Castiglio
2008-09-03 12:00:03 UTC
Un articolo di D'Orrico tratto dal Corriere di oggi. Cosa ne pensate?
L'italiano ai tempi degli sms
Vent'anni fa la minaccia erano il burocratese odiato da Italo Calvino e
l'anglitaliano che storpiava tutto. Ora l'allarme è più sottile:
scrittori che inseguono il parlato e un dialogo fatto di consonanti, in
formato telefonino
Se permettete inizio questa inchiesta sulla lingua italiana 2008 (come
sta e dove va) dal mio nuovo telefonino che, quando suona la sveglia, mi
propone due alternative: "Stop" o "Posponi". La prima volta sono rimasto
confuso o, come direbbe il commissario Montalbano (mia massima autorità
linguistica), imparpagliato. "Posponi"? Poi ho capito che si trattava
della seconda persona singolare del presente indicativo di posporre
(mettere dopo, differire, posticipare): io pospongo, tu posponi, egli
pospone... In redazione, facendomi le raccomandazioni di rito prima di
cominciare l'inchiesta, mi avevano detto: «Stai attento ai telefonini,
agli sms, è lì che sta nascendo l'italiano del futuro, è lì che
scoprirai qualcosa di nuovo». E, invece, il "posponi" del mio telefonino
mi ha riportato al passato, a vent'anni fa esatti quando, facendo
un'altra inchiesta sulla lingua italiana, avevo scoperto che l'italiano
correva due pericoli. Il primo era il burocratese, la lingua con cui lo
Stato (o chi ne fa le veci) si rivolge ai cittadini. Il burocratese per
me era simboleggiato da un cartello che avevo letto alla stazione di
Firenze: "Questo sportello rimane impresenziato dalle 13 alle 15". Ma
non era più semplice dire che lo sportello rimaneva chiuso? No, il
burocratese si spezza ma non si spiega. Aggiungo, anche se non c'entra
nulla (apparentemente), che lo sportello in questione era risultato
impresenziato anche a mezzogiorno e mezza. Il secondo pericolo per
l'italiano del 1988 era racchiuso nelle due parole dell'insegna di un
ottico milanese ("Occhial House") e sintetizzava maccheronicamente il
difficile rapporto con l'inglese. Vuoi vedere che, tra "posponi" e
"Occhial House" (vent'anni dopo, l'insegna lampeggia ancora su viale
Abruzzi a Milano), i problemi dell'italiano sono rimasti gli stessi di
allora?
E IL BUROCRATESE NON MUORE
Ho sottoposto (e non posposto) i miei timori a due tra le massime
autorità della linguistica italiana: i professori Gianluigi Beccaria e
Luca Serianni. Beccaria, «il professore di italiano che tutti avremmo
voluto avere», come dice Aldo Grasso, ha appena ripubblicato da Garzanti
il suo indispensabile Per difesa e per amore (La lingua italiana oggi).
Per quanto riguarda il burocratese il professore scuote la testa. La
battaglia contro l'antiligua, così chiamava il burocratese Italo
Calvino, è difficile da vincere. Il burocratese avanza. Conoscete
qualcosa di meno burocratico della cioccolata? Bene, anche lei è stata
colonizzata dall'antilingua. Il professore racconta di Gobino, il
negozio di cioccolatini («il migliore che ci sia») vicino a casa sua a
Torino: «Sembra di entrare in gioielleria, il negozio è di gran gusto, e
mentre sei lì che aspetti e ammiri, e ti pare di essere in un altro
mondo, vedi che, appiccicato al vetro del bancone, c'è scritto: "per chi
vuol conoscere l'ingredientistica". Ingredientistica?». Il professore è
uscito di corsa dal negozio ma l'incubo non è finito. Perché, girato
l'angolo, si è imbattuto in un distributore di sacchetti per "deiezioni
canine", poi in una "Scarpoteca", quindi in una "Frullateria" e infine
in un bar che reclamizzava: "Si effettuano panini".
