Post by VRInfatti. Ma "Non e' razzismo".. e' inutile che cerchi di motivare 'sta
stronzata con queste evidenze...
questione di semantica.
Quello che è utile per un picolo gruppo lo è anche per uno più grande purchè
omogeneo.Nessuna epoca storica, nessuna società è mai esistita in cui sia
stato perseguito, coltivato e difeso quel disprezzo della realtà che
contrassegna i tempi modemi. Parte significante, precondizione di tale modo
d'essere e d'agire è la mistificazione semantica - voluta spesso,
stoltamente fatta propria sempre - la distorsione del significato vero,
etimologico delle parole. E' del resto eloquente il fatto che di "neolingua"
si inizi a parlare solo dal secondo dopoguerra, per indicare uno degli assi
portanti del Mondo Nuovo.
Ad onta di ogni vantata precisione scientifica, che dovrebbe consentire
all'uomo un'analisi dei fatti ed un'espressione di giudizi attraverso l'uso
di vocaboli inequivoci, assistiamo quotidianamente a una doppiezza semantica
che investe lo psichismo di ogni uomo e che da ogni uomo viene rielaborata
ed amplificata sia nella costruzione delle proprie modalità di conoscenza
che nelle relazioni interpersonali. Il risultato di questo sfasamento
paradigmatico nei processi di comunicazione - occhiutamente esercitato dai
mass-media secondo una logica preordinata - conduce l'essere umano non solo
al disordine psicologico, alla perdita di saldi punti di riferimento
concettuale e delle possibilità di accendere un retto discorso comune, ma
financo allo stravolgimento del processo cognitivo, alla perdita della
ragione critica e, letteralmente, della propria mente.
Al proposito, è sintomatico soffermarsi sull'abuso incessante, quasi
ossessivo, di parole quali "fascismo" e "democrazia", da un cinquantennio
caricate di ogni possibile valenza rispettivamente negativa e positiva, al
punto che qualunque esercizio critico nei loro riguardi viene precluso a
colui che non abbia preventivamente ottenuto l'agibilità discorsiva
attraverso l'accettazione di quei diktat semantici socialmente fissati, al
di lá dei quali sarebbe stoltezza, provocazione o follia spingersi. Si pensi
a "democrazia", termine che, se pur non abbandonato come infamante secondo
l'auspicio nietzscheano, andrebbe tuttavia espunto dal linguaggio anche solo
per qualche millennio, onde depurarlo dei motivi passionali e dell'estrema
ambiguità che ne caratterizzano l'odierna accezione. Si pensi agli indebiti
significati assunti dall'aggettivo "democratico", inteso come passaporto
liberatorio al posto di "gentile", "educato", "aperto di mente", e persino
"onesto", "leale", "libero", "umano" mentre, lungi dall'identificare neppure
lontanamente positive connotazioni morali, appartiene invece soltanto ad una
precisa tecnica di governo, o meglio, di manipolazione delle coscienze e,
quindi, del consenso.
L'astrazione esasperata con la quale viene intesa, adoperata e nuovamente
intesa la fraseologia della neolingua non svela comunque una peculiarità
cognitiva maturata spontaneamente nell'estenuato uomo moderno, bensì
riflette la forma mentis di chi ha avuto la forza di radicarla
nell'immaginario linguistico del corpo sociale - dell'oligarchia che da
decenni vive su quel Sistema che estende il suo abbraccio mortale a tutti i
popoli della terra.
Tale astrazione/distorsione, divenuta il succedaneo del mondo reale, non può
però della realtà occupare in modo compiuto, e mantenere, il posto. Non lo
può soprattutto perché l'artifizio dà luogo a scompensi, a scontri, a
lacerazioni, a ripensamenti, in ispecie quando abbia avuto un tempo
sufficiente per palesare nel divenire quotidiano le sue ineluttabili
contraddizioni. Ogni "sembrare" - e questa è l'antica lezione del realismo
indoeuropeo dispiegato nella sapientia romana e machiavellica - non regge,
nel tempo, l'incalzare della storia se non riesce a sostanziarsi in un
"essere". Nello scontro mondano con gli interessi reali, crollano allora,
brutalmente, tutte le costruzioni intellettuali o sentimentali prive di
radici autentiche; crollano, purtroppo però solo dopo avere snaturato il
retaggio dei padri, il tessuto antropologico di quel consorzio umano che ha
preteso di giocare, attraverso vuote parole, con le leggi, dure e cogenti,
del mondo reale. L'accorgersi, il dire, il gridare che "il re è nudo",
diviene a questo punto esercizio retorico, giacché compromesso, a volte per
sempre, è ormai tale retaggio, compromesso è tale tessuto. Retaggio e
tessuto che potranno essere forse ricostruiti nel corso dei decenni
attraverso una attenta, martellante, implacabile opera di informazione e
verifica (troppo abbiamo sofferto per permetterci più una qualche debolezza,
troppa devastazione e rovina abbiamo visto crescerci intorno), attraverso la
selezione dei corpi e l'educazione delle anime - e comunque mai più come
prima.
Riprendendo il discorso sulla valenza strutturale della neolingua nei
confronti del Mondo Nuovo, oltre al significato volutamente distorto
attribuito ai termini-concetto "democrazia" e "fascismo", un terzo vocabolo
detiene, nell'iconografia linguistica del Sistema, la palma della
"tabuizzazione", avendo inglobato e riassunto in sé la totalità delle
valenze negative percepibili dalla mente umana. Se risponde al vero che ogni
epoca possiede un proprio codice semantico, una delle voci distintive - nei
nostri anni la più distintiva - che caratterizzano l'attuale è la parola
"razzismo". Più ancora di "democrazia" e certo ancora più di "fascismo",
entità linguistiche tutto sommato "concrete" e "verificabili" nel
riferimento ad esperienze storiche e a pratiche politiche, l'ideologia
moderna pone a guardia del Sistema, proprio tale terza parola. Incarnando
nell'accezione ordinaria i concetti di "crudeltà", "superbia", "arroganza" e
"disumanità", il "razzismo", vero e proprio Schimpfwort, insulto dalle
risonanze unicamente negative, si disincarna da alcunché di reale, assumendo
le caratteristiche di un a priori esistenziale e morale, di discriminante di
qualsivoglia discorso filosofico, sociologico, storico, politico o religioso
che sia.
La stessa riprovazione provocata nell'opinione generale dalle teorie e dai
comportamenti razzisti contribuisce a rendere più oscuro il problema.
Addirittura, il razzismo cade in Francia come in Italia sotto la scure di
una legge penale che non stabilisce neppure una differenza di qualche
rilievo tra la divulgazione di una teoria razziale (spacciata come
"incitamento all'odio razziale") e i comportamenti, più o meno coerenti con
l'assunto teorico, che eventualmente ne conseguano sul piano concreto. Il
razzismo, in queste condizioni, riguardarebbe più la sistematica penale che
non la storia delle idee. E in ogni caso, secondo i suoi avversari più
"sensibili", quand'anche la malvagità razzista non fosse riconducibile ad
una fattispecie criminale suscitatrice di sdegno profondo (lo "sporco"
razzista, il "rigurgito" razzista), sarebbe assimilabile a una "lebbra", a
una "malattia dello spirito", a un "disturbo della personalità", se non a
pura e semplice "follia" o "imbecillità". Ma "delitto" e "delirio" sono
categorie, secondo la giurisprudenza demo-behaviorista, inconciliabili: se i
razzisti sono pazzi o imbecilli (dobbiamo tale ultimo aggettivo a Giulio
Giorello, docente universitario di filosofia, adepto del "pensiero debole"),
non sono di competenza dei tribunali, ma dei manicomi - si abbia allora il
coraggio di proporre, ed imporre, una Rieducazione a base di psicofarmaci
alla sovietica o di cure analitiche all'americana.
All'opposto, poiché l'azione antirazzista - esistendo dei malfattori
perversi e ignoranti - pretende di realizzare i suoi compiti muovendo
contemporaneamente polizia, giustizia, educazione scolastica e mass-media,
essere antirazzisti significa dichiararsi onesti, normali e colti
(l'intelligenza è scontata). L'antirazzista, ben scrive il sociologo ebreo
Taguieff, "si qualifica quindi sia per le sue virtù che per le sue
competenze e capacità; tende a presentarsi come un problematico di suprema
onestà, un educatore enciclopedico dell'umanità smarrita, un cacciatore di
ignoranze e di malvagità. L'utopia antirazzista consiste nel supporre
possibile la realizzazione di un mondo di buoni e di colti. Basterebbe far
capire ai mistificati, i "razzisti", che sono tratti in inganno da malvagi e
profittatori perché la mistificazione cessasse all'istante di funzionare. A
questa unica e sufficiente condizione, il razzismo scomparirebbe. Non ci
vuol molto a capire che, allora, esso ha ancora una lunga vita davanti a
sé".
L'antirazzista è un Rieducatore, un po' insegnante, un po' poliziotto, un
po' maestro di cerimonie, un po' "benpensante" - un benpensante scioccato
dal comportamento del razzista, il quale finisce col diventare un
minoritario oppresso, un marginale inventivo, un martire della contestazione
degli ultimi tabù della società postmoderna. Per il fatto di essere dotato
del potere di attribuire giudizi morali, l'antirazzista che individui un
razzista e lo definisca tale, si pone fuori e sopra di lui in modo radicale,
postulatorio, in modo, tutto sommato, "razzista". Il razzista viene respinto
a priori dal mondo dei valori "umani", escluso dal dialogo, assimilato a un
delinquente, demonizzato ed oppresso, con tipico capovolgimento retorico,
nella stessa maniera con cui il razzista è accusato opprimere le sue
"vittime". In sostanza, il razzista assume pubbliche stimmate di "razza
inferiore", se non "preumana" o "antiumana".
Per autodefinizione, scrive Taguieff, l'antirazzista è invece una persona
nobile, un pacifista, ma un pacifista particolare, un pacifondaio che
dichiara come già Woodrow Wilson e il pensiero giudaico-disceso - guerra
alla guerra affinché sia l'Ultima Guerra, prima dell'apertura del Regno: "Il
pacifismo antirazzista disvela in tal modo il suo sogno normativo di un
universo umano unificato, omogeneizzato, o di un'umanità assolutamente
riconciliata con se stessa. Ma occorre un'operazione chirurgica preventiva:
amputare il corpo dell'Umanità delle membra sospette di provocare o
alimentare la cancrena in conflitto. Mondare, ripulire, risanare attraverso
la distruzione dei germi di contrapposizione: l'ideale pacifista rivela il
suo motore tanatologico nascosto, la sua fondamentale diffidenza nei
confronti del mondo della vita, popolato di impure contraddizioni,
costituito da inquietanti contrapposizioni. Così l'antirazzismo sprofonda
nell'incoerenza di ingaggiare una guerra totale contro il nemico [... ]
proprio mentre legittima la propria azione con una condanna assoluta di
qualunque guerra. Il pacifismo integrale appare di conseguenza lo strumento
di autolegittimazione più efficace di un'azione bellicosa, in quanto
delegittima assolutamente il proprio nemico".
