inesperienza del nuovo faraone, per iniziare una rapida controriforma e
per rimettere in piedi gli antichi poteri e la religione tradizionale
dell'Egitto. La città di Akhet-aton fu abbandonata e la capitale fu
ristabilita a Tebe. Anche il nome del faraone fu opportunamente corretto in
Tut-ankh-amon, coerentemente col culto restaurato del dio Ammon. Tutti
conosciamo il famoso faraone, è l'unico di cui è stata scoperta la tomba
intera, inclusa la mummia, e questo ritrovamento è stato l'evento più
spettacolare dell'archeologia egiziana.
E' ovvio che, con l'avvento della restaurazione, una parte della
società egiziana, che si era sviluppata alla corte di Akhenaton, visse un
pesante tracollo. Possiamo facilmente immaginare in quale difficile
situazione si siano trovati i suoi ex funzionari e sacerdoti,
improvvisamente esautorati e, probabilmente, perseguitati.
Ora, come spesso succede in questi casi, se sono i grandi poteri a
stabilire certe tappe importanti del cammino storico, sono alcuni poteri
meno appariscenti (oserei dire occulti) a dirigere il cammino definitivo
della storia, anche se a lunga scadenza. Infatti è assolutamente certo che
l'esperienza del regno di Akhenaton aveva lasciato una traccia profonda, non
solo negli interessi politici e nei rancori di quanti erano stati colpiti
dalla controriforma, ma anche, e forse soprattutto, nell'inconscio
collettivo, grazie all'idea di una teologia monoteistica, che sostituiva le
figure fantasiose delle numerose divinità col concetto affascinante di un
principio creatore unico ed universale, irrimediabilmente superiore a quello
delle immagini dall'aspetto antropomorfico o animale, simboleggiato dal
disco solare; in cui chiunque riconosce istintivamente la paternità di ogni
manifestazione della vita terrestre.
Sebbene non ci siano elementi per riportare alla luce, dall'oblio in
cui sono stati definitivamente sepolti, i movimenti e le trame di coloro
che, per interesse o per adesione ideologica, simpatizzavano con le
concezioni dell'ormai sconfitto sistema politico-religioso di Akhenaton,
possiamo essere certi che questo desiderio di ritorno alle novità di cui
l'Egitto aveva avuto un assaggio, non ha mai più abbandonato almeno una
parte della società di questo paese, e ha giocato un ruolo non indifferente
nella dinamica delle conflittualità interne.
2 - GLI EBREI IN EGITTO.
A questo punto, nel nostro discorso, possiamo innestare la realtà dei
popoli semitici che erano penetrati in Egitto, pur non essendo egiziani, in
una condizione che troppo spesso è semplicisticamente rappresentata dal
termine "schiavitù".
Già in precedenza i rozzi nomadi semiti avevano preso di mira, con le
loro migrazioni di massa, altre grandi civiltà sedentarie, attratte dallo
straordinario sviluppo tecnologico di cui queste erano depositarie, e della
loro imponente organizzazione urbanistica e sociale. Mi riferisco ai sumeri,
che furono letteralmente schiacciati da questa corrente migratoria. I semiti
in questione erano gli accadi. Un grande condottiero di questi uomini (siamo
intorno all'anno 2450 a.C.), protagonista di una clamorosa vittoria sui
sumeri, fu Sargon. Di lui la leggenda accadica narra che era stato
abbandonato dalla madre nelle acque del fiume, in un canestro di giunchi,
per poi essere raccolto da un acquaiolo, su indicazione della dea Ishtar,
che lo aiutò a diventare un re potente. E' una storia che già conosciamo,
anche se con altri protagonisti.
Adesso, nell'Egitto degli ultimi faraoni della XVIII dinastia, e dei
primi della XIX, succedeva qualcosa di somigliante a ciò che era successo
nel paese dei sumeri mille anni prima; e che succede ancora oggi nei paesi
opulenti dell'occidente cristiano. Le popolazioni circostanti, etnicamente
diverse, socialmente e culturalmente meno evolute, economicamente più povere
(potremmo considerarli gli extracomunitari dell'epoca), entravano in Egitto
e qui si stabilivano in cerca di fortuna. Gli stessi Egiziani tolleravano la
loro presenza perché, non ostante gli evidenti svantaggi del fenomeno
immigratorio, questa gente offriva forza lavoro a basso costo, e poteva
svolgere gli innumerevoli compiti che i contadini egizi non avrebbero potuto
né voluto svolgere. La Bibbia li rappresenta come un popolo che aveva già
maturato una sua identità nazionale, chiamandoli ebrei. Ma questa è pura
leggenda. Infatti le popolazioni che si erano introdotte in Egitto per
lavorare erano molte e diverse, così come oggi, da noi, sono diversi i
marocchini dai senegalesi, gli albanesi dagli slavi...
E' probabile che, ad un certo punto, questa parte della varia umanità
che componeva il tessuto sociale egiziano, abbia acquistato un certo peso e
una certa coscienza di sé, maturando il bisogno di acquistare anche un senso
della propria identità che, ovviamente, fino a quel momento non esisteva
perché si trattava di un gruppo eterogeneo per lingua, razza e culti
religiosi, in cui, probabilmente, prevaleva una componente semitica.
L'opinione di Freud, che egli illustra con grande chiarezza nel libro
che abbiamo citato in precedenza, è quella che le conflittualità interne
alla società egiziana e, in particolare, le opposizioni nei confronti della
classe dominante, costituita dai faraoni della XIX dinastia e dalla classe
sacerdotale fedele al culto restaurato del dio Ammon, abbiano potuto
concentrarsi intorno alla nostalgia per la perduta riforma voluta da
Akhenaton.
E' probabile che il monoteismo incentrato sulla figura divina del sole
offrisse l'idea di un concetto universalistico che si prestava alle istanze
di quanti, in seno alla società egiziana, erano collocati in una posizione
fortemente emarginata e subordinata. Ed è anche probabile che gli ex
funzionari e sacerdoti di Akhenaton, o i loro discendenti, abbiano trovato
nelle popolazioni semitiche, che vivevano in Egitto in una condizione di
pesante asservimento, una comunità disposta ad ascoltarli, interessata a
seguirli, a dare loro peso e importanza. Si sarebbe così determinata una
simbiosi fra la parte dissidente della società egiziana, costituita da
quanti avevano subito il tracollo del sistema di Akhenaton, e le popolazioni
immigrate, le quali, fino a quel momento, non erano state capaci di darsi né
una identità né una forza come gruppo.
Freud si è spinto fino ad avanzare l'idea che l'uomo che noi
conosciamo come Mosè fosse stato un ex funzionario di Akhenaton, anche se
ciò dà adito a qualche obiezione. Una di queste, per esempio, riguarda i
tempi; infatti una delle probabili datazioni dell'uscita delle popolazioni
semitiche dall'Egitto è intorno al 1250 a.C., durante il regno del faraone
Ramsete II. Sono passati cento anni dalla restaurazione del culto di Ammon e
Mosè non potrebbe essere stato un protagonista in prima persona
dell'esperienza del sistema di Akhenaton. Anche se, in realtà, la datazione
dell'esodo è quanto di più incerto ci sia e non è possibile porre questa
obiezione come decisiva. Personalmente non credo affatto che determinare una
datazione certa per il cosiddetto esodo sia molto importante, ai fini del
nostro discorso; infatti non è così fondamentale che Mosè sia stato, oppure
no, un funzionario del faraone Akhenaton. A noi importa soprattutto
introdurre un'idea: quella che gli egiziani accomunati da un interesse
nostalgico per il sistema di Akhenaton e per la sua concezione monoteistica,
da un lato, e la componente emarginata della società egiziana che aveva
avuto origine nei trascorsi flussi immigratori, dall'altro lato, avessero
trovato un'intesa che li poneva in serio conflitto con le classi dominanti e
che li aiutava a maturare una identità di gruppo.
Ora, gli interpreti di questo più che verosimile processo possono
essere stati sia gli ex protagonisti del sistema di Akhenaton, in un'epoca
immediatamente successiva alla restaurazione (fra il 1350 e il 1300 a.C.),
sia i loro discendenti (fra il 1300 e il 1200 a.C.), ovverosia all'epoca in
cui siamo soliti ambientare l'esodo biblico.
3 - MOSE' EGIZIANO?
C'è un aspetto estremamente importante che Freud sottolinea con
argomentazioni puntuali e, direi, piuttosto ineccepibili. Si tratta del
fatto che Mosé sarebbe stato un egiziano e non, come si crede comunemente,
un ebreo. Una delle basi di questa opinione risiede nel nome stesso: "...E'
importante notare che il suo nome (il nome di questo capo), Mosè, è
egiziano. Esso è semplicemente la parola egiziana "mose" che significa
"fanciullo", ed è la contrazione di forme nominali più complesse, quali ad
esempio "Amon-mose", che significa "Amon un fanciullo", o "Ptah-mose", che
significa "Ptah un fanciullo", i quali nomi sono a loro volta abbreviazioni
della forma piena "Amon ha donato un fanciullo", o "Ptah ha donato un
fanciullo". L'abbreviazione "fanciullo" presto divenne una forma rapida più
conveniente dell'ingombrante nome completo, ed il nome Mose, "fanciullo",
non è infrequente sui monumenti egizi. Il padre di Mosé senza dubbio
prefisse al nome del figlio quello di un dio egizio, quale Amon o Ptah, e
questo nome divino si perdette gradualmente nell'uso corrente, finché il
fanciullo venne chiamato "Mose"" [Citazione da History of Egypt, di
J.H.Breasted, in Freud, Mosè e il monoteismo, Pepe Diaz, Milano, 1952].