E la sindrome Occhial House come procede? Qui il peggioramento è netto.
Ormai tutto si pronuncia all'inglese. Il catalogo, raccolto negli anni
dal professore, è esilarante (e un po' preoccupante). Troviamo steig per
il francese stage, Thomas Men, per il tedesco Thomas Mann (e Walter
Bengiamin, per Walter Benjamin, Bitoven per Beethoven), absaid per
abside (di una chiesa), sain dai per sine die. Tutto ascoltato in
tramissioni radiotelevisive e, purtroppo, anche in aule universitarie.
Dice Beccaria: «Ogni manager o persona in carriera usa anglismi a gogò
perché altrimenti potrebbe essere tacciato di scarsa professionalità. E
anglismi snobistici e inutili si usano spesso coi sottoposti, fanno più
professional». Il professor Luca Serianni sta lavorando con la società
Dante Alighieri a un progetto ambizioso: un museo della lingua italiana.
C'è un'ipotesi di massima che prevederebbe addirittura tre sedi (per le
tre capitali che ha avuto l'Italia: Torino, Firenze e Roma). Il museo
sarebbe la naturale conseguenza della grande mostra Dove il sì suona.
Gli italiani e la loro lingua allestita a Firenze nel 2003.
Nell'occasione fu pubblicato un librone-catalogo, La lingua nella storia
d'Italia, a cura proprio di Serianni. La tesi della mostra e del volume?
Questa: «L'italiano del Duemila è tuttora più simile a quello del
Boccaccio (e cioè al dialetto toscano trecentesco) che non a un pidgin
italo-inglese». E se l'italiano non è diventato un pidgin (cioè l'ibrido
che nasce dalla contaminazione tra lingua internazionale dominante,
lingua nazionale e dialetti locali), il merito della salvezza «è stato
in qualche misura di Nicolò Carosio e di Mike Bongiorno, di Orietta
Berti e di Liala». Calcio, tv, canzonette e romanzi rosa hanno reso
possibile il passaggio del testimone linguistico nazionale dalle mani di
Dante (e di Boccaccio e di Manzoni) alle nostre. Così è andata, senza
falsi moralismi, assicura Serianni. Ma ora così non va più. Il
professore lancia un allarme, oltre a quelli sul burocratese e
sull'anglitaliano del collega Beccaria, che riguarda l'impoverimento del
lessico: «Aggettivi come "faceto" o "inane" rischiano di essere ignoti a
una parte consistentemente alta di giovani».
MEGLIO I GIORNALISTI CHE GLI SCRITTORI
E stavolta non ci salveranno più Carosio, Bongiorno, la Berti e Liala.
«No, questa volta il problema è diverso. Allora, parlo degli anni
Cinquanta e Sessanta, si trattava di conquistare un italiano di base, un
italiano minimamente condiviso di fronte all'uso diffusissimo e spesso
esclusivo del dialetto. Ora quell'italiano di base ce l'abbiamo».
Capisco, professore, adesso il problema è che quell’italiano è un po'
anemico, carente lessicalmente. Ma in questi casi il rimedio classico
non è quello di leggersi un buon romanzo nazionale? «Gli scrittori non
sono più modelli linguistici. Ha presente l'incipit di Come Dio comanda,
il romanzo di Niccolò Ammaniti: "Svegliati, svegliati, cazzo". Gli
scrittori non inseguono più un modello letterario, cercano di aderire al
parlato». E quindi non abbiamo più modelli? «Secondo me i modelli ci
sono ancora e io li consiglio spesso agli stranieri che vogliono
migliorare il loro italiano». E cosa consiglia? «Di leggere i buoni
giornalisti. Un fondo di Alberto Ronchey è perfetto in questo senso».
Grazie professore, finalmente una buona notizia, finalmente una cosa in
cui i giornalisti non sono colpevoli ma addirittura additati a modello.
