ARBEL wrote "comunque io non sono un santone in ciabatte. ok ?"
Non intendevo dire che tu abbia cercato di fondare una religione,
nemmeno i cosiddetti Ummiti hanno mai dichiarato questo intento (la
costituzione della setta delle Ummo's Daughters non era assolutamente
prevista nei documenti ummiti); Rael invece sì, e lucrandoci anche
sopra, per questo tu e gli Ummiti siete moralmente superiori a
Vorilhon; per di più Rael affema che la sua è una religione atea,
ossimoro privo di senso. Ma è da voi alieni (o presunti tali, non
entro nel merito) che attendono risposte alcuni di coloro che sono in
cerca della 'terza via' che superi sia il 'randomismo' che il teismo.
Per queste persone è inaccettabile l'idea che fortune e disgrazie
degli uomini siano determinate da un burattinaio onnipotente che decide
in base a criteri del tutto incomprensibili. D'altro canto, però,
faticano anche ad accettare la tesi che vedrebbe la biosfera (ed in
particolare l'uomo) come un frutto del puro caso, anche perché la
teoria di Darwin presenta alcuni punti controversi. Per supportare
quest'ultima mia affermazione vi riporto una lettera scritta da un mio
amico appassionato della materia all'organizzatore di un convegno sul
darwinismo.
"[..] Il primo problema è che non capisco il messaggio di totale
chiusura del dibattito evoluzionista che emerge dalle tavole rotonde a
fronte di proclami e titoli che invece accennano a "pluralità",
"dibattito", "diversità". Domenica scorsa avete chiuso la
conferenza dal titolo " Darwin si, Darwin no, Darwin" forse"
asserendo che:
"l'evoluzione è un ormai un dato di fatto provato oltre ogni
ragionevole dubbio e non più una teoria, per cui non vale nemmeno la
pena discuterne"
Mi piacerebbe capire meglio, dato che le affermazioni apodittiche non
mi piacciono (e non dovrebbero piacere a nessuno nella comunità
scientifica), e soprattutto non mi piace la confusione strumentale che
si fa tra i "dati di fatto" e la teoria esplicativa. Cerchiamo di
dare il giusto senso alle parole. A me sembra che l'affermazione di
cui sopra sia certamente condivisibile, intesa in questi termini:
"vi sono prove conclusive dimostranti che, da quando la vita è
comparsa sulla Terra (2 o 3 miliardi di anni), vi sia stata una
successione / trasformazione / evoluzione delle forme viventi, che si
sono manifestate nelle successive epoche geologiche, secondo morfologie
che presentano relazioni gerarchiche (Phylum, Classe, Specie) e una
parentela con le forme viventi odierne".
Spero che una formulazione del genere sia abbastanza sensata. Detto
questo, la teoria dell'evoluzione darwiniana è una teoria sul
meccanismo con cui funzionano le trasformazioni evolutive, ovvero sulle
leggi che hanno determinato quelle forme biologiche. Secondo tale
modello esistono due forze motrici dell'evoluzione:
la grande varietà dei caratteri prodotta dal rimescolamento sessuale
(l'enunciato originale è oggi corretto dalla formulazione
neo-darwiniana, che prevede l'intervento "creativo" della
mutazione genetica);
l'intervento continuato e su tempi molto lunghi della selezione
naturale, forza cieca e imparziale che opera per ottimizzare gli
individui e le specie secondo severi criteri di utilità e vantaggio.
La domanda è la seguente. E' possibile, nel mondo scientifico,
contestare questo paradigma esplicativo vecchio di un secolo e mezzo,
che pretende di spiegare tutte le manifestazioni naturali? Da quel che
capisco uscendo dalle conferenze del Festival pare che non sia nemmeno
legittimo. Il Comitato Scientifico non si è affatto occupato di
confutare le obiezioni al darwinismo. Ad esempio il dibattito del 30
ottobre tra evoluzionismo e "progetto intelligente" si è risolto
con un nulla di fatto, dato che, per ammissione dello stesso
moderatore, non si sono trovati degli esponenti della teoria
alternativa che venissero a sostenerla pubblicamente.