E' l'ebreo Laurent Fabius, il padre della Repressione francese, già
Presidente socialista del Consiglio con François Mitterrand, ad affermare,
in occasione di una cena antifascista, che: "Va ad onore di una generazione,
largamente presente in questa sede, l'aver debellato i flagelli del razzismo
e dell'antisemitismo. Deve andare ad onore della nuova generazione, nei
tempi di crisi, che sono anche tempi di odio e di demagogia, il non lasciare
che questi flagelli si sviluppino di nuovo". Ecco quindi i rimedi: diuturne
lezioni di storia alternate ad un'educazione appropriata, realizzazione di
una federazione universale di Stati, New World Order, transizione dall'età
militare a quella del commercio, instaurazione di una società "senza classi"
(leggi proletarizzazione dei ceti medi) destinata ad inaugurare l'era della
fraternità universale.
Certamente condividiamo anche noi tale impostazione metodologica, anche noi
riconosciamo l'importanza centrale della difesa dei significati conferiti al
termine "razzismo" dal Sistema o meglio, per quanto ci riguarda, del loro
disvelamento e della loro distruzione. Ogni aspetto della speculazione
intellettuale, dell'azione politica, dell'esegesi storica, della possibilità
di incidere nel mondo reale è legato al mantenimento o alla rovina di quei
significati. Infatti, solo dopo una loro caduta, solo dopo la dimostrazione
della miseria morale dei loro ideatori e sostenitori, solo dopo la
demolizione delle olo-menzogne erette a loro puntello in questi decenni -
solo allora, diverrà possibile l'introduzione di un nuovo paradigma
culturale, più consono alle leggi della vita, compiutamente etico in quanto
veridico e vero. Dell'urgenza tragica di un'azione così concepita,
testimonia il fatto che mai come in altri momenti storici è in gioco
l'esistenza del nostro Sistema di Valori, del Sistema di Valori europeo. E
questo non solo nella sua strutturazione ideologica, estetica o
sentimentale, ma proprio nella sua esistenza concreta, biologica. In palio
c'è la continuità genetica del retaggio dei padri, che è nostro dovere
trasmettere ai figli, e per loro, alle generazioni a venire, che pure mai
vedremo.
"Ciò che abbiamo nel sangue dai nostri padri, idee senza parole" - sentenzia
Oswald Spengler - "è l'unica cosa che garantisce la solidità dell'avvenire".
Custodire nel fluire del tempo le disposizioni ereditarie del corpo e
dell'anima, la stirpe e la virtù ereditata, incama il presupposto per non
smarrirci nel mondo, per indagare chi fummo, sapere chi siamo, affermare chi
saremo. Contro la decadenza della storia affidiamo la protezione più salda e
la conferma più sicura della nostra continuità vitale a germi originari
trasmessici dai nostri antenati, che già essi un tempo custodirono e che noi
custodiamo oggi nel sangue. L'emergenza del momento richiede una lucida
adesione ai princìpi essenziali, esclude tatticismi e cedimenti di sorta,
impone di serrare i ranghi intorno all'ultima certezza che abbiamo: fino a
quando i popoli del Vecchio Continente, segmenti temporali e ricetto
biologico dell'ethos indoeuropeo, potranno vantare la sostanziale
compattezza delle loro stirpi, sarà sempre possibile che essi rinascano per
riannodare le fila di un destino attualmente perduto.
In questa breve porzione del Tempo, in questo limitato settore dello spazio
mondiale, riallacciandoci agli Dei del Sangue e del Suolo noi ripetiamo le
gesta dei nostri antenati, attuiamo l'idea dell'ordine, affermiamo il
sentimento del bello e del buono. Affrontando il discorso sulla razza - sul
diverso spirito che sottende ogni diverso raggruppamento umano - ribadiamo
quanto esso sia ineludibile e pregiudiziale a ogni altro, cartina di
tornasole per ogni serio impegno speculativo, per ogni coerente volontà
operativa.
Dopo che il discorso sul razzismo ha assunto la centralità di cui sopra
discorrevamo, richiamandoci non solo alla più attenta indagine scientifica,
ma ad applicazioni politiche e sociali che, con i vari fascismi, hanno avuto
grande incidenza sulla vita delle nazioni europee nella prima metà del
secolo XX, non parrà fuori luogo qualche considerazione sull'etimologia del
vocabolo "razza", naturale radice del sostantivo "razzismo". L'ipotesi più
accettabile è che essa sia di ascendenza latina derivando da ratio, che ha
il significato di "modo, qualità, natura" e che in tal senso viene
utilizzato da Varrone, Cesare e Cicerone. Da ratio si avrebbe quindi
"razza" - dall'accusativo rationem deriverebbe "ragione" - termine
utilizzato pure da Giovanni Boccaccio e Niccolò Machiavelli per intendere
"specie, sorta, natura".
In tal modo la parola perde però il proprio antico valore, assumendo
l'identico significato - e, in progresso di tempo, sostituendo - il termine
di origine germanica "schiatta" (Stamm, Geschlecht), già adoperato col
valore di "stirpe" (il latino genius, genio, i greci génos ed éthnos). La
parola "razza" si irradia dall'Italia nelle lingue contermini: alla fine del
Quattrocento e ai primi del secolo successivo entra nella lingua francese e
diviene race. Passa contemporaneamente nello spagnolo, raza, nel portoghese,
raça. Con la mediazione del francese perviene più tardi all'inglese, race, e
al tedesco, Rasse, così diventando, in sostanza, termine di valore europeo e
mondiale.
Il termine "razzismo", nell'edizione 1970 del vocabolario Zingarelli, viene
definito con una certa oggettività quale "teoria che esalta le qualità di
una razza e afferma la necessità di conservarla pura da ogni commissione con
altre razze, respingendo queste o tenendole in uno stato di inferiorità ".
Contenuta in nuce già nel pangermanesimo ottocentesco, tale teoria - con
tutti i concetti correlati in termini di antropologia fisica, eugenetica e
antropometria - vede la sua consacrazione politica nel decennio 1930-40,
divenendo una delle colonne portanti della visione del mondo del fascismo
italiano e, ancor più, del nazionalsocialismo (non è qui il caso di
accennare al pratico, quotidiano, volgare razzismo dei vari "popoli scelti",
quali l'ebraico e l'inglese).
Se negli anni Trenta la carica "negativa" del termine la possiamo vedere -
se la vogliamo vedere - nella parte di definizione da noi riportata in
corsivo, è invece nel dopoguerra che il vocabolo assurge a indiscusso a
priori del Male. In tale distorta accezione esso è stato e viene tuttora
terroristicamente usato dal bicefalo schieramento uscito vincitore dal
conflitto mondiale. Ciò al fine preordinato di:
1) celare le innumeri atrocità e gli abusi giuridici compiuti contro gli
avversari fascisti sia prima che dopo la sconfitta, cose per la cui
analitica illustrazione non basterebbero decine di volumi;
2) colpevolizzare, paralizzare per l'etemità le nazioni uscite perdenti,
intese in primo luogo come entità statali, in secondo come portatrici -
nella loro memoria genetica e storica - di un Sistema di Valori irriducibile
all'ideologia vincitrice;
3) annientare, sotto una terminologia che dovrebbe suscitare istintivo
ribrezzo ed orrore, ogni anelito di ripensamento sulle "verità storiche"
imposte con gli assassinii sentenziati nei processi-farsa delle mille
Norimberga.
Termine mediatore, fra i padri putativi della distorta accezione di
"razzismo", è il vocabolo "genocidio", definito, sempre nel dizionario
Zingarelli, come "reato consistente in un complesso organico e preordinato
di attività commesse con l'intento di distruggere in tutto o in parte un
gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso". Tale termine - genocide in
lingua inglese - peculiare del nostro secolo, viene appositamente coniato
dall'ebreo Raphael Lemkin, un funzionario del governo polacco in esilio
rifugiato negli USA dal 1940, attraverso la composizione ibrida del greco
génos, "stirpe", con il suffisso latino -cidium di homi-cidium, "omicidio"
(compare per la prima volta nel volume Axis Rule In Occupied Europe, edito
nel novembre 1944).
Il primo oggetto "concreto" della sua applicazione è, ovviamente, il
"genocidio ebraico", imputato, nella pratica o nel tentativo, alla
Nazi-Germany: "A lungo il termine "genocidio" ha svolto il suo ruolo dando
un sostegno verbale aggiuntivo ed un aggiuntivo dinamismo alle misure che
hanno condotto al processo e all'uccisione dei capi del nemico vinto alla
fine del secondo conflitto mondiale", scrive James Martin. Come già abbiamo
detto, altri esempi di genocidio - per quanto non dell'identica dignità
epocale - sono costituiti dalle stragi compiute a cavallo del secolo e nel
corso del primo conflitto mondiale dai turchi a danno delle genti armene e
dalla millantata "scomparsa" degli zingari sempre ad opera dei "nazi". Si
qualificano invece - con buona dose di eufemismo misto al disprezzo di ogni
oggettività storiografica - come "azioni di difesa" e non come genocidi gli
stermini di decine e decine di etnie indiane nel secolo scorso ad opera dei
nordamericani civilizzatori, e tanto più quelli compiuti e rivendicati (a
buon diritto, Deo duce) dalle genti ebraiche nel Libro. L'annientamento
biologico di etei, amorrei, cananei, girgasei, evei, ferezei, gebusei,
moabiti, ammoniti, amaleciti, etc. - popoli ossessivamente "votati
all'anatema" dall'Altissimo attraverso le azioni del Popolo Consacrato - non
è, né mai sarà tacciabile di "genocidio", come non lo saranno di "razzismo"
la fobia per l'"impuro", l'orrore per la mescolanza, la pia osservanza
giudaica del dettato divino.
Con riferimento specifico allo "sterminio mediante gasazione" degli ebrei
europei, il termine-concetto di "genocidio" assume, negli anni Settanta,
valenze più ampie - religiose e teologiche - divenendo shoah (la biblica
"distruzione totale", "l'uragano distruttore") ed Olocausto, dando forma ad
una Teologia della Soluzione Finale, Endlósung-Theologie, o Teologia del
Sacrificio Totale, Ganzopfer-Theologie.
Se la continuità demografica di un gruppo trova una drastica soluzione di
continuo con lo sterminio fisico di larga parte di esso, altrettanto
pericoloso è lo sterminio culturale rappresentato dall'"etnocidio",
peculiare portato sia del missionarismo religioso (soprattutto cristiano, ma
anche islamico ed anticogiudaico) che della Modernità Occidentale. Ciò che
sparisce, in questo caso, non è tanto l'esistenza fisica di una popolazione
(ma nella memoria ci restano i quattromilacinquecento sassoni di Verden),
bensì la sua cultura, il suo distintivo stile di vita, il suo Sistema di
Valori. In una parola, i suoi Dei.
Pur radicato nella biologia, il termine éthnos ha infatti, rispetto a génos,
un'estensione più ampia e significati meno evidentemente collegati alla base
di parentela. Al proposito afferma Anthony Smith: "Anche se genocidio
significa distruggere "in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico,
razziale o religioso", esso paradossalmente è meno dannoso per la
sopravvivenza dell'etnia vuoi delle politiche governative di etnocidio
progettate per estirpare la cultura di un gruppo e la sua trasmissione
(vedi, per restare al moderno, gli lk dell'Uganda, gli eschimesi, i tuareg,
gli indios amazzonici o gli aborigeni della Nuova Guinea, per non parlare
degli indiani nordamericani), vuoi delle conseguenze impreviste della
conquista e/o dell'immigrazione (considera i nabatei e gli ebrei egiziani
assorbiti dagli arabi, i cazari giudaici scomparsi con la conquista cumana o
i tasmaniani estinti dopo l'arrivo degli inglesi, n.d.A.)".