"...nella lingua [egiziana] "Mosè" equivaleva a "bambino", "figlio",
"discendente", sia in senso letterale che metaforico..." [J.Lehmann, Mosè
l'egiziano, Garzanti, Milano, 1987].
E ancora: "...non ci resta perciò che il nome, il quale, malgrado la
spiegazione giudaica "tratto dalle acque", riallaccia Mosè ai nomi egiziani
Tutmosi o Ramesse (Rah-mose)" [F.Castel, Storia d'Israele e di Giuda, Ed.
Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1987].
C'è poi un'altra importante considerazione da fare. Il Mosè biblico ha
un abito del tutto leggendario, a sostegno dell'idea che la sua identità sia
il frutto di una operazione artificiale finalizzata a rappresentarlo come il
padre nazionale degli ebrei . Infatti il racconto della sua nascita,
coerentemente con le leggende semitiche, è la copia esatta del racconto che
riguarda la nascita del grande Sargon di Accad, che fu abbandonato nelle
acque e poi salvato per diventare, infine, un grande re. Evidentemente,
allorché fu redatta la storia del popolo che era sfuggito dall'Egitto, si
voleva che il suo condottiero possedesse i requisiti che lo rendevano
meritevole, a pieno titolo, di quella dignità. Il racconto non fu scritto da
storici, animati da uno spirito scientifico di cronaca, ma da apologeti, che
dovevano contribuire alla creazione di una coscienza nazional-religiosa.
Ora, esistono altri elementi di sostegno alla tesi del Mosé egiziano,
seguace della teologia di Akhenaton: uno è il nome che gli ebrei utilizzano
spesso per riferirsi al loro dio, al posto del termine tabù (indicato
comunemente dal tetragramma YHWH) che nessuno poteva pronunciare ad alta
voce. Si tratta della parola Adonai, che ha la stessa radice (Adon) del dio
solare di Amenofi IV (Aton). I glottologi sanno bene che le lettere t e d
sono del tutto intercambiabili nelle radici etimologiche, pertanto Adon e
Aton sono esattamente lo stesso nome. Si osservi quanto afferma ancora
Sigmund Freud: "Il credo ebraico, come è noto, recita: "Schema Jisroel
Adonai Elohenu Adonai Echod". Se la somiglianza del nome dell'egizio Aton
alla parola ebraica Adonai e al nome divino siriaco Adonis non è casuale, ma
proviene da una vetusta unità di linguaggio e significato, così si potrebbe
tradurre la formula ebraica: "Odi Israele il nostro Dio Aton (Adonai) è
l'unico Dio"" [Sigmund Freud, Mosè e il Monoteismo, Milano, 1952].
L'altro elemento è l'aspetto della famosa "arca dell'alleanza" , che,
nel racconto biblico (Es 25, 10-22), Dio aveva ordinato a Mosè di edificare
e che, in seguito, sarebbe stata conservata nel tempio di Salomone fino
all'invasione assira. Essa riproduce la "barca degli dei" dei templi egizi,
anch'essa coi cherubini ad ali spiegate.
Ma c'è un altro elemento, senza dubbio quello di maggior peso: Mosè è
comunemente considerato il padre del monoteismo, ma dobbiamo ammettere che
la sua idea ha un precedente molto vicino nello spazio e nel tempo, e molto
analogo, nella teologia di Akhenaton, pertanto ci rimane difficile credere
che la sintesi monoteistica di Mosè non abbia alcun debito nei confronti
della rivoluzione religiosa del faraone Amenofi IV.
Riassumendo:
1 - Mosè predica in Egitto, come Akhenaton 50 o 100 anni prima, una
teologia monoteistica;
2 - Mosè ha un nome egiziano;
3 - Mosè ha, nel racconto biblico, una nascita assolutamente
leggendaria;
4 - Un nome del dio ebraico (Adonai), ha la stessa radice del dio
solare (Aton) di Amenofi IV;
5 - L'arca dell'alleanza degli ebrei è quasi identica alla "barca
degli dei" dei templi egizi.
4 - UN POPOLO ETEROGENEO.
Ci troviamo davanti ad importanti constatazioni: le genti che uscirono
dall'Egitto, attraverso quel processo che la Bibbia rappresenta nel libro
dell'Esodo, erano costituite, per una componente, da una parte della società
egiziana, quella dissidente, erede della riforma politico-religiosa di
Akhenaton, fedele alla teologia monoteistica, e, per l'altra componente, da
un insieme variegato di tribù, in prevalenza semitiche, che avevano
trascorso in Egitto molti decenni, trovando interessi da condividere. Si
trattava comunque di genti che parlavano lingue o dialetti diversi, con
tradizioni religiose diverse, legate agli dei tribali. Non si trattava
affatto di un popolo omogeneo, che potesse riconoscersi sotto il nome di
ebrei. Ed è per questo che il racconto biblico ci testimonia la grande
difficoltà di tenere unito questo insieme di persone ma, soprattutto, la
difficoltà di Mosè a mantenere una egemonia su queste genti. Si ricordi a
questo proposito il ritorno di Mosè dal monte Sinai, col popolo che, in sua
assenza, aveva iniziato ad adorare il vitello d'oro, restaurando, chi lo sa,
qualche culto tribale.
E' molto verosimile che la componente egizia di questo insieme di
genti, ovverosia gli eredi del sacerdozio di Aton, fossero quelli che la
tradizione ebraica chiama "Leviti" e che Mosè ne fosse il capo.
Volendo mantenere un atteggiamento storicamente onesto, noi dobbiamo
dissociarci dall'immagine biblica e riconoscere che, all'epoca dell'esodo,
non esistevano affatto, o ancora, gli ebrei, intesi come un popolo che
potesse essere considerata tale a tutti gli effetti, ovverosia con una sua
omogeneità etnica, linguistica, culturale e religiosa, e con una storia
comune oltre al fatto di avere condiviso uno stato di emarginazione e di
subordinazione in Egitto. Quello che la Bibbia ci rappresenta come il
momento in cui gli ebrei realizzarono il loro riscatto dalla schiavitù
egiziana è, in realtà, il primo momento in cui gli ebrei iniziano ad
inventarsi come popolo. Mosè fu il loro punto di riferimento, come Maometto,
1800 anni più tardi, fu il punto di riferimento per la nascita di una
nazione araba. Allora possiamo quasi affermare che la Bibbia non fu un
prodotto degli ebrei ma, al contrario, furono gli ebrei un prodotto della
Bibbia, nel senso che i principi teologici della Bibbia furono concepiti col
fine primario di offrire una base adatta a creare e consolidare l'identità
etnico-religiosa di quell'insieme di tribù che si era voluto far diventare
popolo.
5 - DAVID, L'UNTO DI YHWH.
I fuoriusciti dall'Egitto, governati da una casta egiziana e da un
capo che aveva riciclato il monoteismo di Akhenaton, ebbero vita difficile e
peregrinarono in cerca di una casa finché non giunsero nei pressi di quella
striscia di territorio che sta tra il fiume Giordano e il mar mediterraneo.
In quel contesto di deserti infuocati (Sinai, Negev, penisola arabica...),
dove in estate il sole, picchiando sulle rocce e sulle sabbie nude, produce
comunemente temperature di 50 e persino 60 gradi che arrostiscono ogni
creatura vivente, le colline della palestina, che sfiorano i mille metri
d'altitudine, arrestano il vento che viene dal mare e facilitano le piogge,
creano un ambiente assolutamente idilliaco. Clima temperato, boschi
verdeggianti, erba adatta al pascolo, stambecchi che scorrazzano, sorgenti
di acqua fresca e terra fertile.
Chi non avrebbe pensato che quella sorta di oasi incredibile era un
giardino preparato apposta dal creatore come dote per un popolo che godeva
di una sua particolare simpatia?
Ma, ahimé, altre genti occupavano questo suolo. Tribù che non erano
molto intenzionate ad accettare l'intromissione di questa nuova banda di
nomadi.
Certamente i fuoriusciti dall'Egitto ebbero da affrontare prove molto
dure, come del resto è chiaramente testimoniato dal racconto biblico
relativo al tutto il lungo periodo che separa Mosè da David (due o tre
secoli). Un periodo di lotte interne e di conflitti esterni in cui queste
genti, oltre a combattere con gli indigeni che trovavano sul loro cammino,
dovevano anche combattere contro quella crisi di identità che non poteva non
affliggere coloro che tentavano di comportarsi come popolo, pur essendo un
miscuglio molto bastardo. Ed è per questo che la società di Israele ha
sempre conservato nella sua struttura una molteplicità che, nei fatti, si è
espressa nella suddivisione in dodici tribù.
Ovviamente, le vicende e i disagi che questo insieme di genti ha
dovuto vivere nei due o tre secoli successivi all'uscita dall'Egitto, ha
influito profondamente sulla maturazione della loro concezione religiosa.