Recupero immediatamente in archivio un editoriale del professor Ronchey.
È del 13 giugno 2008. «Prevedeva Leonardo Sciascia: "Andremo sempre più
a fondo senza mai toccare il fondo".
Ma forse, ora, si è toccato il fondo. Si può risalire? Per troppo tempo
la politica italiana s'è dedicata a schermaglie di schieramento fra
partiti e a contese ideologiche, trascurando i termini del generale
dissesto. Tra i dati primari, oltre il debito pubblico e l'arretratezza
delle infrastrutture, sarebbero da catalogare numerose questioni eluse
finora, troppe. E chi se ne lamentava non era l'opposizione, ma la
famosa voce del deserto. Voce che allora ha provato e oggi ancora prova
stanchezza». Effettivamente una gran bella prosa, quella del professor
Ronchey. Ma proprio leggendo questo suo editoriale mi torna in mente una
vecchia convinzione. Non è l'italiano, come lingua, che sta male,
nonostante gli sportelli impresenziati, i panini effettuati, i sain dai
e gli Occhial House. A stare male è l'italiano come popolo. Ma questo lo
sapete benissimo. Io avrei finito, dal punto di vista linguistico. I
professori Beccaria e Serianni mi hanno tranquillizzato. La salute
dell'italiano è accettabile. Ma in redazione sono invece apocalittici.
Vogliono il grido di dolore, l'SOS, il risvolto inedito, il titolo da
sparare. Io ci ho provato con la storia degli sms, delle mail, eccetera,
che avrebbero rivoluzionato la lingua italiana. Ma i professori
interpellati sono stati abbastanza pacifici sull'argomento. Hanno
parlato di tachigrafia (bn = buonanotte, 10x = thanks, xiodo = periodo),
ma non è una cosa grave. Insomma, nessuno scenario apocalittico. Quindi
nessun titolo da scandalo per l'inchiesta.
Nessun codice rosso è scattato per salvare la lingua italiana. Avevo
quasi rinunciato e stavo per arrendermi quando nella posta ho trovato
l'edizione 2009 della storica Smemoranda. Non è mai stata solo
un'agenda, questa premiata invenzione della ditta Gino e Michele & Co. È
stata, sin dall'inizio, un piccolo rapporto Censis sui riti, i miti, i
tic, i totem e i tabù delle nuovissime generazioni. Mi è bastato
sfogliarla per capire che la mia inchiesta era lì. Era nelle vignette
che ironizzano sul computerese, sul telefoninese, sull'smsese. Sul
lessico elettronico. Prendete la vignetta di Francesco Natali che ha per
protagonisti un figlio e una mamma. Figlio: «Mamma esco... Se mi cerchi
mandami un sms, oppure loggati con Skype... il mio nick è parakul68,
vado a postare un clip su Youtube... See you later!». Riflessione
sconsolata della mamma: «Una volta si diceva solo: Mamma che palle!».
Altra vignetta, questa volta di Migneco e Amio. Due ragazzi. Lui dice a
lei: «Ieri ti ho cercata su Google». Lei: «E invece ero a casa di
Gianna». Vignetta di Maramotti. Padre dà la buonanotte alla figlioletta
che ha appena messo a letto (lei ha il computer poggiato sulle
ginocchia): «Buonanotte... Se hai bisogno di un bicchier d'acqua mi
trovi su www.cameradeigenitori.it!». Ma l’allarme generale lo lancia la
Gialappa's Band con una splendida (a suo modo geniale) lettera aperta al
popolo degli sms. Eccola: «Amc di Smmrnd, ma sprtt amch d Smmrnd, the
"msg 4 u" è: basta, non se ne può più! Ci avete sfinito con i vostri
messaggini (sms, mms, msn...) fatti solo di consonanti: cmq per dire
"comunque", tt per dire "tutto" e xk per dire "perché". Anzi: ci avt
prpr frntmt i cgln!!! Che fine farà la nostra lingua? Non solo quella
aulica di Dante e Manzoni, ma persino quella più prosaica e vernacolare
di Totti e Di Pietro? Dobbiamo rassegnarci a tentare di decifrare
comunicazioni più simili a codici fiscali che a frasi di senso
compiuto?! Ebbene no: riprendiamoci la lingua, e quindi le vocali».