Una etnia non è comunque solo un gruppo storico strutturato su memorie
comuni, una categoria di popolazione che condivide nome, discendenza, miti,
storia, cultura e territorio, ma è anche una comunità che possiede un senso
definito di identità biologica e di solidarietà generazionale. Proprio
perché le etnie sono così "centrate-sulla-famiglia" e'incorporano il senso
di essere un'unica grande famiglia, i membri si sentono uniti gli uni agli
altri. Dal momento che in ogni famiglia dell'etnia lo stile di vita e la
cultura etnica sono quelle dei suoi antenati, ogni generazione ha una forte
disposizione a conservare e riconoscere quella cultura e quello stile di
vita. Specularmente, è attraverso gli elementi condivisi di stile di vita,
che i membri si rendono consapevoli delle loro eredità familiari.
L'etnicità, conclude l'ebreo Joshua Fishman, "è sempre stata esperita come
un fenomeno di parentela, una continuità all'interno del Sé e di coloro che
condividono un legame intergenerazionale con antenati comuni. E' cruciale
che si riconosca l'etnicità come una realtà tangibile, viva, che di ogni
essere umano fa un anello di una catena eterna che va da una generazione
all'altra dagli antenati del passato a quelli del futuro. L'etnicità è
esperita come garanzia di eternità".
Prescindendo da un'eccessiva acribìa filologica, l'uso dei termini, nella
pratica intercambiabili, di etnia, nazione e razza è soltanto questione di
sfumature, di livelli di espressione diversi (sociologico, storico,
biologico) a significare un'unica realtà, uno stesso concetto.
Le ripercussioni sul termine "razzismo" le possiamo scorgere in un altro
vocabolario della neolingua, il Devoto-Oli, che ci istruisce con la seguente
definizione: "Ogni tendenza psicologica o politica, suscettibile di
assurgere a teoria o di essere legittimata dalla legge che,fondandosi sulla
presunta superiorità di una razza sulle altre o su di un'altra, favorisca o
determini discriminazioni sociali o addirittura genocidio . E' questa certo
una definizione ben più estensiva di quella del buon Zingarelli, e
un'estensione ancora maggiore le viene conferita dalle varie articolazioni
dell'antirazzismo contemporaneo. Anche se "non sia" suscettibile di
"assurgere", ogni comportamento o pensiero o tendenza conforme viene
comunque colpevolizzata come "razzista": dalla speculazione
scientifico-biologica, alle considerazioni di ordine filosofico o
sociologico. Basta, nella pratica, anche solo il fatto di riconoscere
l'esistenza delle razze, di accettare l'idea che tali raggruppamenti
possiedono caratteristiche specifiche, tra loro diverse e spesso
incomparabili, per essere tacciati di "razzismo" dagli adepti
dell'antirazzismo cosmopolita (o razzismo assimilazionista). Per Christian
Delacampagne, ad esempio, è razzista chi crede che esistano razze, "anche se
si rifiuta di esprimere dei giudizi di valore su di esse o di stabilire, fra
esse, una qualsiasi gerarchia".
La Dichiarazione sulla Razza adottata nel 1978 dall'Unesco definisce dal
canto suo il razzismo come "ogni teoria che menzioni la superiorità o
l'inferiorità intrinseca di gruppi razziali o etnici, che conferisca agli
uni il diritto di dominare o di eliminare gli altri, presunti inferiori, o
che fondi dei giudizi di valore su una differenza razziale [corsivo nostro,
n.d.A.]". Secondo l'antropologa Ruth Benedict: "Il razzismo è un dogma
secondo il quale un gruppo etnico è condannato dalla natura ad una
superiorità congenita". Più articolato e con qualche sentore di studi di
palcoantropologia è l'ebreo Arthur Kriegel: "Il razzismo è un sistema
ideologico scientifico che divide la specie umana contemporanea in
sottospecie nate da uno sviluppo separato, dotate di attitudini medie
ineguali e la cui riproduzione incrociata non può produrre che meticci
inferiori alla razza favorita".
Quand'anche si ammettesse soltanto il razzismo "minimo" dell'esistenza di
razze ineguali rigettando il razzismo "massimo" della legittimazione di un
dominio basato su una qualsivoglia gerarchia permessa da tale ineguaglianza
strutturale - quand'anche cioè esista un razzista "in buona fede" ed
"umano" - si porrebbe comunque il problema della strumentalizzazione di
quella teoria razzista, per cui ha buon gioco l'ebreo Albert Memmi a
definire il razzismo come "la valorizzazione, generalizzata e definitiva, di
differenze biologiche reali o immaginarie, a profitto dell'accusatore o a
detrimento della sua vittima, allo scopo di legittimare un'aggressione".
Di poco più equilibrata - e tuttavia insufficiente come la posizione
"umanitaria" che nega il reale inseguendo il sogno di un mondo "redento"
nell'uniformità - è la tesi dell'antirazzismo differenzialista (che pone
anch'esso le basi per più gravi conflitti). Uno dei suoi sostenitori, Alain
de Benoist, ben scrive in Le idee a posto: "Pretendere che le razze "non
esistano" col pretesto che fra di esse esistono una gran quantità di tipi
intermedi, significa non solo negare l'evidenza, ma anche voler raccordare
lo statuto di esistenza soltanto ad entità metafisiche assolute. Ci troviamo
infatti di fronte ad un tipico esempio di malattia della nostra epoca: la
semantofobia. Sopprimendo la parola, si crede di poter sopprimere la cosa.
Ma le parole non sono le cose, e le realtà restano".
Qualche pagina più avanti, cade anch'egli però - lezione perenne che
l'intelligenza, così come la cultura, è solo la premessa all'intesa del
mondo reale, e che le vere qualità dell'essere umano sono sostenute dalla
forza del carattere o, meglio ancora, dall'impalpabile equilibrio di
ellenica ascendenza che conferisce all'essere, in un complesso gioco di
azioni e retroazioni, la preminenza sul capire e sul sapere - vittima del
medesimo pregiudizio: "Esistono molte forme di razzismo, che vanno dalla
stupidità degli xenofobi al genocidio e all'etnocidio. Si può cercar di
sopprimere l'altro tentando di sterminarlo: fucilazioni di massa e campi di
concentramento. Oppure si può farlo scomparire sottraendogli la sua
specificità".
Il Nostro distingue quindi il razzismo "di esclusione" dal razzismo "di
dominio". La distinzione, egli dice, "sembra giustificata. Le opinioni
divergono, in compenso, quando si tratta di considerare in maniera normativa
la "pericolosità" di ciascuna delle due categorie. L'ambiguità deriva dal
fatto che l'esclusione può essere, a seconda dei casi, molto più benigna del
dominio, quando si limita a rifiutare il contatto senza pesare sul modo di
vita di coloro che vengono tenuti in disparte, oppure al contrario molto più
grave, dal momento che può condurre sino allo sterminio". Certo la storia,
con la sua complessità, le sue discrasie, le sue incongruenze, con la "lotta
per la vita", col quotidiano "venire a patti" con la realtà, non tollera
spesso distinzioni sottili e nonostante la bellezza di certe teorie il
restare loro fedeli nella pratica - il loro inveramento - può comportare
contraddizioni brucianti con i buoni propositi di partenza (ma abbiamo
bisogno di ripetercelo proprio noi, che abbiamo visto dal nostro nemico
lastricare di buone intenzioni le strade, che abbiamo provato sulla pelle,
nostra e di ogni uomo, il peso feroce dell'utopismo liberal-comunista, di
ogni utopismo giudaico-disceso?).
A questo punto è d'obbligo chiederci cosa sia quell'entità, talora
sfuggente, talora ardua da definirsi in concreto, chiamata "razza". Se ci
rivolgiamo ancora allo Zingarelli leggiamo che la razza, ripartizione
gerarchica di una sottospecie, è "l'insieme degli individui di una specie
animale o vegetale che si differenziano per uno o più caratteri costanti e
trasmissibili ai discendenti da altri gruppi della stessa specie", o
"suddivisione degli abitanti della terra secondo determinati caratteri
fisici, tipici di ogni gruppo". La razza nella sua accezione propriamente
biologica si definisce anche, secondo l'ebreo André Lwoff, come "un gruppo
di individui, apparentati per endogamia, che si distingue dagli altri gruppi
per la frequenza di taluni geni".
Tra le molte altre definizioni proponibili, interessante è quella
dell'antropologo francese Pierre-André Gloor, che introduce nella questione
il fattore importantissimo e centrale della diacronia, del tempo storico:
"La razza è una varietà della specie Homo sapiens, rappresentata da un
insieme di esseri umani che si distingue da altri insiemi per un complesso
di caratteri anatomici, fisiologici (e probabilmente anche psichici)
ereditari e riconosciuti su più generazioni, ad esclusione di ogni carattere
acquisito attraverso l'educazione, la tradizione o l'influenza
dell'ambiente". I quali caratteri sarebbero da comprendere più propriamente
nel termine "etnia", che tuttavia, per quanto più concreto, dinamico e
storico, trova sempre il suo fondamento nel patrimonio ereditario di una
specifica famiglia razziale.
Egualmente, in un volume pubblicato nel 1960 dall'Unesco contro il razzismo,
il genetista americano L.C. Dunn sottolinea che, per quanto sfuggenti, le
"razze" sono nondimeno reali: "lo ritengo, per quanto mi riguarda, che
abbiamo bisogno di questo termine "razza" per designare una categoria
biologica che, per difficile che sia da delimitare, costituisce nondimeno un
elemento reale della struttura delle popolazioni umane sulla faccia della
terra. Sembra preferibile definire questo termine, spiegame l'impegno e
liberarlo dalle accezioni nefaste ed erronee, piuttosto che scartarlo
puramente e semplicemente, rinunciando in tal modo a risolvere il problema".
Cosa, questa, che ha fatto invece Albert Jacquard, il quale, tutto compreso
nella sua scienza che non gli rivela differenze tra gli atomi delle basi
puriniche del DNA di un "negro" piuttosto che di un "bianco", non si
trattiene dal dichiarare: "Di fatto, grazie alla biologia, come genetista
credevo di aiutare la gente a vedere più chiaro dentro di sé, chiedendo:
"Cosa intende quando parla di razza?". E mostravo come fosse impossibile
definirla senza ricorrere ad arbitri o ambiguità [... ] In altre parole, il
concetto di razza non si fonda su nulla, e di conseguenza il razzismo deve
scomparire. Qualche anno fa avrei pensato che, con questa affermazione,
avevo compiuto il mio lavoro di scienziato e di cittadino. Eppure, anche se
non esistono razze, il razzismo continua ad esistere".