Infatti, sebbene l'eredità teologica della concezione monoteistica di
Akhenaton fosse il concetto di un creatore unico per tutto l'universo e per
tutti gli esseri, fu impossibile evitare che queste tribù, impegnate in una
dura lotta per la sopravvivenza, non sviluppassero un'immagine del dio come
"proprio" dio, un dio che amava intervenire a favore del suo popolo
prediletto, un dio che determinava gli esiti delle battaglie e veniva
definito per questo "dio degli eserciti".
Questa, filosoficamente parlando, è senz'altro una involuzione del
monoteismo pacifista di Akhenaton, che sembrava accarezzare l'idea
incredibilmente moderna di una religione universale, legata all'immagine di
dio non come signore tribale, ma come signore della natura, depositario di
quella potenza che elargisce e governa la vita di tutte le creature. Ma è
anche vero che Akhenaton, in giovane età, come principe ereditario, si è
trovato senza fatica sul trono di una antica e splendida civiltà. Per lui è
stato facile immaginare una religione universale e pacifica, e non possiamo
dimenticare che la sua politica idealista, in fin dei conti, è stata
abbastanza rovinosa per l'Egitto.
Il dio unico di Israele non è più quel sole equanime che splende per
tutti, i cui raggi scendono sulla terra come mani amorose che accarezzano
tutte le creature. Il dio di Israele diventa molto partigiano, intende
sterminare coloro che non vogliono essere suoi fedeli, incarica un popolo
prediletto di farsi esecutore impietoso di questo piano finalizzato al
risanamento spirituale dell'umanità. Questa è ovviamente la proiezione
narcisistica eseguita da un gruppo umano che, a differenza di Akhenaton, non
ha ereditato lo splendore di un antico e ricco paese, bensì non ha ancora
una terra, non ha una storia comune, non ha altro che povertà, nemici ostili
e crisi di identità collettiva.
Che altro può fare, un gruppo umano come questo, se non inventarsi un
orgoglio nazional-religioso, anzi, una missione spirituale, un patto
privilegiato col creatore, colmare il proprio immaginario collettivo con
l'idea di essere, fra tutti i popoli, il favorito del creatore e di
legittimare il proprio interesse promuovendolo al rango di una causa di
giustizia universale? Non solo è una idea necessaria, ma si tratta di una
idea geniale, assolutamente vincente e, sebbene il presunto favore di dio
sia solo una invenzione narcisistica, chi, in Israele, avrebbe osato
metterlo in dubbio? Ed è così che l'idea di un monoteismo di stato, presa in
prestito da Akhenaton, che non si era rivelata utile per il vecchio Egitto,
si rivelò utile per il giovane Israele; adattando però una parte della sua
filosofia alle necessità di questo popolo nascente e assumendo tinte di
spiccato nazionalismo.
6 - IL REGNO DI DIO.
Uno dei momenti più gloriosi della sua storia Israele l'ha vissuto
quando, a seguito di brillanti vittorie contro i popoli indigeni della
palestina, si è trasformato in un regno, prima sotto Shaul, capo della tribù
di Beniamino, e subito dopo sotto David, un umile pastorello della tribù di
Giuda, che era andato in sposa alla figlia di Shaul.
Shaul era riuscito a riunire sotto lo stesso regno solo tre tribù e
non aveva stabilito una capitale, mentre David, un individuo affascinante,
abile, spregiudicato, anzi, decisamente cinico, seppe riunire tutte e dodici
le tribù sotto un grande regno. E poiché si trattava del regno di un popolo
che aveva ormai maturato la convinzione di essere depositario di una
missione affidatagli direttamente da dio, o meglio, che era cresciuto e
aveva vinto proprio perché aveva trovato la sua identità e la sua forza
inventandosi tale convinzione, quel regno non poteva essere altro che il
"regno di dio". E il suo compito era quello di splendere davanti a tutti i
popoli della terra come luce di verità.
David fu l'unto del signore, messia (mashiah in ebraico, che si
traduce christos in greco e cristo in italiano). Le sue umili origini devono
in qualche modo essere promosse e la Bibbia ci racconta del profeta Samuele
che va a Betlemme (città natale di Davide) e, ispirato da dio, lo riconosce
come colui che regnerà su Israele e lo cosparge con l'olio dell'unzione.
David esprime un disegno ambizioso: dare una capitale grandiosa al
regno di dio e erigervi un tempio monumentale, che potesse competere con la
memoria degli splendori egiziani, sumeri, babilonesi... E' sua la scelta
felice di Gerusalemme come capitale, sopra uno dei colli più fortunati della
palestina, fra i boschi, a ottocento metri di altitidine, dove i nemici non
possono sorprendere con attacchi imprevedibili, dove zampillano sorgenti
rigogliose e dove il clima estivo è quello, delizioso, di una località di
vacanze di mezza montagna.
Ma David dovette anche affrontare un problema che non era per niente
risolto e che dimostra, in modo inequivocabile, quanto eterogeneo fosse
questo popolo e come fosse difficile tenerlo unito. David dovette superare
gravi difficoltà interne, fra cui una ribellione voluta da uno dei suoi
figli, Assalonne, che egli non esitò a far uccidere.
E così David non riuscì a edificare il tempio, sarà uno dei suoi
figli, Salomone, che egli ebbe da Betsabea, a realizzare questa ambizione,
ma i costi di tale impresa furono talmente elevati, in termini umani e
fiscali, da far precipitare il problema della coesione interna, che non
poteva non essere sempre minaccioso in un popolo che si era inventato tale,
appiccicando insieme tribù diverse e dalle origini più varie.
E così il sedicente "regno di dio" si sfasciò troppo presto sotto il
proprio peso e si trasformò in due regni: quello di Israele, nelle regioni
della attuale Samaria (palestina centro settentrionale), e quello di Giuda,
nelle regioni a ovest del Mar morto (palestina centro meridionale). Il regno
di dio durò meno di un secolo, né mai più trovò il suo antico splendore.
Furono uomini come quello che Pilato fece crocifiggere alla vigilia di una
festività pasquale che, mille anni dopo David, tentarono di replicarne
l'impresa, ma fallirono e finirono puntualmente i loro giorni con le mani e
coi piedi inchiodati.
7 - UN LIBRO SACRO CHE RACCONTI LA NOSTRA GLORIOSA STORIA.
L'ideale monoteista, in associazione con la convinzione di essere
toccati da una scelta di dio, e quindi di essere gli affidatari di una
missione spirituale e i destinatari di una terra promessa, è l'ideologia che
ha consentito agli ebrei di inventarsi come popolo, di svilupparsi, di
risolvere i suoi problemi di sopravvivenza, di mantenere una difficile
coesione, per quanto traballante essa sia stata. Ed è per questo che gli
ebrei, ad un certo punto della loro storia, fra le tante altre cose geniali
che hanno fatto, hanno deciso di darsi come punto di riferimento delle
scritture.
Naturalmente una buona parte dei contenuti che tali scritture
avrebbero dovuto esprimere era già preesistente alla loro stesura in forma
grafica e, come è normale nei popoli antichi, la loro conservazione e
trasmissione era stata affidata ad una tradizione orale di cui i saggi erano
i depositari. Ma una scrittura da leggere in pubblico, le cui frasi fossero
da imparare a memoria e da ripetere innumerevoli volte, intorno alla quale
la gente si sarebbe potuta incontrare, avrebbe offerto al popolo qualcosa di
assai più concreto e tangibile che non la sapienza custodita da una
ristretta elite di iniziati.
Quand'è che questa necessità si presentò con una urgenza
irrinunciabile? La risposta è senz'altro all'epoca della formazione del
regno, quando David tolse alla tribù di Beniamino l'egemonia per darla alla
tribù di Giuda e scelse, o impose, Gerusalemme come capitale. E' questo il
momento in cui gli scribi si sono rimboccati le maniche e hanno redatto i
primi libri. Come minimo è questo il momento in cui diventano bianco su nero
le storie di Abramo e di Isacco e, forse, molte altre cose.
Ovviamente gli scribi del "regno di dio" appena nato, sono spinti da
una serie di esigenze molto precise. La coesione fra le genti del regno è
precaria, la scrittura deve eliminare questo vizio congenito di Israele,
essa non solo deve raccontar loro che essi sono figli dello stesso dio, ma
figli di uno stesso padre umano, e Abramo, figura di cui non sapremo mai se
è prodotta dalla fantasia o dalla storia, vince questo ruolo. A lui dio
chiede delle prove molto dure, infine lo sceglie per dare origine al popolo
a cui sarà affidata la missione.
Nel redigere queste scritture gli scribi compiono una sintesi
colossale e fanno man bassa di tutto il materiale che possono raccogliere
per rendere la loro opera nobile, grandiosa, venerabile, prestigiosa,
autorevole. Oggi la Bibbia ci si presenta come parola di dio perché i suoi
redattori furono spinti dalla necessità ideologica di farla apparire tale al
giovane popolo di Israele.