DALLA PARTE DELLE VOCALI
La difesa e l'elogio delle vocali è il cuore politico (ma sì!) della
lettera aperta della Gialappa's: «Perché le vocali (forse non ci avete
mai fatto caso) sono calde, prorompenti, esprimono gli stati d'animo:
sono le gioie e i dolori. Mentre le consonanti sono fredde, meccaniche,
e capaci solo di esprimere pensiero, astrazioni». Con foga da comizio la
Gialappa's continua: «Le vocali sono tipiche dell'uomo (non è un caso
che la parola uomo contenga 3 vocali e una sola consonante); mentre le
consonanti sono tipiche del robot (3 consonanti e 2 vocali, e non sarà
un caso nemmeno questo)». L'elogio delle vocali diventa l'elogio dei
sentimenti: «Provate un po' a pensare che suoni emettete,
istintivamente, quando provate dolore ("ahia!", "ohiohi!", etc.), e
quando vi divertite ("ahahahah!" e "wow!", che si scrive così ma si
pronuncia "uau!"); quando ce l'avete con qualcuno ("aòh!" se siete
romani, "uhei!" se siete milanesi) e quando siete piacevolmente sorpresi
("oeuh!", oppure "ahàa!"); per non parlare, poi, dei suoni che fate
quando trombate (se all'acme del piacere emettete consonanti siete dei
veri pervertiti; oppure avete bisogno di un buon logopedista...)». Negli
anni Cinquanta e Sessanta l'italiano lo salvarono Carosio, Bongiorno, la
Berti e Liala. Ora l'italiano (almeno dagli sms) lo sta salvando la
Gialappa's Band.
Antonio D'Orrico
03 settembre 2008
L'italiano ai tempi degli sms
Vent'anni fa la minaccia erano il burocratese odiato da Italo Calvino e
l'anglitaliano che storpiava tutto. Ora l'allarme è più sottile:
scrittori che inseguono il parlato e un dialogo fatto di consonanti, in
formato telefonino
Se permettete inizio questa inchiesta sulla lingua italiana 2008 (come
sta e dove va) dal mio nuovo telefonino che, quando suona la sveglia, mi
propone due alternative: "Stop" o "Posponi". La prima volta sono rimasto
confuso o, come direbbe il commissario Montalbano (mia massima autorità
linguistica), imparpagliato. "Posponi"? Poi ho capito che si trattava
della seconda persona singolare del presente indicativo di posporre
(mettere dopo, differire, posticipare): io pospongo, tu posponi, egli
pospone... In redazione, facendomi le raccomandazioni di rito prima di
cominciare l'inchiesta, mi avevano detto: «Stai attento ai telefonini,
agli sms, è lì che sta nascendo l'italiano del futuro, è lì che
scoprirai qualcosa di nuovo». E, invece, il "posponi" del mio telefonino
mi ha riportato al passato, a vent'anni fa esatti quando, facendo
un'altra inchiesta sulla lingua italiana, avevo scoperto che l'italiano
correva due pericoli. Il primo era il burocratese, la lingua con cui lo
Stato (o chi ne fa le veci) si rivolge ai cittadini. Il burocratese per
me era simboleggiato da un cartello che avevo letto alla stazione di
Firenze: "Questo sportello rimane impresenziato dalle 13 alle 15". Ma
non era più semplice dire che lo sportello rimaneva chiuso? No, il
burocratese si spezza ma non si spiega. Aggiungo, anche se non c'entra
nulla (apparentemente), che lo sportello in questione era risultato
impresenziato anche a mezzogiorno e mezza. Il secondo pericolo per
l'italiano del 1988 era racchiuso nelle due parole dell'insegna di un
ottico milanese ("Occhial House") e sintetizzava maccheronicamente il
difficile rapporto con l'inglese. Vuoi vedere che, tra "posponi" e
"Occhial House" (vent'anni dopo, l'insegna lampeggia ancora su viale
Abruzzi a Milano), i problemi dell'italiano sono rimasti gli stessi di
allora?