A sì cocente frustrazione il nostro Jacquard non sarebbe però andato
incontro se avesse gettato nel cestino dei rifiuti il riduzionismo che gli
ha fuorviato la mente, se avesse dato ascolto al suo collega Dobzhansky: "Le
razze e le classi non sono né dal punto di vista biologico né da quello
sociologico unità distinte o chiaramente definite: questo può essere
fastidioso per il ricercatore che preferirebbe poterle ordinare in ben
precisi reparti del suo casellario, ma non le rende dei fenomeni biologici
meno veri e reali". Ed inoltre, "non è preferibile spiegare alla gente la
natura delle differenze razziali, piuttosto sostenere che non ne esistono?
[... ] Sostenere che le razze non esistono perché non costituiscono degli
insiemi determinati in modo rigido è un ritorno al peggiore degli errori
tipologici. E' quasi altrettanto logico quanto sostenere che le città non
esistono, perché la campagna che le separa non è totalmente disabitata".
Egualmente l'antropologo Andor Toma denuncia come scorretto ogni tentativo,
a suo avviso puramente ideologico (ah, benedetto settorialismo culturale
degli scienziati, che non fa scorgere la callida operazione
storico-politico-economica sottesa ad ogni antirazzismo che non voglia
configurarsi come insufficienza mentale!), di "rendere invisibile la razza":
"Dopo gli abusi hitleriani questo scopo era umanamente comprensibile. Ma non
era scientifico. Oggigiomo, il fallimento della tassonomia sierologica è
riconosciuto da tutti gli specialisti. La contraddizione tra antropologia
morfologica ed ematologia è artificiosa. Le Alpi e gli Appennini sono
collegati da monti di bassa altitudine, ma le Alpi esistono, e gli Appennini
anche".
Significativamente, tra i più accaniti sostenitori dell'inesistenza
sostanziale delle razze - le differenze essendo unicamente formali ed
accidentali - e della tesi che il concetto di razza non corrisponde, nella
specie umana, ad alcuna realtà che si possa definire in maniera oggettiva,
sono (oltre a numerosi loro correligionari sociologi, antropologi e
pubblicisti) quattro ebrei "di rango" come Ashley Montagu, Steven Rose, Leon
Kamin e Richard Lewontin. Quanto poi all'incomprensione, spesso artificiosa,
fra certi genetisti delle popolazioni ed i sostenitori della
bio-antropologia, essa deriva dal fatto che le due discipline, pur indagando
aspetti complementari della medesima realtà, partono da presupposti teorici
e metodologici fortemente diversi.
A maggior ragione, più ampio e sostanziale ancora è il fossato che divide da
un lato i micro-scienziati del DNA e dall'altro i morfologi della storia
come Spengler, i linguisti come l'ebreo Benjamin Whorf e gli scienziati come
Dobzhansky e Darlington (dove è certo che quelli con i piedi saldi alla
terra sono tutti i secondi). I genetisti delle popolazioni tendono inoltre
sempre a sottovalutare i recenti progressi della biotipologia e,
soprattutto, quelli della paleoantropologia, così come vogliono ignorare sia
che nessuno degli scienziati sostenitori dell'esistenza delle razze le
definisce più come ideal-tipi, sia che spesso contro le loro tesi viene
innalzato un muro di biasimo, ostracismo che ha talora condotto (vedi il
caso di Carleton Coon) all'abbandono di ulteriori ricerche ed alla mancata
diffusione, e quindi al mancato approfondimento, dei risultati dei loro
studi.
Su un piano più pratico ci si può chiedere se la teoria della non-esistenza
delle razze, nella misura in cui la sua affermazione corrisponda ad un
antirazzismo militante, non sia anche il riflesso di una certa ingenuità:
l'antirazzista pensa davvero di far scomparire il razzismo facendo passare
per finte le razze? Le probabilità che un razzista cambi atteggiamento
venendo a sapere che "le razze non esistono" e che sarebbe stato fino ad
allora vittima di un miraggio, è certo debole. E' viceversa grande il
rischio, scrive Dobzhansky, che una negazione di questo genere da parte
degli scienziati abbia "l'unico effetto di ridurre il credito degli uomini
di scienza che la sostengono". La scienza è inoltre, per definizione - ce
l'ha insegnato proprio il santone filosofico ebreo Karl Popper - una
disciplina rivedibile e contingente, mai conclusa e sempre in fase di
creazione. Fondare, da questo punto di vista, un'argomentazione antirazzista
sulla scienza, significa lasciarla inevitabilmente in sospeso ed ammettere
che: o il razzismo è condannabile solo perché non è fondato
scientificamente, o che, "condannato" oggi dalla scienza, potrebbe non
esserlo più domani. In effetti, una volta che l'essere umano non si
definisce più in termini di storia, di libertà e di trascendenza, ma in
termini di scienza, la definizione di uomo svanisce, e con essa anche quella
dell'umanesimo.
In tutte le definizioni di "razza" su riportate notiamo comunque come
l'accento venga posto prevalentemente sui caratteri fisici, quasi che le
caratteristiche intellettuali, psichiche e spirituali in senso lato, si
debbano intendere svincolate dal dato differenziativo "esteriore",
biologico, essendo esse da considerarsi comuni a tutti gli individui della
specie, quasi fossero mere espressioni fenotipiche, puri accidenti
"culturali" o ambientali, senza impianto nel genotipo dell'individuo o nel
più ampio palinsesto genetico del gruppo razziale. Poiché però non è questo
il luogo, la sede adatta per discernere tale problema, rimandiamo alla
nostra monografia Origine delle razze umane Speciazione quantica e
paleontologia delle sottospecie umane, pubblicata sul numero 16 di questa
stessa rivista. L'origine della specie umana è in ogni caso ancor oggi ben
lungi dall'essere delucidata; a prescindere dalle diatribe sulla metafisica
dell'evoluzione e se di una evoluzione dei viventi si possa parlare e, in
caso affermativo, di che tipo di evoluzione debba trattarsi, sia la
"preferenza" monogenista degli antirazzisti sia la brutalità selezionista
dei neodarwinisti trovano cittadinanza ideale nel paradigma del monoteismo
universalistico giudaico-disceso.
Impostata in modo corretto, lungimirante, dai fascismi europei,
fraudolentemente ripresa nel dopoguerra, la questione della razza - il
"discorso razzista" - ha oggi assunto un aspetto inedito, storicamente mai
visto in tale estensione e virulenza. Se talora il concetto è servito a
giustificare il predominio di "razze" da se stesse presunte "superiori" nei
confronti di gruppi "inferiori", assumendo quindi una funzione oppressiva,
oggi di razzismo sono imputate pressoché unicamente le reazioni difensive -
atteggiamenti ecologicamente motivati oppure elaborazioni
ideologico-programmatiche - di uomini o sodalizi di "razza bianca", che
vedono frantumarsi i parametri civili ed i Valori delle nazioni europee
sotto la spinta inarrestabile di milioni di sradicati del Terzo-Quarto
Mondo.
Tralasciamo, per rispetto dell'intelligenza del lettore, di accennare a
puerili espressioni quali "razzismo anti-giovani" o "anti-operaio" o
"anti-femminile" o "anti-gay" e via dicendo, le quali, dilatando al ridicolo
l'utilizzo del termine-categoria "razzismo" (inteso come fobia di ogni
altrui collettivo,posizione teorica o pratica anti-chi-sia-diverso),
ricadono in quell'atteggiamento di furbesca irrealtà che ottunde ad arte la
mente dell'uomo moderno.
Il "razzismo", da intendersi, soprattutto oggi, come una etica della
sopravvivenza ispirata dalla coscienza razziale - ossia dall'istinto di
appartenenza ad una comunità biologicamente e spiritualmente circoscritta -
implica in ogni caso una delimitazione, la posizione di un confine,
l'accettazione di una separazione, il riconoscimento di una differenza, la
rivendicazione di una specificità. Al fondo di ogni razzismo si trova
teoreticamente, prima del rifiuto, la consapevolezza del diverso, il senso
innato della "distanza" fra i propri ed i membri delle altrui compagini. Il
rifiuto di tipo razzista non rientra fra le "patologie" dello spirito, ma è
una legittima, naturale reazione in presenza di una minaccia al territorio e
all'identità, al proprio essere se stessi come etnia, comunità nazionale e
razziale.
Il rigetto dell' "altro" non è stato mai determinato, infatti, dal singolo
individuo allogeno, bensì dall'essere quell'individuo la testimonianza,
l'avanguardia concreta - in carne e ossa - di un'aggressione, dichiarata o
strisciante, posta in atto dalla massa del suo raggruppamento razziale.
Storicamente, tutti i popoli, le nazioni, le razze, hanno accolto con
tolleranza al loro interno singoli, isolati appartenenti ad altri popoli,
nazioni, razze, giacché questi singoli, isolati apporti, venendo assorbiti e
diluiti nella vastità del sistema genetico/sociale/culturale ricevente, non
hanno mai costituito un pericolo per l'identità del gruppo. Ben ha scritto
all'inizio del secolo Gustave Le Bon che "fra popoli di mentalità troppo
diversa, gli incroci sono disastrosi. L'unione di bianchi con neri, indù o
pellirossa non dà altro risultato che la disgregazione, nei prodotti di tali
unioni, di tutti gli elementi di stabilità dell'anima ancestrale senza
creame di nuovi . Perché una nazione possa formarsi e durare, occorre che
essa venga costituita lentamente, attraverso la graduale mescolanza di razze
poco diverse, incrociantesi costantemente, viventi sullo stesso suolo,
soggette all'azione degli stessi ambienti, aventi le stesse istituzioni e le
stesse credenze".
Ribadisce Abel Bonnard, già membro dell'Académie française: "Rifiutare la
mescolanza non è solo il segno che si sa quel che si vale, non è solo un
segno di fierezza, è pure un segno di rispetto delle altre razze. Come
potrebbe una nazione continuarsi, se inondata all'improvviso da individui
estranei? Che cos'è una nazione se non una lunga serie di uomini generati
gli uni dagli altri? Lo spirito nazionale poggia nella sua interezza su un
determinato sangue e se questo sangue si mescola troppo lo spirito nazionale
si snatura".
Ecco l'eterna verità, oscuramente avvertita da tutti. Verità della quale
occorre tenere conto nel ricostruire una semantica della razza aderente non
solo alla realtà fattuale ma ad un principio di onestà intellettuale e
giustizia. A tal fine, e prima di ogni altra annotazione in merito, è
d'obbligo rimarcare la funzione precipua assunta oggi dall'aggettivo
"allogeno". Tale vocabolo, derivato dalla composizione delle voci greche
állos (altro) e génos (stirpe), consente di definire i veri termini
concementi la "questione razziale" posta dalle turbe del Terzo-Quarto Mondo
che assediano il continente europeo. Ossia permette di puntualizzare che il
cosiddetto "immigrato extracomunitario" oltre a provenire da nazioni non
facenti parte della CEE, appartiene ad altro ceppo etnico-razziale,
irriducibile a quello indoeuropeo, dal quale discendono, tranne sporadici
gruppi, le etnie del Vecchio Continente.
Del resto, sia detto con estrema franchezza, l'abbattimento del Mondo Nuovo
non può avere luogo se in precedenza non si sia recuperata la purezza della
lingua, la coerenza dell'analisi, l'amore per la logica e la forma.