Una parte abbondante della mitologia del vicino oriente confluisce in
questa sintesi, non solo quella accadica, ovverosia quella dei popoli che
condividevano con Israele la radice semitica, ma anche quella sumera, una
etnia completamente diversa, con cui gli accadi avevano avuto a che fare a
lungo. E così il quadro della genesi si apre con una scena assolutamente
sumera, ovverosia con il racconto della trasgressione primordiale compiuta
da Adamo e Eva nel giardino dell'Eden. E poi continua con il racconto del
diluvio, che è letteralmente sottratto all'epopea sumera di Gilgamesh, poi
ripresa dai babilonesi, in cui Noè si chiamava Ziusudra, Uta-napishtim,
Atrahasis. Ed anche il racconto della torre di Babele ha come punto di
riferimento gli ziggurat mesopotamici, mentre la confusione delle lingue sta
senz'altro a rappresentare il disagio dovuto all'imbastardimento della
società sumerica in seguito alla consistente infiltrazione accadica.
Un presupposto di grande importanza è la creazione fittizia di una
continuità, o meglio, di una linearità. Una delle principali mistificazioni
prodotte da questa esigenza è, per esempio, il fatto che gli ebrei avessero
questa radice etnica unitaria e fossero un popolo prima ancora delle vicende
dell'esodo. Sarebbero stati un popolo già in Egitto, un popolo schiavo e
prigioniero da raffigurare con una buona dose di vittimismo ma, a parte il
fatto che gli immigrati e gli emarginati della società egiziana non avranno
certamente avuto vita facile né molto privilegi da condividere, si tratta di
una rappresentazione del tutto falsata. Infatti non si trattava di un popolo
omogeneo; né il loro stato poteva definirsi schiavitù secondo quella
accezione del termine a cui siamo stati abituati dall'immagine latina,
ovverosia dello schiavo inteso come oggetto subumano, che è proprietà
privata del suo padrone, su cui quest'ultimo ha pieno diritto di vita e di
morte. Abbiamo una subordinazione del tutto diversa, che non rispecchia
questo cliché romano.
Al fine di ottenere l'effetto della continuità storica, le scritture
abbondano di lunghi elenchi di patriarchi i quali, posti in fila in lunghe
paginate, offrono una efficace suggestione didattica. E molti imparano a
memoria, e ripetono all'infinito questi elenchi, finché essi realizzano un
condizionamento psicologico che infonde nell'immaginario collettivo l'idea
di appartenere ad un popolo che ha radici antiche, che ha una messaggio da
trasmettere, che ha una eredità da salvaguardare.
Dopo avere costruito la figura chiave del padre della razza, Abramo, è
necessario costruire quella del padre della nazione, Mosè. Ed è così che
l'egiziano diventa ebreo, gli si innesta artificialmente la mitologia
accadica del "salvato dalle acque", lo si fa salire sul monte Sinai per
incontrare personalmente il dio dell'universo e prendere da lui le tavole
della legge. E, sebbene una componente considerevole della teologia di Mosè
abbia una derivazione dal monoteismo di Akhenaton, questa radice è
completamente recisa e abbandonata nell'oblio. Esattamente come mille anni
dopo, quando dal monoteismo ebraico, attraverso la sintesi sincretistica di
San Paolo, si stacca la fede cristiana, che recide il suo cordone ombelicale
e rinnega l'ebraismo, pur avendo derivato da quello una mole fondamentale
del suo bagaglio teologico e scritturale.
Il leit motiv di questa base dell'identità etnico religiosa di Israele
deve essere, senza mezzi termini, la continua regia di dio dietro le quinte
del teatro storico. E così è, attraverso i suoi frequenti interventi. Quando
manda le piaghe in Egitto, quando apre le acque del mar rosso, quando fa
scendere la manna, quando ferma il sole in pieno cielo durante una
battaglia, o guida la mano del pastorello David a colpire il gigante Golia.
I protagonisti umani che svolgono un ruolo fondamentale in questa
storia sono quasi sempre ammantati da una cornice miracolosa, le loro
nascite sono annunciate, le loro madri partoriscono pur essendo sterili, le
loro gesta non sono completamente umane. Il prodigio è la chiave di
autentificazione della scrittura, il sigillo di riconoscimento
dell'autorità.
Le figure di Abramo e di Mosé si completano con quella di David, il
padre politico, il messia, il costruttore del "regno di dio".
Anche in seguito, dopo lo scisma dei due regni che avvenne alla morte
di Salomone, e quando il paese iniziò a subire un plurisecolare destino di
dominazioni straniere, sotto gli assiri, i babilonesi, i persiani, i greci e
i romani, le scritture sono caratterizzate da un fine primario:
salvaguardare l'eredità nazionale, continuare a dimostrare che Israele è
sempre, malgrado tutto, il popolo di dio, che il suo futuro gli riserva un
riscatto. Il profetismo messianico, ovverosia l'attesa di un liberatore che
ripeta la figura di David e ricostruisca il "regno di dio", diventa un
motivo ricorrente, finché si trasforma in autentica ossessione e porterà,
sotto la dominazione romana, ad una crisi fatale. L'imperatore Tito,
interprete della esasperazione romana nei confronti di questo popolo, visto
come affetto da una patologia teocratica maniacale, farà strage e rovina
degli ebrei e della loro capitale, ed essi ricadranno improvvisamente nella
condizione in cui si trovavano in Egitto, come emarginati vittime di una
diaspora penosa.
E' il momento in cui l'eredità monoteistica di Akhenaton, che aveva
subito una prima grande trasformazione con la sintesi biblica, subisce una
seconda grande trasformazione con la sintesi cristiana. Occorreranno ancora
cinquecento anni perché maturino in medio oriente le condizioni per la terza
sintesi: quella coranica.
Adesso non vorrei essere accusato di ambizioni profetiche, perché è
solo la ragione, e non la visione mistica, che mi suggerisce quando sarà la
prossima tappa del monoteismo: quando il sistema commerciale globalistico
avrà mostrato in modo drammatico la stridente contraddizione che esiste fra
la promessa del benessere tecnologico e la crescita inarrestabile dei
problemi planetari (demografici, economici, politici ed ecologici),
facendoci vivere tragedie di dimensioni bibliche che oggi non abbiamo
nemmeno il coraggio di immaginare. Allora nascerà una nuova sintesi
religiosa e potrebbe addirittura darsi che l'essere supremo sia di nuovo
rappresentato come un disco solare, circondato da una corona di raggi che
scendono sulla terra e terminano con mani affettuose che carezzano le
creature. E' una visione non lontanissima da ciò che accadrà realmente, nel
millennio che sta nascendo.
Io, personalmente, sono già pronto. Ma il momento è ancora prematuro.
Firenze, 15/11/1999
David Donnini
di David Donnini
http://www.nostraterra.it/
Indagine critica sulle radici storiche del Vecchio Testamento
"Dio non avrebbe mai scritto un libro come questo"
Sommario:
1 - UN FARAONE PARTICOLARE.
Una ventina d'anni fa, mentre rovistavo nella vecchia libreria di mio
padre, fra scaffali nei quali facevano bella mostra di sé le eleganti
costole rilegate in tela di volumi degli anni trenta e quaranta, mi capitò
fra le mani un testo di Sigmund Freud: "Mosè e il monoteismo".
Rimasi stupito del fatto che Freud si fosse occupato di
quell'argomento; ero abituato a titoli come "Psicopatologia della vita
quotidiana", o "L'interpretazione dei sogni", e pensavo che il padre della
psicanalisi non si fosse mai interessato di questioni storiche o religiose.
Iniziai a leggerlo e, devo confessare, fu un impatto travolgente; rimasi
talmente affascinato da ciò che scoprii che mi domandai com'era possibile
che certi significativi incontri dipendessero da circostanze così casuali. E
se non ci fosse stato questo libro nella casa dei miei genitori? L'avrei mai
letto?
Sigmund Freud era ebreo di nascita. Egli apparteneva ad una stirpe
che, in seguito alla plurisecolare persecuzione subita da parte dei
cristiani, ha sviluppato per reazione un fortissimo senso della propria
identità e trasmette ai propri figli un orgoglio fiero, composto ma deciso,
capace di lunga rassegnazione, ma anche di uno spirito di autodifesa e di
combattimento com'è difficile trovarne in altre realtà etnico-religiose.
La prima parte del libro faceva spesso riferimento ad un faraone
egiziano della XVIII dinastia, Amenofi IV. Costui fu il protagonista di una
eccezionale riforma politico-religiosa del sistema egiziano. L'occidente
cristiano non ha la benché minima idea di quanto sia debitore, nelle
caratteristiche della propria identità culturale, al faraone Akhenaton e ai
contenuti della sua riforma.
Sarà bene procedere con calma e ordine, cominciando da una brevissima
premessa sulla situazione dell'Egitto nel periodo che precedette l'ascesa al
potere di questo singolare faraone.
Sotto il regno di Amenofi III (negli anni dal 1405 al 1377 a.C.),
quando Tebe era la città reale, una fortissima casta sacerdotale, custode e
amministratrice del culto del dio Ammon, aveva sviluppato, in connubio con
l'aristocrazia del paese, un grande potere, ed era entrata in una posizione
conflittuale con l'egemonia della corte faraonica. Per questo motivo, ma
anche per una propensione caratteriale e ideologica, allorché succedette ad
Amenofi III il figlio che costui aveva avuto dalla regina Tiye, Amenofi IV
(intorno all'anno 1377 a.C.), l'Egitto fu protagonista del suo più grande
sconvolgimento, quale nemmeno le precedenti invasioni degli Hyksos avevano
potuto produrre.