E IL BUROCRATESE NON MUORE
Ho sottoposto (e non posposto) i miei timori a due tra le massime
autorità della linguistica italiana: i professori Gianluigi Beccaria e
Luca Serianni. Beccaria, «il professore di italiano che tutti avremmo
voluto avere», come dice Aldo Grasso, ha appena ripubblicato da Garzanti
il suo indispensabile Per difesa e per amore (La lingua italiana oggi).
Per quanto riguarda il burocratese il professore scuote la testa. La
battaglia contro l'antiligua, così chiamava il burocratese Italo
Calvino, è difficile da vincere. Il burocratese avanza. Conoscete
qualcosa di meno burocratico della cioccolata? Bene, anche lei è stata
colonizzata dall'antilingua. Il professore racconta di Gobino, il
negozio di cioccolatini («il migliore che ci sia») vicino a casa sua a
Torino: «Sembra di entrare in gioielleria, il negozio è di gran gusto, e
mentre sei lì che aspetti e ammiri, e ti pare di essere in un altro
mondo, vedi che, appiccicato al vetro del bancone, c'è scritto: "per chi
vuol conoscere l'ingredientistica". Ingredientistica?». Il professore è
uscito di corsa dal negozio ma l'incubo non è finito. Perché, girato
l'angolo, si è imbattuto in un distributore di sacchetti per "deiezioni
canine", poi in una "Scarpoteca", quindi in una "Frullateria" e infine
in un bar che reclamizzava: "Si effettuano panini".
E la sindrome Occhial House come procede? Qui il peggioramento è netto.
Ormai tutto si pronuncia all'inglese. Il catalogo, raccolto negli anni
dal professore, è esilarante (e un po' preoccupante). Troviamo steig per
il francese stage, Thomas Men, per il tedesco Thomas Mann (e Walter
Bengiamin, per Walter Benjamin, Bitoven per Beethoven), absaid per
abside (di una chiesa), sain dai per sine die. Tutto ascoltato in
tramissioni radiotelevisive e, purtroppo, anche in aule universitarie.
Dice Beccaria: «Ogni manager o persona in carriera usa anglismi a gogò
perché altrimenti potrebbe essere tacciato di scarsa professionalità. E
anglismi snobistici e inutili si usano spesso coi sottoposti, fanno più
professional». Il professor Luca Serianni sta lavorando con la società
Dante Alighieri a un progetto ambizioso: un museo della lingua italiana.
C'è un'ipotesi di massima che prevederebbe addirittura tre sedi (per le
tre capitali che ha avuto l'Italia: Torino, Firenze e Roma). Il museo
sarebbe la naturale conseguenza della grande mostra Dove il sì suona.
Gli italiani e la loro lingua allestita a Firenze nel 2003.
Nell'occasione fu pubblicato un librone-catalogo, La lingua nella storia
d'Italia, a cura proprio di Serianni. La tesi della mostra e del volume?
Questa: «L'italiano del Duemila è tuttora più simile a quello del
Boccaccio (e cioè al dialetto toscano trecentesco) che non a un pidgin
italo-inglese». E se l'italiano non è diventato un pidgin (cioè l'ibrido
che nasce dalla contaminazione tra lingua internazionale dominante,
lingua nazionale e dialetti locali), il merito della salvezza «è stato
in qualche misura di Nicolò Carosio e di Mike Bongiorno, di Orietta
Berti e di Liala». Calcio, tv, canzonette e romanzi rosa hanno reso
possibile il passaggio del testimone linguistico nazionale dalle mani di
Dante (e di Boccaccio e di Manzoni) alle nostre. Così è andata, senza
falsi moralismi, assicura Serianni. Ma ora così non va più. Il
professore lancia un allarme, oltre a quelli sul burocratese e
sull'anglitaliano del collega Beccaria, che riguarda l'impoverimento del
lessico: «Aggettivi come "faceto" o "inane" rischiano di essere ignoti a
una parte consistentemente alta di giovani».