Se la "cultura" è la proiezione del "genio" di un gruppo (razza, etnia,
nazione, stirpe, Volk, comunque lo si voglia chiamare) è del tutto spontaneo
che le coordinate simboliche/normative che la identificano e strutturano,
espresse da quel gruppo e che quel gruppo sorreggono nel turbinare delle
vicende storiche, tendano intrinsecamente a prevenire ogni minaccia di
dissolvimento biologico. Tutta la storia è del resto lì a dimostrare come il
decadere di un Sistema di Valori, di una cultura, di una civiltà, si trovi
in stretta correlazione con la decadenza del substrato genico-razziale nel
quale quella civiltà, quella cultura, quel Sistema di Valori affondava le
sue intime certezze.
Come afferma von Bertalanffy: "La storia non è un processo che si sviluppa
entro una umanità amorfa, nell'àmbito di un Homo sapiens inteso come specie
zoologica". Anche Whorf annota come le modalità di pensiero/percezione di
gruppi utilizzanti sistemi linguistici differenti - categorie modellate
biologicamente, prima che culturalmente - sfociano in visioni del mondo
fondamentalmente diverse. Ancora più deciso nel sottolineare la relatività
biologica delle categorie di pensiero, vale a dire la differenza qualitativa
tra le visioni del mondo e gli approcci alla realtà elaborati dai vari
consorzi umani, è Darlington: "I caratteri innati ci fanno vivere in mondi
diversi, anche se siamo fianco a fianco; vediamo il mondo con occhi diversi,
anche la parte che ne guardiamo insieme.......I materiali ereditari dei
cromosomi costituiscono la sostanza solida che, in ultima analisi, determina
il corso della storia".
Certo l'essere umano è l' "animale indeterminato" di Nietzsche, di Carrel,
di Heidegger e di Gehlen, l' "essere manchevole", il "ricercatore di
senso" - è l'animale per cui la conformazione biologica costituisce
unicamente un "potenziale di sviluppo" foriero di percorrere svariate vie
nell'interazione sistemica con l'ambiente ecologico e storico-sociale
circostante. Ma altrettanto certamente è assurdo - ed irrazionale nel senso
peggiore del termine - pretendere di sminuire il ruolo svolto dall'eredità
biologica, variamente attualizzata nel corso dei secoli, di quelle "comunità
di destino" che sono state finora la razza, la stirpe, l'etnia, il Volk, la
nazione - gruppi intermedi spregiati o negati, da un lato, per celebrare
l'umanità come specie zoologica autoincrociantesi in maniera (più o meno)
feconda fra i suoi componenti; dall'altro, per santificare la monade
dell'individuo assoluto, immerso in una generica, indistinta, inesistente
"umanità", direttamente in rapporto con Dio o con la Ragione.
"Il rifiuto di un orizzonte di universalità o di una norma universale"
scrive esattamente Taguieff - "porta in particolare a denunciare i "diritti
dell'uomo" come finzioni inutili o addirittura nocive. Ogni dichiarazione
dei diritti dell'uomo, infatti, è universale. Ma la ricusazione
dell'umanitarismo come impostura indica una correlazione ideologica
essenziale fra l'universalismo e l'individualismo: se sia l'uno che l'altro
sono condannati allo stesso titolo e con lo stesso gesto, è perché
rappresentano le due facce dottrinarie dello spirito di astrazione. La
posizione antiuniversalistica implica dunque una lotta su due fronti. Su un
primo fronte, essa deve sostenere la tesi che non esiste universalità
antropologica [... ] su un secondo fronte, la posizione antiuniversalista
deve affrontare una delle coppie più potenti del mondo modemo, che abbiamo
proposto di chiamare l'individuo-universalismo. Gli autori "razzisti"
tendono a definire la posizione teorica dell'avversario come "la credenza
nel dogma dell'unità della specie umana". L'antiuniversalismo si presenta
volentieri come un anti-dogmatismo, si riveste dei segni della tolleranza,
dell'apertura intellettuale e a volte si richiama persino al cammino del
progresso delle conoscenze".
Entità di ordine superiore a quello degli individui per il fatto di avere
una durata di vita potenziale infinitamente più lunga di quella degli uomini
che la costituiscono, la razza è ciò che dà valore all'uomo, è il tramite
per il quale si esprimono i suoi Dei. Reciprocamente, ha scritto Vacher de
Lapouge riprendendo la critica all'individualismo pronunciata da
Tocqueville, "ciascuno rivive nei suoi discendenti, e la solidarietà più
effettiva collega fra loro i membri della famiglia, a tal punto che in una
stirpe è in un certo senso la discendenza a costituire la realtà e i singoli
discendenti sono invece le manifestazioni temporanee e fenomeniche
dell'eredità".
Gli uomini non possono sentirsi soddisfatti vivendo nella condizione di
individui amnesici, intercambiabili, incapaci di prolungare la propria
esistenza oltre la morte (tale concetto è stato splendidamente illustrato
duemilacinquecento anni or sono da Pericle nell'orazione funebre per i
caduti ateniesi). Ovunque si siano impiantate, le civiltà indoeuropee hanno
posto come dato fondamentale della vita sociale l'esistenza e il culto della
famiglia - magari in senso lato, cioè ben oltre la stretta cerchia dei
consanguinei. La stirpe, il rispetto dei congiunti, l'autorità incontestata
del capofamiglia, magari confusa col clan, scrive Régis Boyer, non vengono
mai messi in dubbio, ovunque si eserciti l'influenza indoeuropea. Non si
tratta soltanto di realtà biologiche, ma soprattutto di entità di ordine
spirituale. Anche Tacito fa della famiglia gerrnanica la cellula base di
ogni attività umana, cosa che non sorprende il latino ed è verità
assiomatica per lo slavo: "Ne risulta che lo stadio più profondo, forse il
più antico, comunque il più sicuro, della religione indoeuropea, riguarda il
culto degli antenati. I quali non sono mai veramente morti, da un lato
perché una sorta di osmosi stabilitasi per natura fra quaggiù e l'aldilà fa
sì che la nostra attuale soluzione di continuità fra vita e morte sembri
affatto estranea a questa mentalità........da un altro lato perché varie
pratiche hanno lo scopo di perpetuare la memoria dei nobili scomparsi".
L'attuale disaffezione alla famiglia, conseguenza non solo dei due fenomeni
concomitanti dell'urbanizzazione e dell'industrializzazione, ma della
coerente applicazione dell'individualismo giudaico-disceso, rappresenta
perciò la prima vera rottura dell'odierno uomo europeo con il Sistema di
Valori dei suoi padri. Tutte le civiltà indoeuropee disprezzano e/o
condannano il celibato, l'aborto e l'omosessualità, pratiche che comportano
la sterilità della stirpe e, quindi, il crollo del loro Sistema di Valori,
il disfarsi della loro visione del mondo, la morte dei loro Dei. Fondare una
famiglia, difendere la propria gente, radicarsi nel proprio suolo, iscrivere
se stessi in una catena che lega infinite generazioni, è, per gli
indoeuropei, il gesto essenziale della vita. Solo una comunità solidale di
Sangue e Suolo può esprimere quel patto, religioso prima che sociale, che
lega gli uomini agli Dei, salvaguarda l'equilibrio del cosmo, riafferma
l'adesione al principio di realtà, incama il valore supremo del dovere di
verità.
Come scrive André Béjin: "Ancorando la propria identità alle razze e alle
etnie, investendo in esse il loro bisogno di solidarietà, tutti quegli
uomini che non si rassegnano ad essere soltanto degli individui sentono
attraverso i geni, attraverso la cultura, che un po' di loro stessi potrà
essere trasmesso alle generazioni future. Nei nostri paesi, la nazione
adempie ancora a questa funzione per molte persone. Ma, per definizione, la
assolve meno bene (è più facile cambiare nazionalità che razza o etnia) e,
soprattutto, sembra assolverla sempre meno bene. Si noti, en passant quanto
la disinvoltura e il lassismo in materia di naturalizzazioni contribuiscano
a rafforzare ciò che i sostenitori della non-selezione in questo campo si
sforzano di combattere: il bisogno di radicamento etnico o razziale".
Insieme ai propri padri e ai propri figli, il razzista venera ed onora gli
Dei che hanno permesso non tanto la sua vita, ma quella dei suoi antenati e
che permetteranno quella dei discendenti. Attraverso la razza l'uomo porta
un tributo di amore a tutto ciò che i suoi avi hanno saputo creare di bello
e di buono nel turbinio della vita fenomenica, amando e onorando quel
Sistema di Valori attraverso il quale risuona la voce degli Dei. Come
folgora icastico Taguieff: "Il razzismo è un'ontologia delle sostanze
intermedie fra i semi-esseri individuali e i non-esseri universali".
Non esiste storicamente, fattualmente, concretamente l' "uomo". Ci sono
degli uomini. Per l'ethos indoeuropeo ci sono greci, romani, barbari,
fenici, assiri, giudei. "Non esiste alcun uomo nel mondo. Ho visto, nella
mia vita, francesi, italiani, russi, grazie a Montesquieu so perfino che
esistono i persiani" - ribadisce Joseph De Maistre contro ogni razionalismo
illuministico "ma quanto all'uomo, dichiaro di non averlo mai incontrato".
La psicologia di ogni individuo è condizionata, formata dalle psicologie
superiori della sua razza, della sua famiglia, del suo gruppo. Raramente un
uomo può sottrarsi a questa sommatoria di forze.
Altrettanto radicale è l'assunto di Voltaire nel Traité de métaphisique.
Ironizzando sul monogenismo biblico e schierandosi a favore di una
poligenesi delle razze contro l' "universalità" della ragione umana propria
al razionalismo cartesian-leibniziano, il filosofo non si trattiene dallo
scrivere: "M' informo se un negro e una negra, dalla chioma nera e lanosa e
dal naso camuso, facciano talvolta dei figli bianchi, dai capelli biondi,
dal naso aquilino e dagli occhi azzurri; se dei popoli dalla faccia glabra
siano mai usciti da popoli barbuti e se i bianchi e le bianche abbiano mai
generato popoli gialli. Mi vien risposto di no: che i negri trapiantati, per
esempio, in Germania generano soltanto negri, salvo che i tedeschi non si
piglino cura di modificare la razza, e così via. E aggiungono che nessun
uomo un po' istruito ha mai sostenuto che le razze miste non degenerino, e
che soltanto l'abate Dubos sosteneva una corbelleria simil.........Mi sembra
pertanto di poter credere con un certo fondamento che per gli uomini valga
lo stesso principio che per le piante: ossia che i peri, i pini, le querce,
gli albicocchi non derivino dalla stessa pianta e che i bianchi barbuti, i
negri lanosi, i gialli criniti e gli uomini dalla faccia glabra non
discendano dal medesimo uomo [meglio: dal medesimo Homo sapiens, n.d.A.]".
Non esiste l' "umanità", ed ugualmente non esiste un atteggiamento
"umanitario" geneticamente fondato, nel senso di una fratellanza
onnicomprensiva, valida ovunque e per tutti. L' "umanità" intesa come ente
che annulla, trascendendola in sé, ogni diversità umana, è un'aberrazione
dello spirito priva di fondamento razionale e biologico. Postulare
l'esistenza dell'"umanità" come soggetto unico, è un artificio concepito
dalla paranoia universalista al fine di ridisegnare le difformi verità umane
secondo i propri canoni. Nella realtà, esistono soltanto comunità di uomini
organizzate in razze, esistono culture specifiche che confliggono l'una con
l'altra, che si delimitano reciprocamente in una quotidiana, incessante
lotta per la vita.