In breve tempo, a partire dalla sua nomina al trono, il nuovo faraone
rivoluzionò la religione di stato, spodestò la classe sacerdotale, sostituì
il molteplice panteon egizio con una curiosa fede monoteistica. Si trattava
forse del primissimo esempio nella storia di monoteismo di stato, incentrato
sul culto del disco solare, che era chiamato Aton. Anche la capitale fu
spostata ad Akhet-aton, più a nord rispetto a Tebe, e il sovrano mutò il
proprio nome da Amenofi ad Akhenaton, o Ekhnaton (amato da Aton).
Nell'insegnamento di Akhenaton possiamo notare la insistente
ricorrenza del termine "maet" (verità), ed egli stesso si definiva "vivente
nella verità", al punto da sovvertire la tradizione che, nelle opere d'arte,
era solita presentare il sovrano in una forma stereotipata, coerente col
formalismo celebrativo, e si faceva ritrarre in scene di vita familiare,
mentre insieme alla moglie Nefertiti e alle figlie passeggiava e faceva
offerte al dio sole.
Fu, probabilmente, un faraone dal volto umano; sappiamo che perseguì
una politica pacifista, riducendo le spese militari e rinunciando alla
difesa ad oltranza dei territori fuori dall'Egitto. Possiamo ragionevolmente
ipotizzare che ciò comportasse una diminuzione del prelievo fiscale;
possiamo anche avanzare l'idea che il popolo percepisse, nella figura del
suo bizzarro faraone, qualcosa di meno lontano da sé di quanto non fossero
stati i precedenti sovrani e sacerdoti. Ma queste, ci tengo a chiarirlo,
sono speculazioni arbitrarie, senza un fondamento nelle prove storiche.
E' abbastanza immediato pensare che un sistema del genere
difficilmente avrebbe potuto funzionare a lungo. Infatti gli hittiti
premevano ai confini orientali del regno e sfruttarono la circostanza per
espandere il loro dominio a spese dell'Egitto. Molti fra i sacerdoti
spodestati e gli aristocratici intuirono i pericoli della circostanza e
tramarono per preparare una restaurazione del precedente regime e
riconquistare i privilegi perduti. Allorché Akhenaton morì (intorno al 1362
a.C.), la moglie Nefertiti si adoperò per far salire al trono il
giovanissimo genero Tut-ankh-aton, ma, alla morte della stessa Nefertiti,
sacerdoti ed aristocratici approfittarono della situazione instabile e
dell'inesperienza del nuovo faraone, per iniziare una rapida controriforma e
per rimettere in piedi gli antichi poteri e la religione tradizionale
dell'Egitto. La città di Akhet-aton fu abbandonata e la capitale fu
ristabilita a Tebe. Anche il nome del faraone fu opportunamente corretto in
Tut-ankh-amon, coerentemente col culto restaurato del dio Ammon. Tutti
conosciamo il famoso faraone, è l'unico di cui è stata scoperta la tomba
intera, inclusa la mummia, e questo ritrovamento è stato l'evento più
spettacolare dell'archeologia egiziana.
E' ovvio che, con l'avvento della restaurazione, una parte della
società egiziana, che si era sviluppata alla corte di Akhenaton, visse un
pesante tracollo. Possiamo facilmente immaginare in quale difficile
situazione si siano trovati i suoi ex funzionari e sacerdoti,
improvvisamente esautorati e, probabilmente, perseguitati.
Ora, come spesso succede in questi casi, se sono i grandi poteri a
stabilire certe tappe importanti del cammino storico, sono alcuni poteri
meno appariscenti (oserei dire occulti) a dirigere il cammino definitivo
della storia, anche se a lunga scadenza. Infatti è assolutamente certo che
l'esperienza del regno di Akhenaton aveva lasciato una traccia profonda, non
solo negli interessi politici e nei rancori di quanti erano stati colpiti
dalla controriforma, ma anche, e forse soprattutto, nell'inconscio
collettivo, grazie all'idea di una teologia monoteistica, che sostituiva le
figure fantasiose delle numerose divinità col concetto affascinante di un
principio creatore unico ed universale, irrimediabilmente superiore a quello
delle immagini dall'aspetto antropomorfico o animale, simboleggiato dal
disco solare; in cui chiunque riconosce istintivamente la paternità di ogni
manifestazione della vita terrestre.
Sebbene non ci siano elementi per riportare alla luce, dall'oblio in
cui sono stati definitivamente sepolti, i movimenti e le trame di coloro
che, per interesse o per adesione ideologica, simpatizzavano con le
concezioni dell'ormai sconfitto sistema politico-religioso di Akhenaton,
possiamo essere certi che questo desiderio di ritorno alle novità di cui
l'Egitto aveva avuto un assaggio, non ha mai più abbandonato almeno una
parte della società di questo paese, e ha giocato un ruolo non indifferente
nella dinamica delle conflittualità interne.
2 - GLI EBREI IN EGITTO.
A questo punto, nel nostro discorso, possiamo innestare la realtà dei
popoli semitici che erano penetrati in Egitto, pur non essendo egiziani, in
una condizione che troppo spesso è semplicisticamente rappresentata dal
termine "schiavitù".
Già in precedenza i rozzi nomadi semiti avevano preso di mira, con le
loro migrazioni di massa, altre grandi civiltà sedentarie, attratte dallo
straordinario sviluppo tecnologico di cui queste erano depositarie, e della
loro imponente organizzazione urbanistica e sociale. Mi riferisco ai sumeri,
che furono letteralmente schiacciati da questa corrente migratoria. I semiti
in questione erano gli accadi. Un grande condottiero di questi uomini (siamo
intorno all'anno 2450 a.C.), protagonista di una clamorosa vittoria sui
sumeri, fu Sargon. Di lui la leggenda accadica narra che era stato
abbandonato dalla madre nelle acque del fiume, in un canestro di giunchi,
per poi essere raccolto da un acquaiolo, su indicazione della dea Ishtar,
che lo aiutò a diventare un re potente. E' una storia che già conosciamo,
anche se con altri protagonisti.
Adesso, nell'Egitto degli ultimi faraoni della XVIII dinastia, e dei
primi della XIX, succedeva qualcosa di somigliante a ciò che era successo
nel paese dei sumeri mille anni prima; e che succede ancora oggi nei paesi
opulenti dell'occidente cristiano. Le popolazioni circostanti, etnicamente
diverse, socialmente e culturalmente meno evolute, economicamente più povere
(potremmo considerarli gli extracomunitari dell'epoca), entravano in Egitto
e qui si stabilivano in cerca di fortuna. Gli stessi Egiziani tolleravano la
loro presenza perché, non ostante gli evidenti svantaggi del fenomeno
immigratorio, questa gente offriva forza lavoro a basso costo, e poteva
svolgere gli innumerevoli compiti che i contadini egizi non avrebbero potuto
né voluto svolgere. La Bibbia li rappresenta come un popolo che aveva già
maturato una sua identità nazionale, chiamandoli ebrei. Ma questa è pura
leggenda. Infatti le popolazioni che si erano introdotte in Egitto per
lavorare erano molte e diverse, così come oggi, da noi, sono diversi i
marocchini dai senegalesi, gli albanesi dagli slavi...
E' probabile che, ad un certo punto, questa parte della varia umanità
che componeva il tessuto sociale egiziano, abbia acquistato un certo peso e
una certa coscienza di sé, maturando il bisogno di acquistare anche un senso
della propria identità che, ovviamente, fino a quel momento non esisteva
perché si trattava di un gruppo eterogeneo per lingua, razza e culti
religiosi, in cui, probabilmente, prevaleva una componente semitica.
L'opinione di Freud, che egli illustra con grande chiarezza nel libro
che abbiamo citato in precedenza, è quella che le conflittualità interne
alla società egiziana e, in particolare, le opposizioni nei confronti della
classe dominante, costituita dai faraoni della XIX dinastia e dalla classe
sacerdotale fedele al culto restaurato del dio Ammon, abbiano potuto
concentrarsi intorno alla nostalgia per la perduta riforma voluta da
Akhenaton.
E' probabile che il monoteismo incentrato sulla figura divina del sole
offrisse l'idea di un concetto universalistico che si prestava alle istanze
di quanti, in seno alla società egiziana, erano collocati in una posizione
fortemente emarginata e subordinata. Ed è anche probabile che gli ex
funzionari e sacerdoti di Akhenaton, o i loro discendenti, abbiano trovato
nelle popolazioni semitiche, che vivevano in Egitto in una condizione di
pesante asservimento, una comunità disposta ad ascoltarli, interessata a
seguirli, a dare loro peso e importanza. Si sarebbe così determinata una
simbiosi fra la parte dissidente della società egiziana, costituita da
quanti avevano subito il tracollo del sistema di Akhenaton, e le popolazioni
immigrate, le quali, fino a quel momento, non erano state capaci di darsi né
una identità né una forza come gruppo.