MEGLIO I GIORNALISTI CHE GLI SCRITTORI
E stavolta non ci salveranno più Carosio, Bongiorno, la Berti e Liala.
«No, questa volta il problema è diverso. Allora, parlo degli anni
Cinquanta e Sessanta, si trattava di conquistare un italiano di base, un
italiano minimamente condiviso di fronte all'uso diffusissimo e spesso
esclusivo del dialetto. Ora quell'italiano di base ce l'abbiamo».
Capisco, professore, adesso il problema è che quell’italiano è un po'
anemico, carente lessicalmente. Ma in questi casi il rimedio classico
non è quello di leggersi un buon romanzo nazionale? «Gli scrittori non
sono più modelli linguistici. Ha presente l'incipit di Come Dio comanda,
il romanzo di Niccolò Ammaniti: "Svegliati, svegliati, cazzo". Gli
scrittori non inseguono più un modello letterario, cercano di aderire al
parlato». E quindi non abbiamo più modelli? «Secondo me i modelli ci
sono ancora e io li consiglio spesso agli stranieri che vogliono
migliorare il loro italiano». E cosa consiglia? «Di leggere i buoni
giornalisti. Un fondo di Alberto Ronchey è perfetto in questo senso».
Grazie professore, finalmente una buona notizia, finalmente una cosa in
cui i giornalisti non sono colpevoli ma addirittura additati a modello.
Recupero immediatamente in archivio un editoriale del professor Ronchey.
È del 13 giugno 2008. «Prevedeva Leonardo Sciascia: "Andremo sempre più
a fondo senza mai toccare il fondo".
Ma forse, ora, si è toccato il fondo. Si può risalire? Per troppo tempo
la politica italiana s'è dedicata a schermaglie di schieramento fra
partiti e a contese ideologiche, trascurando i termini del generale
dissesto. Tra i dati primari, oltre il debito pubblico e l'arretratezza
delle infrastrutture, sarebbero da catalogare numerose questioni eluse
finora, troppe. E chi se ne lamentava non era l'opposizione, ma la
famosa voce del deserto. Voce che allora ha provato e oggi ancora prova
stanchezza». Effettivamente una gran bella prosa, quella del professor
Ronchey. Ma proprio leggendo questo suo editoriale mi torna in mente una
vecchia convinzione. Non è l'italiano, come lingua, che sta male,
nonostante gli sportelli impresenziati, i panini effettuati, i sain dai
e gli Occhial House. A stare male è l'italiano come popolo. Ma questo lo
sapete benissimo. Io avrei finito, dal punto di vista linguistico. I
professori Beccaria e Serianni mi hanno tranquillizzato. La salute
dell'italiano è accettabile. Ma in redazione sono invece apocalittici.
Vogliono il grido di dolore, l'SOS, il risvolto inedito, il titolo da
sparare. Io ci ho provato con la storia degli sms, delle mail, eccetera,
che avrebbero rivoluzionato la lingua italiana. Ma i professori
interpellati sono stati abbastanza pacifici sull'argomento. Hanno
parlato di tachigrafia (bn = buonanotte, 10x = thanks, xiodo = periodo),
ma non è una cosa grave. Insomma, nessuno scenario apocalittico. Quindi
nessun titolo da scandalo per l'inchiesta.