Nulla di più naturale, allora, della sensazione di appartenere a un preciso,
circoscritto gruppo umano, irriducibile ad ogni altro, gruppo che da se
stesso tende a perpetuarsi e, in un certo modo, a "chiudersi", non tanto -
ribadiamo nei riguardi di un singolo individuo allogeno, ma di fronte alla
ben più ampia entità incarnata da un gruppo razziale. Questo riflesso di
esclusione dell'Altro corrisponde verosimilmente, visto il suo carattere
generale, ad una disposizione innata, acquisita filogeneticamente, vale a
dire nel corso dell'evoluzione della specie. Sono numerosi d'altro canto gli
autori che rifiutano di interpretare questo riflesso di esclusione - così
come, d'altronde, il desiderio di associazione preferenziale - come un
frutto dell' "ignoranza", e preferiscono scorgervi una disposizione che ha
le sue radici nella struttura biologica.
Se lo svolgimento pratico di ciò che viene comunemente inteso come
"razzismo" (il razzismo "classico") ha comportato anche sangue e sofferenze
(in ogni caso infinitamente minori di quanto la propaganda antirazzista
voglia far credere, e soprattutto infinitamente minori del sangue e degli
orrori praticati da ogni utopismo giudaico-disceso), per cui il razzismo
gerarchico si è storicamente mostrato sempre più duro del razzismo
morfologico (l'aggettivo "morfologico" si rifà non solo alle tesi degli
psicologi della Gestalt e agli autori della teoria dei Sistemi, ma anche
alla Weltanschauung elleno-romana, riattualizzata dalla filosofia della
storia spengleriana e dalla scienza tedesca della razza), è tuttavia
quest'ultimo, coerentemente con la sua ascendenza pagana, ad essere quello
veramente inconciliabile con ogni universalismo. Esso è peggiore per certi
versi ("morali"?) del razzismo inegualitario, lamenta De Benoist, il più
noto degli esponenti dell'antirazzismo differenzialista, poiché tratta le
razze come grandezze incommensurabili e comporta come logico sbocco la
sostanziale incomunicabilità delle culture e la generalizzazione dello
"sviluppo separato", su territori separati.
L'antirazzismo cosmopolita, se pure si situa - dal punto di vista astratto -
agli antipodi del razzismo morfologico, riveste tuttavia, per noi, una
importanza pratica soltanto dal lato della critica filosofica.
Apparentandosi al melting pot (la "pentola ribollente", il "crogiolo",
concetto ideato all'inizio del secolo dal commediografo ebreo Israel
Zangwill a magnificare l'opera con-fondente dell'americanismo), esso si
viene a scontrare (nei tempi brevi, quelli che oggi, nell'urgenza
dell'invasione terzo-quartomondiale dei paesi europei, più contano) con le
resistenze opposte da ogni etnia, sia l'accettante che l'accettata, al suo
snaturamento.
Definito da Béjin "utopia panmixista", tale antirazzismo dovrebbe comunque
essere meglio chiamato col suo vero nome di razzismo assimilazionista,
poiché in esso, per fondersi nel calderone dell'utopismo universalista
giudaico, ogni razza deve abbandonare la propria specificità, fisica e
spirituale, al fine di adeguarsi e far proprio un altro Sistema di Valori,
giudicato superiore. Tale "antirazzismo" non è in realtà che l'espressione
più pura del razzismo giudaico, vale a dire dell'imposizione ad ogni nazione
di un Sistema di Valori ad esse estraneo, scaturito dal "genio" di un altro
gruppo etnico-razziale. Ed inoltre, mentre a tutti i popoli viene suggerito
(imposto) di fondersi e scomparire nel calderone comune, a questo destino
non deve andare incontro il Popolo Santo (se lo facesse, verrebbe a perdere
ogni sua santità distintiva, cesserebbe la sua privilegiata esistenza di
Popolo Eletto).
Come comunque sentenzia, prudente, l'Institute of Jewish Affairs
nell'ottobre 1984 in Patterns of Prejudice (Modelli di pregiudizio): "Il
fatto di riconoscere che le razze esistono, o anche di professare
un'opinione sull'opportunità o l'inopportunità della loro fusione, non fa di
nessuno un razzista" (prego prendere nota e citare la fonte, per tutti
coloro che saranno trascinati dal Sistema, con l'accusa di "razzismo", nelle
aule dei tribunali).
Scrive inoltre il periodico francese Information juive nell'aprile 1985: "Ci
sembra davvero fuori luogo inserire la questione dei matrimoni misti nel
contesto del razzismo: il fatto di opporsi ad un matrimonio misto non ha
necessariamente il razzismo come motivazione e, spesso, non ha assolutamente
nulla a che vedere con esso. I matrimoni misti, noi ebrei ne sappiamo
qualcosa, sono abbastanza gravidi di conseguenze, che si tratti
dell'equilibrio della coppia, dell'unità e del futuro della famiglia,
dell'educazione dei figli, della perennità delle nostre tradizioni, della
nostra religione, della sopravvivenza del nostro popolo. Chi negherà che
questo genere di matrimoni ha per conseguenza, oltre a conflitti di cultura,
l'indebolimento o addirittura la scomparsa di certe minoranze?".
Anche Régine Lehmann pretende per la sua razza ciò che deve invece essere
negato per tutte le altre: "Razzista è non chi riconosce differenze tra gli
individui, ma chi si pretende superiore in nome di tali differenze. Il
rifiuto dei matrimoni misti è una manifestazione non di razzismo, ma del
desiderio di mantenere l'identità ebraica".
Lievemente più razzisticamente scoperto è Elia Samuele Artom, la cui opera,
neppure due decenni or sono, viene giudicata dal curatore "ancora vitale,
oltre trentacinque anni dopo la pubblicazione della sua prima edizione": "Il
matrimonio non può aver luogo che tra ebrei. Qualunque unione tra ebreo o
ebrea con persone estranee all'ebraismo è, di fronte alla legge ebraica,
vietata e, se avvenuta, considerata illegittima. E' questa una delle norme
che hanno più potentemente contribuito a mantenere salda la compagine di
Israele: l'inserzione nella famiglia ebraica di elementi, sia pure ottimi,
di altra origine o di altra fede non può che contribuire all'assimilazione
di Israele e quindi avviare alla sua distruzione. Da grave decadenza e da
pericolo di distruzione sono infatti colpiti quei nuclei ebraici nei quali,
nonostante la norma sopra indicata, hanno avuto e hanno luogo frequenti
unioni tra ebrei e non ebrei". "Israele è consacrato in quanto è collocato
ad un grado più elevato delle altre genti", ribadisce il Nostro, facendo
piazza pulita di tutte le disquisizioni che vorrebbero intendere - o meglio:
dare ad intendere - che tale elezione sia basata soltanto su fondamenta
religiose e non nazionali-razziali: "Gli ebrei, in quanto sacerdoti
dell'umanità, debbono sempre costituire un'eletta minoranza in mezzo agli
altri". Il fine degli innumeri, millenari incitamenti a rifuggire
l'impurità - o più concretamente: gli impuri - resta quello esplicitato da
Dante Lattes nel commento alla Legge: "Non si tratta di costituire un
cenacolo mistico, un ordine religioso, dedito solo agli esercizi spirituali,
alla contemplazione, agli studi teologici, ma di essere una nazione
superiore, distinta (qadòsh) dalle altre nazioni sorelle, per qualità e
attività umane non comuni".
Ammirando dal profondo il contorsionismo mentale e l'improntitudine dei
Fratelli Maggiori, ci sembra del tutto superfluo spendere al proposito
ancora parole: per il momento rinviamo il lettore agli innumeri attestati
rilasciati dall'Altissimo ai suoi Prediletti, nonché all'esegesi teologica
formulata, tra gli altri, dai citati Artom e Lattes e da Klenicki e Wigoder.
La posizione oggi indubbiamente più pericolosa, per chiunque voglia
difendere ogni essere umano in quanto portatore di una sua specifica dignità
razziale - teoreticamente eguale per tutti - è comunque proprio quella
dell'antirazzismo differenzialista, che ha il suo pendant nei concetti,
prettamente americani, di cultural pluralism (pluralismo culturale) e di
salad bowl (la "ciotola d'insalata" nella quale ogni ingrediente manterrebbe
il suo proprio sapore - ovviamente amalgamato dal condimento giudaico). La
prima definizione è stata espressa all'inizio del secolo dall'ebreo Horace
Meyer Kallen, docente di sociologia, ed è oggi difeso dall'ebreo Arthur
Schlesinger jr., ex "testa d'uovo" di Kennedy. Il secondo è' sostenuto sopra
tutti dall'ebreo Michael Walzer, docente di sociologia ad Harvard. Cavalli
di Troia di ogni universalismo, piedi di porco per scardinare ogni identità
statuale, tali concetti non sono in realtà che artifizi per imbrigliare nel
Sistema (New World Order) ogni nazione, ridurre ogni essere umano a tubo
digerente/consumante.
Quanto al razzismo "classico", gerarchico, marchiato da una cattiva
coscienza di fondo universalista, esso mantiene valenze dell'antico razzismo
biblico ed è stato usato dagli europei per giustificare non tanto
l'oppressione, vera e presunta, ai danni dei popoli extra-europei, quanto
soprattutto la missione redentrice del colonialista, del kiplinghiano white
man's burden, il "fardello dell'uomo bianco", atteggiamento iscrivibile nel
paradigma del monoteismo giudaico. Ogni gerarchizzazione postula infatti una
comparabilità dei termini gerarchizzati, suggerendo una loro natura comune.
Solo in questo caso è possibile riconoscere una superiorità, fondarla ed
imporla sulla base di parametri creduti obiettivi. Solo in questo caso
esistono popoli "superiori" - eletti e primogeniti - e popoli "inferiori" da
illuminare e convertire - da sradicare. Esempi quanto più incisivi al
proposito sono le tesi missionaristiche con le quali l'ebreo Leon Blum,
leader socialista francese e futuro capo del governo del Fronte Popolare,
lega (giustamente) nel primo dopoguerra il cosmopolitismo al progresso e
all'industria: "Noi ammettiamo il diritto ed anzi il dovere delle razze
superiori di attrarre a sé quelle che non sono giunte allo stesso grado di
cultura e di chiamarle al progresso realizzato grazie agli sforzi della
scienza e dell'industria".
Per quel che riguarda la chiusura all'immigrazionismo (o, meglio, il freddo
e sereno rispetto delle diverse realtà razziali) che comporta il razzismo
morfologico, Coon afferma che "rimane il fatto che generalmente la gente non
vede di buon occhio l'insediamento stabile degli stranieri, particolarmente
se accompagnati da mogli e figli. I meccanismi sociali si mettono
automaticamente in moto per isolare i nuovi arrivati e per mantenerli
geneticamente separat.........Quanto sopra esposto, illustra l'aspetto
comportamentale delle relazioni razziali. L'aspetto genetico si esplica in
modo analogo.I geni che fanno parte del nucleo di una cellula, posseggono un
equilibrio interno, analogamente ai membri di una istituzione sociale. I
geni sono in equilibrio in una popolazione, se la popolazione vive una vita
sana come entità morale. Gli incroci razziali turbano l'equilibrio genetico,
come quello sociale, di un gruppo".