Freud si è spinto fino ad avanzare l'idea che l'uomo che noi
conosciamo come Mosè fosse stato un ex funzionario di Akhenaton, anche se
ciò dà adito a qualche obiezione. Una di queste, per esempio, riguarda i
tempi; infatti una delle probabili datazioni dell'uscita delle popolazioni
semitiche dall'Egitto è intorno al 1250 a.C., durante il regno del faraone
Ramsete II. Sono passati cento anni dalla restaurazione del culto di Ammon e
Mosè non potrebbe essere stato un protagonista in prima persona
dell'esperienza del sistema di Akhenaton. Anche se, in realtà, la datazione
dell'esodo è quanto di più incerto ci sia e non è possibile porre questa
obiezione come decisiva. Personalmente non credo affatto che determinare una
datazione certa per il cosiddetto esodo sia molto importante, ai fini del
nostro discorso; infatti non è così fondamentale che Mosè sia stato, oppure
no, un funzionario del faraone Akhenaton. A noi importa soprattutto
introdurre un'idea: quella che gli egiziani accomunati da un interesse
nostalgico per il sistema di Akhenaton e per la sua concezione monoteistica,
da un lato, e la componente emarginata della società egiziana che aveva
avuto origine nei trascorsi flussi immigratori, dall'altro lato, avessero
trovato un'intesa che li poneva in serio conflitto con le classi dominanti e
che li aiutava a maturare una identità di gruppo.
Ora, gli interpreti di questo più che verosimile processo possono
essere stati sia gli ex protagonisti del sistema di Akhenaton, in un'epoca
immediatamente successiva alla restaurazione (fra il 1350 e il 1300 a.C.),
sia i loro discendenti (fra il 1300 e il 1200 a.C.), ovverosia all'epoca in
cui siamo soliti ambientare l'esodo biblico.
3 - MOSE' EGIZIANO?
C'è un aspetto estremamente importante che Freud sottolinea con
argomentazioni puntuali e, direi, piuttosto ineccepibili. Si tratta del
fatto che Mosé sarebbe stato un egiziano e non, come si crede comunemente,
un ebreo. Una delle basi di questa opinione risiede nel nome stesso: "...E'
importante notare che il suo nome (il nome di questo capo), Mosè, è
egiziano. Esso è semplicemente la parola egiziana "mose" che significa
"fanciullo", ed è la contrazione di forme nominali più complesse, quali ad
esempio "Amon-mose", che significa "Amon un fanciullo", o "Ptah-mose", che
significa "Ptah un fanciullo", i quali nomi sono a loro volta abbreviazioni
della forma piena "Amon ha donato un fanciullo", o "Ptah ha donato un
fanciullo". L'abbreviazione "fanciullo" presto divenne una forma rapida più
conveniente dell'ingombrante nome completo, ed il nome Mose, "fanciullo",
non è infrequente sui monumenti egizi. Il padre di Mosé senza dubbio
prefisse al nome del figlio quello di un dio egizio, quale Amon o Ptah, e
questo nome divino si perdette gradualmente nell'uso corrente, finché il
fanciullo venne chiamato "Mose"" [Citazione da History of Egypt, di
J.H.Breasted, in Freud, Mosè e il monoteismo, Pepe Diaz, Milano, 1952].
"...nella lingua [egiziana] "Mosè" equivaleva a "bambino", "figlio",
"discendente", sia in senso letterale che metaforico..." [J.Lehmann, Mosè
l'egiziano, Garzanti, Milano, 1987].
E ancora: "...non ci resta perciò che il nome, il quale, malgrado la
spiegazione giudaica "tratto dalle acque", riallaccia Mosè ai nomi egiziani
Tutmosi o Ramesse (Rah-mose)" [F.Castel, Storia d'Israele e di Giuda, Ed.
Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1987].
C'è poi un'altra importante considerazione da fare. Il Mosè biblico ha
un abito del tutto leggendario, a sostegno dell'idea che la sua identità sia
il frutto di una operazione artificiale finalizzata a rappresentarlo come il
padre nazionale degli ebrei . Infatti il racconto della sua nascita,
coerentemente con le leggende semitiche, è la copia esatta del racconto che
riguarda la nascita del grande Sargon di Accad, che fu abbandonato nelle
acque e poi salvato per diventare, infine, un grande re. Evidentemente,
allorché fu redatta la storia del popolo che era sfuggito dall'Egitto, si
voleva che il suo condottiero possedesse i requisiti che lo rendevano
meritevole, a pieno titolo, di quella dignità. Il racconto non fu scritto da
storici, animati da uno spirito scientifico di cronaca, ma da apologeti, che
dovevano contribuire alla creazione di una coscienza nazional-religiosa.
Ora, esistono altri elementi di sostegno alla tesi del Mosé egiziano,
seguace della teologia di Akhenaton: uno è il nome che gli ebrei utilizzano
spesso per riferirsi al loro dio, al posto del termine tabù (indicato
comunemente dal tetragramma YHWH) che nessuno poteva pronunciare ad alta
voce. Si tratta della parola Adonai, che ha la stessa radice (Adon) del dio
solare di Amenofi IV (Aton). I glottologi sanno bene che le lettere t e d
sono del tutto intercambiabili nelle radici etimologiche, pertanto Adon e
Aton sono esattamente lo stesso nome. Si osservi quanto afferma ancora
Sigmund Freud: "Il credo ebraico, come è noto, recita: "Schema Jisroel
Adonai Elohenu Adonai Echod". Se la somiglianza del nome dell'egizio Aton
alla parola ebraica Adonai e al nome divino siriaco Adonis non è casuale, ma
proviene da una vetusta unità di linguaggio e significato, così si potrebbe
tradurre la formula ebraica: "Odi Israele il nostro Dio Aton (Adonai) è
l'unico Dio"" [Sigmund Freud, Mosè e il Monoteismo, Milano, 1952].
L'altro elemento è l'aspetto della famosa "arca dell'alleanza" , che,
nel racconto biblico (Es 25, 10-22), Dio aveva ordinato a Mosè di edificare
e che, in seguito, sarebbe stata conservata nel tempio di Salomone fino
all'invasione assira. Essa riproduce la "barca degli dei" dei templi egizi,
anch'essa coi cherubini ad ali spiegate.
Ma c'è un altro elemento, senza dubbio quello di maggior peso: Mosè è
comunemente considerato il padre del monoteismo, ma dobbiamo ammettere che
la sua idea ha un precedente molto vicino nello spazio e nel tempo, e molto
analogo, nella teologia di Akhenaton, pertanto ci rimane difficile credere
che la sintesi monoteistica di Mosè non abbia alcun debito nei confronti
della rivoluzione religiosa del faraone Amenofi IV.
Riassumendo:
1 - Mosè predica in Egitto, come Akhenaton 50 o 100 anni prima, una
teologia monoteistica;
2 - Mosè ha un nome egiziano;
3 - Mosè ha, nel racconto biblico, una nascita assolutamente
leggendaria;
4 - Un nome del dio ebraico (Adonai), ha la stessa radice del dio
solare (Aton) di Amenofi IV;
5 - L'arca dell'alleanza degli ebrei è quasi identica alla "barca
degli dei" dei templi egizi.
4 - UN POPOLO ETEROGENEO.
Ci troviamo davanti ad importanti constatazioni: le genti che uscirono
dall'Egitto, attraverso quel processo che la Bibbia rappresenta nel libro
dell'Esodo, erano costituite, per una componente, da una parte della società
egiziana, quella dissidente, erede della riforma politico-religiosa di
Akhenaton, fedele alla teologia monoteistica, e, per l'altra componente, da
un insieme variegato di tribù, in prevalenza semitiche, che avevano
trascorso in Egitto molti decenni, trovando interessi da condividere. Si
trattava comunque di genti che parlavano lingue o dialetti diversi, con
tradizioni religiose diverse, legate agli dei tribali. Non si trattava
affatto di un popolo omogeneo, che potesse riconoscersi sotto il nome di
ebrei. Ed è per questo che il racconto biblico ci testimonia la grande
difficoltà di tenere unito questo insieme di persone ma, soprattutto, la
difficoltà di Mosè a mantenere una egemonia su queste genti. Si ricordi a
questo proposito il ritorno di Mosè dal monte Sinai, col popolo che, in sua
assenza, aveva iniziato ad adorare il vitello d'oro, restaurando, chi lo sa,
qualche culto tribale.
E' molto verosimile che la componente egizia di questo insieme di
genti, ovverosia gli eredi del sacerdozio di Aton, fossero quelli che la
tradizione ebraica chiama "Leviti" e che Mosè ne fosse il capo.
Volendo mantenere un atteggiamento storicamente onesto, noi dobbiamo
dissociarci dall'immagine biblica e riconoscere che, all'epoca dell'esodo,
non esistevano affatto, o ancora, gli ebrei, intesi come un popolo che
potesse essere considerata tale a tutti gli effetti, ovverosia con una sua
omogeneità etnica, linguistica, culturale e religiosa, e con una storia
comune oltre al fatto di avere condiviso uno stato di emarginazione e di
subordinazione in Egitto. Quello che la Bibbia ci rappresenta come il
momento in cui gli ebrei realizzarono il loro riscatto dalla schiavitù
egiziana è, in realtà, il primo momento in cui gli ebrei iniziano ad
inventarsi come popolo. Mosè fu il loro punto di riferimento, come Maometto,
1800 anni più tardi, fu il punto di riferimento per la nascita di una
nazione araba. Allora possiamo quasi affermare che la Bibbia non fu un
prodotto degli ebrei ma, al contrario, furono gli ebrei un prodotto della
Bibbia, nel senso che i principi teologici della Bibbia furono concepiti col
fine primario di offrire una base adatta a creare e consolidare l'identità
etnico-religiosa di quell'insieme di tribù che si era voluto far diventare
popolo.