La teoria egemone prevede, in parole molto povere, che tutte le forme
di vita sulla Terra si siano avvicendate grazie all'accumulo di una
serie vantaggiosa di errori di copiatura del DNA (che costituisce
l'unico e ultimo "progetto" costitutivo della vita). Se posso
usare una metafora "edilizia", l'idea che mi sono fatto della
Teoria Sintetica neo-darwniana è più o meno la seguente:
"C'era una volta una campagna disabitata. Passarono i secoli e, ad
un certo punto, ecco spuntare la prima casetta, piccola, bella e
perfettamente funzionale. Non abbiamo notizie né dell'ingegnere che
progettò l'edificio né dei geometri e operai che si occuparono
della costruzione, sappiamo però che in poco tempo si forma un
villaggio florido e in armonia con il paesaggio. Tra i vari abitanti
delle case, occupati nelle diverse mansioni necessarie alla vita di
tutti i giorni, vi è un gruppo di operai che ha il compito di capitale
importanza di ricopiare il progetto della casa in modo che serva alle
generazioni successive. Si badi bene questi addetti sono del tutto
ignoranti di scienza delle costruzioni e di carpenteria, sono dei
semplici amanuensi, che ripetono operazioni seriali con la massima
cura, pena il crollo dell'edificio così ben progettato. Ed infatti
sono molte le case che, a causa di errori di copiatura, vengono tirate
su con una finestra su una parete portante, o con un pilastro in meno,
e inevitabilmente crollano. Però dopo secoli e secoli di storia del
villaggio, gruppi di case con piccole modifiche vantaggiose (cioè che
per puro caso stavano in piedi) si sono conservate e, sommando modifica
su modifica, arrivarono a realizzare il World Trade Center."
Il racconto purtroppo evita accuratamente di parlare della costruzione
degli edifici "intermedi" tra la casetta e il grattacielo, di cui
si hanno scarsissime notizie. Può darsi che mi sbagli e che questa mia
immagine fiabesca di una natura alquanto "stupida" e fortunata sia
solo il risultato di un'istruzione liceale di basso livello tendente
a banalizzare le scienze naturali e la biologia. Purtroppo la teoria
darwiniana per le scuole medie e superiori (figuriamoci le elementari)
è, nei fatti, una sorta di catechismo, la cui potenza esplicativa per
degli studenti inermi, ha lo stesso valore di una favola. La reazione
della comunità scientifica italiana alla mal posta iniziativa del
Ministro dell'Istruzione è indizio di questo atteggiamento mentale.
Sembra infatti che la mancata "somministrazione" del darwinismo
prima dei 14 anni (come le vaccinazioni) possa procurare danni
permanenti alla formazione scientifica delle giovani menti.
Tornando alla materia specifica, la Teoria Sintetica sosterrebbe che
l'evoluzione è praticamente avvenuta in barba ai meccanismi
protettivi e riparativi messe in atto dalla cellula contro le mutazioni
genetiche. La mutazione è un fenomeno marginale ed indesiderato della
biologia cellulare, eppure è il "motore" in base al quale vengono
proposte alla natura le "varianti" dei progetti. Quei progetti si
traducono in forme e lo studio delle forme del passato è materia della
paleontologia. Riporto qui alcune opinioni di emeriti paleontologi, tra
l'altro molto stimati nell'ambito del Festival della Scienza:
Finora la paleontologia non ha dato quasi nessun contributo alla teoria
dell'evoluzione. (Niles Eldredge - 1980)
la paleontologia, ha messo in discussione con grande vigore la premessa
darwiniana che sia possibile spiegare le trasformazioni principali
della vita sommando, attraverso l'immensità del tempo geologico, i
minuscoli cambiamenti successivi prodotti generazione dopo generazione
dalla selezione naturale. (Stephen Jay Gould, "Critica al
fondamentalismo darwiniano").