"Queste mie affermazioni" - seguita il maggiore tra i paleoantropologi,
ascrivendo alle strategie bio-evolutive la comparsa di meccanismi a gelosa
tutela delle differenze razziali - "vogliono solo dimostrare che, in assenza
dei meccanismi sopra esposti, gli uomini non si distinguerebbero in neri,
bianchi o gialli, ma avrebbero tutti un color cachi chiaro. Il flusso di
geni attraverso le zone clinali di tutto il mondo, nel corso dell'ultimo
mezzo milione di anni (ventimila generazioni!, n.d.A), sarebbe stato
sufficiente a renderci tutti omogenei, se tale fosse stato lo schema
evolutivo delle cose e se non fosse stato vantaggioso per ognuna delle
singole razze geografiche mantenere, per la massima parte, gli elementi
adattivi allo status quo genetico".
L'irrefrenabile volontà di mantenere la giusta distanza nei confronti di
realtà allogene, lungi dall'essere il risultato di una fobia irrazionale e
patologica del diverso tout court, è quindi - se vogliamo usare il
linguaggio della scienza biologica ed evitare i lirismi concernenti sostanze
poco "afferrabili" come gli Dei - il salutare riflesso di un "pregiudizio"
atavico fissatosi nell'assetto bio-culturale dei diversi gruppi umani per
garantire loro uno sviluppo equilibrato, differenziato. Ciascuna razza,
etnia, nazione è geneticamente portata a custodire e perpetuare dentro di sé
le determinanti fondamentali della sua fisionomia, della sua cultura, della
sua storia. Ciascuna razza, etnia, nazione è orgogliosa di se stessa, dei
propri antenati, del proprio Sistema di Valori. Il cosiddetto "pregiudizio"
radicato nell'anima di ogni peculiare consorzio umano, specchio fedele della
sua indole biologica, ne condiziona la matrice costruttiva della conoscenza
e la modalità di percezione del reale, ne delimita lo psichismo, gli
orizzonti spirituali e il sentire collettivo: in pratica, ne ipoteca a tal
punto il cammino storico da renderlo non solo unico e irripetibile, ma anche
incomparabile, irriducibile, inassimilabile e, nel profondo, incomunicabile
a qualsiasi altro.
Propensione naturale dell'animo umano, l'etnocentrismo (il razzismo) tende
talora, in condizioni di pericolo - o in casi di patologia psichica quale il
sentirsi investiti di una Missione Universale al modo degli Eletti ebraici e
puritani - a prevaricare, trasformando la sua legittima essenza difensiva in
aggressione - tanto maggiormente "giusta" e "legittima" quanto più motivata
dal verbo divino.
In realtà, il vero etnocentrismo (il vero razzismo) non può comportare sulla
base di una speculazione oggettiva - l'affermazione della superiorità o
dell'inferiorità di questa o di quella cultura, di questa o di quella razza.
Le culture, le razze sono incommensurabili sul piano logico-formale, poiché
è impossibile riferirsi a criteri assoluti di valutazione. Non esistono
nella storia il Bene od il Male assoluti (forse l'abiezione di perdere la
propria anima, quanto al Male), né esiste in biologia, al di fuori del
successo riproduttivo, una scala di valori obiettiva per i viventi. Relative
le norme, plurali gli insiemi umani, tutti mantengono pari dignità
teorico-esistenziale. Ogni comunità etnica, nazionale o razziale è superiore
alle altre unicamente nella messa in opera di quelle realizzazioni che le
sono proprie. Parlare di "razza superiore" tout court, non riveste alcun
senso, né per l'animale, né per l'uomo.
Se ciò è stato fatto nel passato anche da taluno dei massimi esponenti
politici del nostro mondo ideale - condottieri di popoli in frangenti di
lotta epocale - ciò è stato unicamente dovuto a contingenze pratiche in
situazioni di crisi planetaria, sotto l'urgenza di un tempo troppo breve
(vedi l'articolata riflessione compiuta dal Capo del nazionalsocialismo il
13 febbraio 1945), e non all'applicazione della dottrina biologica o della
filosofia dei fascismi. In ogni caso, è proprio questo il discorso che il
Sistema vorrebbe, con l'ausilio del carcere, definito per sempre nei termini
da esso stesso fissati, la "sentenza" che pretende eternare soffocando ogni
revisione documentaria.
"Il Costruttore divino della Terra non ha creato l'umanità come un unico
Tutto (ein allgemeines Ganzes) - ha scritto il tedesco Gustav Stresemann,
statista e premio Nobel per la Pace - "Egli diede ai popoli correnti di
sangue diverse (verschiedene Blutstrome); diede loro come patria (Heimat)
terre di diversa natura. Servirà l'umanità nel modo più nobile e quanto più
completamente (am meisten) colui che sarà in grado di offrire qualcosa
all'intera umanità radicandosi nel proprio popolo".
La concezione razziale che issiamo a stendardo del nostro Discorso di
Verità, della nostra lotta di giustizia, esclude l'esistenza di un paradigma
universalmente condiviso sul quale fondare una gerarchia fra le razze, non
contempla alcuna forma di svalutazione delle altre razze, rigetta e combatte
ogni delirio che elegga la gens europea a signora di tutte le altre. Il
termine stesso di "elezione", sia detto una volta per tutte, non è del
nostro mondo ideale, è solo strumento, potentissimo folle strumento di
autoconvincimento e di azione per il nemico mortale dell'uomo. La nostra
concezione, riconoscendo pari dignità alle differenze intraspecifiche che
attraversano il genere umano ed ispirando di conseguenza giudizi di valore
unicamente riferibili ai comportamenti di individui e/o di parti della
nostra specifica Comunità, si configura come un elogio al diritto dei
popoli - o meglio delle nazioni - a realizzare se stessi seguendo gli
imperativi categoriali dettati dalla loro appartenenza biologico-spirituale.
Il nostro scopo è rivitalizzare quel mito d'amore e di rispetto radicato nel
Sangue e nel Suolo, nella più vera tradizione dei nostri padri. Un mito che
non dispensa leggi universali, ma vuole essere un'allegoria della nostra
anima particolare, del nostro specifico essere: retaggio di tolleranza,
accettazione e armonia (e cioè segno di equilibrio) fra le disuguaglianza di
sangue e di spirito, che si oppone nel modo più fermo al Multirazzialismo
all'interno di uno Stato, al delirio della Doverosità Mondialista.
In quasi tutti i casi, scrive Béjin, "coloro che vengono infamati con
l'epiteto di "razzisti" sono persone che non considerano un sacro dovere
disprezzare i propri antenati, la propria lingua e la propria cultura, sono
fiere dei primati della propria comunità etnica senza per questo giudicarla
superiore alle altre da ogni punto di vista, accettano le differenze,
preferiscono a priori il loro prossimo ai membri di altri gruppi etnici (e
trovano normale che costoro agiscano nello stesso modo) senza per questo
mettere al bando l'intesa e la cooperazione con questi ultimi. Questi
pretesi "razzisti" non sono che etnocentristi e condividono questa
caratteristica con la maggior parte dei membri delle comunità umane che, non
si sono suicidate".
Il panmixismo utopico predicato dall'antirazzismo cosmopolita (o razzismo
assimilazionista) consiste invece nell'affermare che l'umanità è votata al
meticciato e alla mescolanza delle culture e che questo ampio rimescolamento
genetico-culturale condurrà alla Pace Universale. La conseguenza più
immediata di tale atteggiamento è la concezione spaziale-atemporale del
legame sociale, vale a dire la dissociazione della diacronia delle
generazioni dall'aggregazione spaziale sul territorio di uno Stato, la
rottura della diacronia, la cancellazione della memoria storica dei padri,
la perdita della consapevolezza dei propri doveri nei riguardi dei figli.
Lasciando che la memoria della propria storia si cancelli, un popolo perde
la facoltà di distinguere il Sè dall'Altro, perde la propria anima per
ridursi a detrito in balia del Manipolatore di tumo, del Mediatore, di colui
che ha ideato ed imposto le parole d'ordine del Sistema.
Una nazione non è una società composta dall'assieme delle persone che
abitano un certo spazio in un certo momento; i legami visibili tra gli
occupanti non sono quelli reali che tengono insieme quella società: "Il
culto dei morti, i riti di fecondità, l'amore per la patria e l'insegnamento
della storia nazionale non sarebbero altro che aberrazioni sociologicamente
insignificanti? Questa esclusione ideologica degli avi e dei discendenti
potenziali si limita peraltro a riflettere l'indifferenza comunemente
manifestata nei loro confronti nei paesi democratici "avanzati". E' vero che
un oblio di questo genere fa comodo. Consente a parecchi nostri
contemporanei di compiacersi nell'illusione autocontemplativa di dovere
l'agio e le ricchezze di cui godono ai propri meriti, quando invece basta ad
esempio una comparazione con la società giapponese per dimostrare che questa
agiatezza materiale - che deriva, certo, in parte dallo spirito di inventiva
e di iniziativa di taluni di loro - è essenzialmente il risultato del genio,
del lavoro e delle lotte dei loro avi. I membri delle società democratiche
in via di invecchiamento non si accontentano però di divorare la propria
progenie. Dilapidano persino il loro futuro. Il fatto di preoccuparsi più
degli "occupanti" dello stesso spazio che dei propri discendenti potenziali
non favorisce infatti la denatalità? Le parole d'ordine dei più avanzati fra
i nostri democratici potrebbero essere riassunte così: "Prima di me, il
nulla" (non devo niente a nessuno, e meno che mai ai miei antenati, alla mia
razza) e "Dopo di me, il diluvio" (demografico e culturale)".
Quali sono le conseguenze di questa concezione spaziale ed atemporale del
legame sociale? Essa porta a ritenere che gli immigranti abbiano il
"diritto" di impiantarsi nei paesi d'accoglienza (pur conservando, se
possibile, le radici originarie), mentre i popoli autoctoni normalmente
radicati vengono invitati a dimenticare la loro storia e la loro cultura, a
spogliarsi e vergognarsi delle loro identità. Sorgono allora spazi
indifferenti, neutralizzati, dove si può solo circolare, senza
impiantarvici, spazi da sfruttare, da non rispettare. Il degrado ambientale,
già provocato dall'applicazione al reale da altre teorizzazioni del Sistema,
riceve dall'immigrazione un'ulteriore accelerazione. D'altra parte, l'unica
solidarietà che potrebbe esistere su spazi siffatti è quella ormai
comprovata, senza che gli europei ne abbiano tratto lezione, dallo sfacelo
territoriale e sociale (esistenziale) dell'America, the God's Own Country,
il Paese Stesso di Dio.