Nessun codice rosso è scattato per salvare la lingua italiana. Avevo
quasi rinunciato e stavo per arrendermi quando nella posta ho trovato
l'edizione 2009 della storica Smemoranda. Non è mai stata solo
un'agenda, questa premiata invenzione della ditta Gino e Michele & Co. È
stata, sin dall'inizio, un piccolo rapporto Censis sui riti, i miti, i
tic, i totem e i tabù delle nuovissime generazioni. Mi è bastato
sfogliarla per capire che la mia inchiesta era lì. Era nelle vignette
che ironizzano sul computerese, sul telefoninese, sull'smsese. Sul
lessico elettronico. Prendete la vignetta di Francesco Natali che ha per
protagonisti un figlio e una mamma. Figlio: «Mamma esco... Se mi cerchi
mandami un sms, oppure loggati con Skype... il mio nick è parakul68,
vado a postare un clip su Youtube... See you later!». Riflessione
sconsolata della mamma: «Una volta si diceva solo: Mamma che palle!».
Altra vignetta, questa volta di Migneco e Amio. Due ragazzi. Lui dice a
lei: «Ieri ti ho cercata su Google». Lei: «E invece ero a casa di
Gianna». Vignetta di Maramotti. Padre dà la buonanotte alla figlioletta
che ha appena messo a letto (lei ha il computer poggiato sulle
ginocchia): «Buonanotte... Se hai bisogno di un bicchier d'acqua mi
trovi su www.cameradeigenitori.it!». Ma l’allarme generale lo lancia la
Gialappa's Band con una splendida (a suo modo geniale) lettera aperta al
popolo degli sms. Eccola: «Amc di Smmrnd, ma sprtt amch d Smmrnd, the
"msg 4 u" è: basta, non se ne può più! Ci avete sfinito con i vostri
messaggini (sms, mms, msn...) fatti solo di consonanti: cmq per dire
"comunque", tt per dire "tutto" e xk per dire "perché". Anzi: ci avt
prpr frntmt i cgln!!! Che fine farà la nostra lingua? Non solo quella
aulica di Dante e Manzoni, ma persino quella più prosaica e vernacolare
di Totti e Di Pietro? Dobbiamo rassegnarci a tentare di decifrare
comunicazioni più simili a codici fiscali che a frasi di senso
compiuto?! Ebbene no: riprendiamoci la lingua, e quindi le vocali».
DALLA PARTE DELLE VOCALI
La difesa e l'elogio delle vocali è il cuore politico (ma sì!) della
lettera aperta della Gialappa's: «Perché le vocali (forse non ci avete
mai fatto caso) sono calde, prorompenti, esprimono gli stati d'animo:
sono le gioie e i dolori. Mentre le consonanti sono fredde, meccaniche,
e capaci solo di esprimere pensiero, astrazioni». Con foga da comizio la
Gialappa's continua: «Le vocali sono tipiche dell'uomo (non è un caso
che la parola uomo contenga 3 vocali e una sola consonante); mentre le
consonanti sono tipiche del robot (3 consonanti e 2 vocali, e non sarà
un caso nemmeno questo)». L'elogio delle vocali diventa l'elogio dei
sentimenti: «Provate un po' a pensare che suoni emettete,
istintivamente, quando provate dolore ("ahia!", "ohiohi!", etc.), e
quando vi divertite ("ahahahah!" e "wow!", che si scrive così ma si
pronuncia "uau!"); quando ce l'avete con qualcuno ("aòh!" se siete
romani, "uhei!" se siete milanesi) e quando siete piacevolmente sorpresi
("oeuh!", oppure "ahàa!"); per non parlare, poi, dei suoni che fate
quando trombate (se all'acme del piacere emettete consonanti siete dei
veri pervertiti; oppure avete bisogno di un buon logopedista...)». Negli
anni Cinquanta e Sessanta l'italiano lo salvarono Carosio, Bongiorno, la
Berti e Liala. Ora l'italiano (almeno dagli sms) lo sta salvando la
Gialappa's Band.
Antonio D'Orrico
03 settembre 2008