5 - DAVID, L'UNTO DI YHWH.
I fuoriusciti dall'Egitto, governati da una casta egiziana e da un
capo che aveva riciclato il monoteismo di Akhenaton, ebbero vita difficile e
peregrinarono in cerca di una casa finché non giunsero nei pressi di quella
striscia di territorio che sta tra il fiume Giordano e il mar mediterraneo.
In quel contesto di deserti infuocati (Sinai, Negev, penisola arabica...),
dove in estate il sole, picchiando sulle rocce e sulle sabbie nude, produce
comunemente temperature di 50 e persino 60 gradi che arrostiscono ogni
creatura vivente, le colline della palestina, che sfiorano i mille metri
d'altitudine, arrestano il vento che viene dal mare e facilitano le piogge,
creano un ambiente assolutamente idilliaco. Clima temperato, boschi
verdeggianti, erba adatta al pascolo, stambecchi che scorrazzano, sorgenti
di acqua fresca e terra fertile.
Chi non avrebbe pensato che quella sorta di oasi incredibile era un
giardino preparato apposta dal creatore come dote per un popolo che godeva
di una sua particolare simpatia?
Ma, ahimé, altre genti occupavano questo suolo. Tribù che non erano
molto intenzionate ad accettare l'intromissione di questa nuova banda di
nomadi.
Certamente i fuoriusciti dall'Egitto ebbero da affrontare prove molto
dure, come del resto è chiaramente testimoniato dal racconto biblico
relativo al tutto il lungo periodo che separa Mosè da David (due o tre
secoli). Un periodo di lotte interne e di conflitti esterni in cui queste
genti, oltre a combattere con gli indigeni che trovavano sul loro cammino,
dovevano anche combattere contro quella crisi di identità che non poteva non
affliggere coloro che tentavano di comportarsi come popolo, pur essendo un
miscuglio molto bastardo. Ed è per questo che la società di Israele ha
sempre conservato nella sua struttura una molteplicità che, nei fatti, si è
espressa nella suddivisione in dodici tribù.
Ovviamente, le vicende e i disagi che questo insieme di genti ha
dovuto vivere nei due o tre secoli successivi all'uscita dall'Egitto, ha
influito profondamente sulla maturazione della loro concezione religiosa.
Infatti, sebbene l'eredità teologica della concezione monoteistica di
Akhenaton fosse il concetto di un creatore unico per tutto l'universo e per
tutti gli esseri, fu impossibile evitare che queste tribù, impegnate in una
dura lotta per la sopravvivenza, non sviluppassero un'immagine del dio come
"proprio" dio, un dio che amava intervenire a favore del suo popolo
prediletto, un dio che determinava gli esiti delle battaglie e veniva
definito per questo "dio degli eserciti".
Questa, filosoficamente parlando, è senz'altro una involuzione del
monoteismo pacifista di Akhenaton, che sembrava accarezzare l'idea
incredibilmente moderna di una religione universale, legata all'immagine di
dio non come signore tribale, ma come signore della natura, depositario di
quella potenza che elargisce e governa la vita di tutte le creature. Ma è
anche vero che Akhenaton, in giovane età, come principe ereditario, si è
trovato senza fatica sul trono di una antica e splendida civiltà. Per lui è
stato facile immaginare una religione universale e pacifica, e non possiamo
dimenticare che la sua politica idealista, in fin dei conti, è stata
abbastanza rovinosa per l'Egitto.
Il dio unico di Israele non è più quel sole equanime che splende per
tutti, i cui raggi scendono sulla terra come mani amorose che accarezzano
tutte le creature. Il dio di Israele diventa molto partigiano, intende
sterminare coloro che non vogliono essere suoi fedeli, incarica un popolo
prediletto di farsi esecutore impietoso di questo piano finalizzato al
risanamento spirituale dell'umanità. Questa è ovviamente la proiezione
narcisistica eseguita da un gruppo umano che, a differenza di Akhenaton, non
ha ereditato lo splendore di un antico e ricco paese, bensì non ha ancora
una terra, non ha una storia comune, non ha altro che povertà, nemici ostili
e crisi di identità collettiva.
Che altro può fare, un gruppo umano come questo, se non inventarsi un
orgoglio nazional-religioso, anzi, una missione spirituale, un patto
privilegiato col creatore, colmare il proprio immaginario collettivo con
l'idea di essere, fra tutti i popoli, il favorito del creatore e di
legittimare il proprio interesse promuovendolo al rango di una causa di
giustizia universale? Non solo è una idea necessaria, ma si tratta di una
idea geniale, assolutamente vincente e, sebbene il presunto favore di dio
sia solo una invenzione narcisistica, chi, in Israele, avrebbe osato
metterlo in dubbio? Ed è così che l'idea di un monoteismo di stato, presa in
prestito da Akhenaton, che non si era rivelata utile per il vecchio Egitto,
si rivelò utile per il giovane Israele; adattando però una parte della sua
filosofia alle necessità di questo popolo nascente e assumendo tinte di
spiccato nazionalismo.
6 - IL REGNO DI DIO.
Uno dei momenti più gloriosi della sua storia Israele l'ha vissuto
quando, a seguito di brillanti vittorie contro i popoli indigeni della
palestina, si è trasformato in un regno, prima sotto Shaul, capo della tribù
di Beniamino, e subito dopo sotto David, un umile pastorello della tribù di
Giuda, che era andato in sposa alla figlia di Shaul.
Shaul era riuscito a riunire sotto lo stesso regno solo tre tribù e
non aveva stabilito una capitale, mentre David, un individuo affascinante,
abile, spregiudicato, anzi, decisamente cinico, seppe riunire tutte e dodici
le tribù sotto un grande regno. E poiché si trattava del regno di un popolo
che aveva ormai maturato la convinzione di essere depositario di una
missione affidatagli direttamente da dio, o meglio, che era cresciuto e
aveva vinto proprio perché aveva trovato la sua identità e la sua forza
inventandosi tale convinzione, quel regno non poteva essere altro che il
"regno di dio". E il suo compito era quello di splendere davanti a tutti i
popoli della terra come luce di verità.
David fu l'unto del signore, messia (mashiah in ebraico, che si
traduce christos in greco e cristo in italiano). Le sue umili origini devono
in qualche modo essere promosse e la Bibbia ci racconta del profeta Samuele
che va a Betlemme (città natale di Davide) e, ispirato da dio, lo riconosce
come colui che regnerà su Israele e lo cosparge con l'olio dell'unzione.
David esprime un disegno ambizioso: dare una capitale grandiosa al
regno di dio e erigervi un tempio monumentale, che potesse competere con la
memoria degli splendori egiziani, sumeri, babilonesi... E' sua la scelta
felice di Gerusalemme come capitale, sopra uno dei colli più fortunati della
palestina, fra i boschi, a ottocento metri di altitidine, dove i nemici non
possono sorprendere con attacchi imprevedibili, dove zampillano sorgenti
rigogliose e dove il clima estivo è quello, delizioso, di una località di
vacanze di mezza montagna.
Ma David dovette anche affrontare un problema che non era per niente
risolto e che dimostra, in modo inequivocabile, quanto eterogeneo fosse
questo popolo e come fosse difficile tenerlo unito. David dovette superare
gravi difficoltà interne, fra cui una ribellione voluta da uno dei suoi
figli, Assalonne, che egli non esitò a far uccidere.
E così David non riuscì a edificare il tempio, sarà uno dei suoi
figli, Salomone, che egli ebbe da Betsabea, a realizzare questa ambizione,
ma i costi di tale impresa furono talmente elevati, in termini umani e
fiscali, da far precipitare il problema della coesione interna, che non
poteva non essere sempre minaccioso in un popolo che si era inventato tale,
appiccicando insieme tribù diverse e dalle origini più varie.
E così il sedicente "regno di dio" si sfasciò troppo presto sotto il
proprio peso e si trasformò in due regni: quello di Israele, nelle regioni
della attuale Samaria (palestina centro settentrionale), e quello di Giuda,
nelle regioni a ovest del Mar morto (palestina centro meridionale). Il regno
di dio durò meno di un secolo, né mai più trovò il suo antico splendore.
Furono uomini come quello che Pilato fece crocifiggere alla vigilia di una
festività pasquale che, mille anni dopo David, tentarono di replicarne
l'impresa, ma fallirono e finirono puntualmente i loro giorni con le mani e
coi piedi inchiodati.
7 - UN LIBRO SACRO CHE RACCONTI LA NOSTRA GLORIOSA STORIA.