A causa della denatalità europea e della fecondità debordante di altri
continenti - fenomeno lucidamente pre-visto dai regimi d'Italia e Germania
sessant'anni or sono - l'Europa ha perso, nel corso di due decenni, quella
che, nella storia demografica del pianeta, appare l'equivalente della
perdita causata da una guerra mondiale. Le cifre sono eloquenti: nel 2037,
tra neppure cinquant'anni, gli italiani saranno 45 milioni, dodici milioni
in meno rispetto ad oggi. In vent'anni, tra il 2000 e il 2020, i soli paesi
della CEE perderanno dieci milioni netti di abitanti, mentre nello stesso
periodo i soli popoli del Nord Africa aumenteranno di cento milioni di unità
e verranno attirati verso le "società aperte" occidentali dalla cattiva
coscienza instillata negli europei dal predicatori del Multirazzialismo
attraverso il martellamento dei media e la droga dell'edonismo
individualista. Se oggi gli europei già rappresentano una minoranza etnica,
nel 2085, tra meno di un secolo saranno soltanto il 4 per cento della
popolazione mondiale. La popolazione anziana, con più di 65 anni, è oggi
rappresentata in Italia da meno di dieci milioni di persone; nel 2018
supererà i dodici, in una popolazione sensibilmente contratta. Dal 1987 al
2037 il peso degli anziani passerà dal 13,3 al 28,7 per cento. In altre
parole, per cento giovani vi saranno 223 anziani. "Regresso delle nascite,
morte dei popoli": mai come in questi frangenti risuona veridica
l'ammonizione di Richard Korherr, sottoscritta dal capo del fascismo.
Mai come in questi frangenti ha valore la massima di Vacher de Lapouge: "La
vera legge della lotta per l'esistenza è quella della lotta per la
discendenza". Se l'aumento numerico sia poi sopportabile dall'ecologia del
pianeta, in questo momento non deve riguardare i popoli europei.
La concezione del razzismo alla quale ci richiamiamo, evitando di accampare
diritti e/o superiorità al di fuori del Vecchio Continente, rispetta di
fatto la sovranità culturale e territoriale delle altre compagini razziali
(cosa che - lo si esamini a fondo - comporta l'eversione dell'immorale
modello economico esistente, peraltro sulla via dell'insostenibilità da
parte del cosmo terracqueo). Da ciò le deriva la legittimazione a teorizzare
i necessari provvedimenti per salvaguardare lo Spazio Vitale europeo -
troppo cruda è l'antica espressione? - da indebite intrusioni. Del resto, va
tenuto presente che l'immigrazione dal Terzo-Quarto Mondo di milioni di
"disperati" verso l'Europa non è l'intrusione di qualche migliaio di
persone, ma una vera e propria, strisciante e del tutto insensata (se non
nella strategia di qualche Piccolo Popolo), invasione di decine di milioni
di individui (a tutt'oggi, nei soli paesi della Comunità campeggiano venti
milioni di estranei) che mai potranno essere integrati, mai occupati, mai
neppure assistiti, stanti i gravissimi problemi economici e sociali che
comporta per tutto il mondo l'applicazione dei postulati del Sistema.
I corifei di tale sradicamento delle genti europee, operato attraverso una
riedizione del multirazzialismo che già fiagella il Paese di Dio, vedono in
prima fila sempre i Prediletti. Tale è, tra mille "a sinistra", Daniel
CohnBendit, il "Danny il Rosso" del mitico Maggio francese, promosso, a
difesa della democrazia multirazziale tedesca e per ovvi meriti di elezione
sistemica, assessore per gli Affari Multiculturali di Francoforte sul Meno.
Dopo avere redatto, col tedesco Thomas Schmid, un libello in favore
dell'invasione allogena del Vecchio Continente dal titolo di Heimat Babylon,
Patria Babilonia, il Nostro ammonisce ad "accettare la realtà di un certo
tipo di mobilità internazionale", e ciò anche per contrastare quel "rifiuto
dell'altro" e quel "rilancio di antisemitismo parallelo alla xenofobia" che
può essere emblematizzato dallo "slogan rabbioso" Deutschland den Deutschen,
La Germania ai tedeschi, "caro agli squadristi bruni e ai loro camerati in
doppiopetto in cerca di voti e seggi".
Tale è, tra mille "a destra", Arrigo Levi, il quale, spregiando l'etica e la
ragione, si scaglia contro la decisione presa dal parlamento tedesco il 26
maggio 1993 onde porre un limite all'invasione (nel solo 1992 hanno varcato
quelle frontiere mezzo milione di sedicenti "profughi politici"). Dopo avere
lasciato incancrenire le cose per anni, il Bundestag ha infatti approvato
una modifica in senso restrittivo dell'articolo 16 del Grundgesetz, la Legge
Fondamentale imposta dai vincitori a eradicazione dell'anima tedesca.
Dall'alto del suo moralismo il Levi, pur riconoscendo legittime le
motivazioni che hanno portato a "rifiutare un'immigrazione incontrollata,
fonte di forti tensioni fra comunità diverse, all'interno di paesi già
densamente popolati e non abituati al pluralismo etnico", sermoneggia contro
"questo continente privo di generosità": "E proprio vero che questi nostri
paesi, a differenza dell'America, non possono accogliere al loro intemo
quegli apporti di nuove etnie che pure arricchiscono robustamente (e lo
dimostra il caso americano) una società libera? E' stato fatto abbastanza
per cercare di educare i popoli europei alla nuova realtà di un mondo fatto
di disuguaglianze intollerabili, che richiedono, per essere superate, gesti
di generosità e non chiusure? Preoccupa il fatto che la "fortezza Europa" si
dimostri unita più nel difendersi dai mali del mondo che non nell'assunzione
di responsabilità più larghe".
Cosa rispondere a tali sermoni, basati, se pure non sulla malafede, sul più
venefico utopismo mondialista? Semplicemente questo: il Piccolo Popolo, come
altre volte in passato, sta tirando troppo la corda, invasato dai suoi
interessi finanziari e politici, dai valori posti al suo servizio, dal suo
Dio. Se da una parte l'ebrea Sonja Margolina ha potuto scrivere che i suoi
correligionari hanno svolto il ruolo delle "spezie" nella minestra delle
culture europee (cosa che riconosciamo di buon grado anche noi), ammettendo
tuttavia che in Russia hanno esagerato la dose al punto che quella minestra
è divenuta immangiabile, dall'altra essi, comportandosi come il Levi,
rendono indigeribile anche a noi la nostra minestra nel nostro piatto.
Razzismo non è apologia del Male, non è "xenofobia", odio per lo straniero
(la cultura dell'odio, vale a dire la sistematizzazione di impulsi
frammentariamente presenti in ogni essere umano, è un tipico prodotto
universalistico). Non significa, per chi si pone al di fuori del paradigma
che ordina le razze su una medesima scala di valori, disprezzare gli altri
gruppi biologici o le culture extraeuropee, cui pertiene il diritto di
svilupparsi nelle proprie terre, secondo parametri spirituali loro
specifici. L'esortazione di Keller, riportata in apertura, i versi di
Properzio, riportati in chiusura, illustrano tale concetto meglio di un
trattato di sociologia.
Razzismo significa rimanere fedeli alla propria razza, al ricordo dei padri,
all'orgoglio dei figli, riconoscere (recuperare) la specifica forma di vita
che la segna, rispettare i nessi che la ordinano. I sostenitori sinceri e
coerenti del cosmo - e non dello Stato! - multirazziale, i portatori della
più alta moralità, valevole per ogni gruppo umano senza elezioni divine,
senza doppie morali, senza patetici, criminali universalismi, sono tali
razzisti. Non lo sono coloro che, mediante il multirazzialismo statale,
sognata premessa per un impossibile meticciato, si propongono la rovina di
ogni razza per assemblame i detriti in un'entità umanoide priva di anima,
assoggettata al mondialismo capitalista.
Del "razzismo" si può quindi dire non che cosa è, ma che cosa si definisce
con tale termine. Nel contesto storico attuale il "razzismo" è solo uno
strumento, il più paralizzante strumento di terrorismo e di accecamento
mentale, forgiato dal Sistema al fine di uccidere i popoli, in primo luogo
quelli europei. "Bisogna avere la lucidità di ammetterlo" - scrive Béjin -
"la condanna attuale del "razzismo" è il risultato non di un'ineluttabile
evoluzione della coscienza morale, bensì, in gran parte, di quel caso della
storia recente che è stata la sconfitta militare della Germania nazista, la
quale aveva fatto del razzismo lo zoccolo dottrinario essenziale della
propria azione politica". Ed ancora, il meticciato fisico e culturale
obbligato non è altro che una ulteriore illusione "rivoluzionaria" che
cercano di imporre con la forza del ricatto "morale" i falliti e i riciclati
di tutti i sinistrismi, esseri pietosi cui la Storia ha rotto i bei
giocattoli del Socialismo Reale.
A prescindere da ogni discussione semantica e da ogni vocabolarizzazione di
un concetto che presenta aggettivazioni e sfaccettature più numerose di
quanto la neolingua voglia far credere, il termine razzismo, in quanto posto
(negativamente) dal Sistema a proprio pilastro fondante, non può oggi che
identificare: il rifiuto del multirazzialismo statale, il rifiuto del
modello di vita americano, il rifiuto di ogni Sistema di Valori
giudaico-disceso (sarà ben permesso pensare illuministicamente?), il rifiuto
del Sistema per uccidere i popoli. Razzismo significa, oggi e sempre:
rispetto per ogni razza, recupero della dignità umana, rivendicazione del
mondo reale, difesa di ogni residua libertà, amore per l'ordinamento.
Gianantonio Valli
Semantica del razzismo
Opuscolo tratto dal fascicolo numero 37 della rivista "L'Uomo
Libero"-casella postale 1658-20123 Milano- sito: http://www.uomo-libero.com
Necessità di una corretta semantica - Contro la neolingua del Sistema -
"Genocidio", cardine del Mondo Nuovo - Realtà delle razze e legittimità del
concetto di razza - Universalismo e accettazione: le quattro posizioni -
Antirazzismo differenzialista: premessa al Nuovo Ordine Mondiale- Eticità
del razzismo morfologico
Rispetta la patria di ogni uomo, ma ama la tua.
Gottfried Keller, 1819-1890
C'è un solo peccato che può venire commesso contro l'intera umanità, contro
tutte le stirpi: la falsificazione della storia.
Friedrich Hebbel, 1813-1863
mi natura dedit leges a sanguine ductas,nec possis melior iudicis esse
metu-Properzio,Elegie,IV,11
la natura mi ha dato leggi ispirate alla mia stirpe,e non potresti esser
migliore per paura di un giudice
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ULTIM'ORA
Forse è malizioso supporre un'Unica Regia per la repressione del pensiero in
atto nel Libero Occidente. Certo è che qualcuno fa di tutto per indurci a
crederlo. Dopo Francia, Germania, Austria ed Italia, anche la Svizzera, il
28 giugno 1993, ha varato una legge bavaglio spacciata per antirazzista. Le
finalità repressive del libero dibattito storico vengono esplicitate - come
fa in Francia la Gayssot - senza neanche quel pudore che copre le vergogne
della Mancino-Modigliani. Recita, tra l'altro, l'art. 261 bis: "colui che
avrà pubblicamente, con la parola, gli scritti, l'immagine, i gesti, in via
di fatto o in qualunque altra maniera, denigrato o discriminato, in un modo
che costituisca offesa alla dignità umana, una persona o un gruppo di
persone in ragione della loro razza, della loro appartenenza etnica o della
loro religione, o che per le stesse ragioni, avrà minimizzato
grossolanamente o cercato di giustificare un genocidio o altri crimini
contro l'umanità sarà punito col carcere o con pena pecuniaria".