L'ideale monoteista, in associazione con la convinzione di essere
toccati da una scelta di dio, e quindi di essere gli affidatari di una
missione spirituale e i destinatari di una terra promessa, è l'ideologia che
ha consentito agli ebrei di inventarsi come popolo, di svilupparsi, di
risolvere i suoi problemi di sopravvivenza, di mantenere una difficile
coesione, per quanto traballante essa sia stata. Ed è per questo che gli
ebrei, ad un certo punto della loro storia, fra le tante altre cose geniali
che hanno fatto, hanno deciso di darsi come punto di riferimento delle
scritture.
Naturalmente una buona parte dei contenuti che tali scritture
avrebbero dovuto esprimere era già preesistente alla loro stesura in forma
grafica e, come è normale nei popoli antichi, la loro conservazione e
trasmissione era stata affidata ad una tradizione orale di cui i saggi erano
i depositari. Ma una scrittura da leggere in pubblico, le cui frasi fossero
da imparare a memoria e da ripetere innumerevoli volte, intorno alla quale
la gente si sarebbe potuta incontrare, avrebbe offerto al popolo qualcosa di
assai più concreto e tangibile che non la sapienza custodita da una
ristretta elite di iniziati.
Quand'è che questa necessità si presentò con una urgenza
irrinunciabile? La risposta è senz'altro all'epoca della formazione del
regno, quando David tolse alla tribù di Beniamino l'egemonia per darla alla
tribù di Giuda e scelse, o impose, Gerusalemme come capitale. E' questo il
momento in cui gli scribi si sono rimboccati le maniche e hanno redatto i
primi libri. Come minimo è questo il momento in cui diventano bianco su nero
le storie di Abramo e di Isacco e, forse, molte altre cose.
Ovviamente gli scribi del "regno di dio" appena nato, sono spinti da
una serie di esigenze molto precise. La coesione fra le genti del regno è
precaria, la scrittura deve eliminare questo vizio congenito di Israele,
essa non solo deve raccontar loro che essi sono figli dello stesso dio, ma
figli di uno stesso padre umano, e Abramo, figura di cui non sapremo mai se
è prodotta dalla fantasia o dalla storia, vince questo ruolo. A lui dio
chiede delle prove molto dure, infine lo sceglie per dare origine al popolo
a cui sarà affidata la missione.
Nel redigere queste scritture gli scribi compiono una sintesi
colossale e fanno man bassa di tutto il materiale che possono raccogliere
per rendere la loro opera nobile, grandiosa, venerabile, prestigiosa,
autorevole. Oggi la Bibbia ci si presenta come parola di dio perché i suoi
redattori furono spinti dalla necessità ideologica di farla apparire tale al
giovane popolo di Israele.
Una parte abbondante della mitologia del vicino oriente confluisce in
questa sintesi, non solo quella accadica, ovverosia quella dei popoli che
condividevano con Israele la radice semitica, ma anche quella sumera, una
etnia completamente diversa, con cui gli accadi avevano avuto a che fare a
lungo. E così il quadro della genesi si apre con una scena assolutamente
sumera, ovverosia con il racconto della trasgressione primordiale compiuta
da Adamo e Eva nel giardino dell'Eden. E poi continua con il racconto del
diluvio, che è letteralmente sottratto all'epopea sumera di Gilgamesh, poi
ripresa dai babilonesi, in cui Noè si chiamava Ziusudra, Uta-napishtim,
Atrahasis. Ed anche il racconto della torre di Babele ha come punto di
riferimento gli ziggurat mesopotamici, mentre la confusione delle lingue sta
senz'altro a rappresentare il disagio dovuto all'imbastardimento della
società sumerica in seguito alla consistente infiltrazione accadica.
Un presupposto di grande importanza è la creazione fittizia di una
continuità, o meglio, di una linearità. Una delle principali mistificazioni
prodotte da questa esigenza è, per esempio, il fatto che gli ebrei avessero
questa radice etnica unitaria e fossero un popolo prima ancora delle vicende
dell'esodo. Sarebbero stati un popolo già in Egitto, un popolo schiavo e
prigioniero da raffigurare con una buona dose di vittimismo ma, a parte il
fatto che gli immigrati e gli emarginati della società egiziana non avranno
certamente avuto vita facile né molto privilegi da condividere, si tratta di
una rappresentazione del tutto falsata. Infatti non si trattava di un popolo
omogeneo; né il loro stato poteva definirsi schiavitù secondo quella
accezione del termine a cui siamo stati abituati dall'immagine latina,
ovverosia dello schiavo inteso come oggetto subumano, che è proprietà
privata del suo padrone, su cui quest'ultimo ha pieno diritto di vita e di
morte. Abbiamo una subordinazione del tutto diversa, che non rispecchia
questo cliché romano.
Al fine di ottenere l'effetto della continuità storica, le scritture
abbondano di lunghi elenchi di patriarchi i quali, posti in fila in lunghe
paginate, offrono una efficace suggestione didattica. E molti imparano a
memoria, e ripetono all'infinito questi elenchi, finché essi realizzano un
condizionamento psicologico che infonde nell'immaginario collettivo l'idea
di appartenere ad un popolo che ha radici antiche, che ha una messaggio da
trasmettere, che ha una eredità da salvaguardare.
Dopo avere costruito la figura chiave del padre della razza, Abramo, è
necessario costruire quella del padre della nazione, Mosè. Ed è così che
l'egiziano diventa ebreo, gli si innesta artificialmente la mitologia
accadica del "salvato dalle acque", lo si fa salire sul monte Sinai per
incontrare personalmente il dio dell'universo e prendere da lui le tavole
della legge. E, sebbene una componente considerevole della teologia di Mosè
abbia una derivazione dal monoteismo di Akhenaton, questa radice è
completamente recisa e abbandonata nell'oblio. Esattamente come mille anni
dopo, quando dal monoteismo ebraico, attraverso la sintesi sincretistica di
San Paolo, si stacca la fede cristiana, che recide il suo cordone ombelicale
e rinnega l'ebraismo, pur avendo derivato da quello una mole fondamentale
del suo bagaglio teologico e scritturale.
Il leit motiv di questa base dell'identità etnico religiosa di Israele
deve essere, senza mezzi termini, la continua regia di dio dietro le quinte
del teatro storico. E così è, attraverso i suoi frequenti interventi. Quando
manda le piaghe in Egitto, quando apre le acque del mar rosso, quando fa
scendere la manna, quando ferma il sole in pieno cielo durante una
battaglia, o guida la mano del pastorello David a colpire il gigante Golia.
I protagonisti umani che svolgono un ruolo fondamentale in questa
storia sono quasi sempre ammantati da una cornice miracolosa, le loro
nascite sono annunciate, le loro madri partoriscono pur essendo sterili, le
loro gesta non sono completamente umane. Il prodigio è la chiave di
autentificazione della scrittura, il sigillo di riconoscimento
dell'autorità.
Le figure di Abramo e di Mosé si completano con quella di David, il
padre politico, il messia, il costruttore del "regno di dio".
Anche in seguito, dopo lo scisma dei due regni che avvenne alla morte
di Salomone, e quando il paese iniziò a subire un plurisecolare destino di
dominazioni straniere, sotto gli assiri, i babilonesi, i persiani, i greci e
i romani, le scritture sono caratterizzate da un fine primario:
salvaguardare l'eredità nazionale, continuare a dimostrare che Israele è
sempre, malgrado tutto, il popolo di dio, che il suo futuro gli riserva un
riscatto. Il profetismo messianico, ovverosia l'attesa di un liberatore che
ripeta la figura di David e ricostruisca il "regno di dio", diventa un
motivo ricorrente, finché si trasforma in autentica ossessione e porterà,
sotto la dominazione romana, ad una crisi fatale. L'imperatore Tito,
interprete della esasperazione romana nei confronti di questo popolo, visto
come affetto da una patologia teocratica maniacale, farà strage e rovina
degli ebrei e della loro capitale, ed essi ricadranno improvvisamente nella
condizione in cui si trovavano in Egitto, come emarginati vittime di una
diaspora penosa.
E' il momento in cui l'eredità monoteistica di Akhenaton, che aveva
subito una prima grande trasformazione con la sintesi biblica, subisce una
seconda grande trasformazione con la sintesi cristiana. Occorreranno ancora
cinquecento anni perché maturino in medio oriente le condizioni per la terza
sintesi: quella coranica.
Adesso non vorrei essere accusato di ambizioni profetiche, perché è
solo la ragione, e non la visione mistica, che mi suggerisce quando sarà la
prossima tappa del monoteismo: quando il sistema commerciale globalistico
avrà mostrato in modo drammatico la stridente contraddizione che esiste fra
la promessa del benessere tecnologico e la crescita inarrestabile dei
problemi planetari (demografici, economici, politici ed ecologici),
facendoci vivere tragedie di dimensioni bibliche che oggi non abbiamo
nemmeno il coraggio di immaginare. Allora nascerà una nuova sintesi
religiosa e potrebbe addirittura darsi che l'essere supremo sia di nuovo
rappresentato come un disco solare, circondato da una corona di raggi che
scendono sulla terra e terminano con mani affettuose che carezzano le
creature. E' una visione non lontanissima da ciò che accadrà realmente, nel
millennio che sta nascendo.
Io, personalmente, sono già pronto. Ma il momento è ancora prematuro.
Firenze, 15/11/1999
David Donnini