Mi stupisce come da premesse così critiche dell'impianto darwinista
sia scaturita una teoria mansueta come quella denominata degli
"Equilibri Punteggiati" che continua comunque a professarsi
darwiniana. Nel 2003 al Festival, sono intervenuti appunto gli
esponenti del "pluralismo darwiniano", il cui contributo innovativo
alla teoria dell'evoluzione non sembra poi così rivoluzionario nelle
conclusioni. Si parla di ramificazioni e di "successo adattativo",
viene data maggiore importanza alle mutazioni casuali e neutrali e si
ristabilisce l'importanza fondamentale delle catastrofi e delle
estinzioni di massa, constatando ciò che è noto da molto tempo, cioè
che vi sono lunghi periodi di stabilità delle specie intervallati da
accelerazioni nella differenziazione biologica. Se però il
"motore" dell'evoluzione continua a rimanere la mutazione
genetica (che si porta ancora dietro il "Dogma Centrale della
Biologia"), accoppiata a una generica legge del "successo" (un
po' meno adattativo e un po' più casuale), qui le cose anziché
migliorare peggiorano. Se già prima avevamo una catena di eventi
improbabili, ora si sosterrebbe che la maggior parte della variazione
che Darwin pensava si producesse in "eoni" di tempo, si è svolta
in molto meno tempo e più freneticamente.
Non sarebbe più onesto sostenere semplicemente che l'evoluzione non
è darwiniana? Come ad esempio fa Antonio Lima-de-Faria, nel suo volume
"Evoluzione senza Selezione", pubblicato ormai 15 anni fa (ma in
Italia solo nel 2003, proprio da una casa editrice genovese). Il titolo
è appunto paradigmatico di uno scienziato che trova del tutto
insufficienti i concetti di vantaggio adattativo e di competizione per
la sopravvivenza, nello spiegare i fenomeni fondanti della biologia
evoluzionista, ovvero la macro-evoluzione, la mutazioni delle forme, le
transizioni tra le classi e i Phyla. Ecco il punto cruciale. Tutti i
fenomeni che vengono presentati dalla letteratura ortodossa come
"innumerevoli prove inoppugnabili" a sostegno dell'evoluzione in
realtà sono fatti micro-evolutivi. In altre parole riguardano la
variazione dei caratteri (fenotipi) di popolazioni all'interno della
stessa specie. Come ad esempio il fenomeno della resistenza agli
antibiotici sviluppata dai batteri patogeni durante una terapia. Non vi
è alcuna mutazione nel ceppo dei batteri, semplicemente la pressione
ambientale, esercitata dall'antibiotico, attiva nel microrganismo la
capacità latente di sintetizzare un enzima protettivo. Quella proteina
specifica c'è già, codificata nel genoma del battere, oppure
dobbiamo credere che nel giro di poche generazioni viene codificata
"da zero" un tipo totalmente nuovo di proteina?
L'applicazione della genetica di popolazione alla macro-evoluzione è
un'estrapolazione non autorizzata, fino a prova contraria. E'
dimostrato scientificamente che l'esplosione della fauna cambriana fu
un prodotto della mutazione e della selezione naturale? E' stato mai
costruito uno scenario credibile delle pressioni selettive che
costrinsero un pesce audace sulla battigia della spiaggia per (chissà
quante) generazioni fino a che gli spuntassero i primi abbozzi di arti
locomotori? E le strade stupefacenti attraverso cui un roditore
a-specializzato sviluppò gli arti anteriori in una foggia tale da
trasformarsi in un'ala adatta al volo? Questo dovrebbe fare una
teoria dell'evoluzione, raccontarci scenari plausibili di
macro-evoluzione. Ora dato che nel caso esemplare del pipistrello (come
in numerosi altri) sia i fossili ancestrali che il meccanismo mancano
completamente, Lima-de-Faria nega decisamente che queste transizioni
possano avvenire in termini neo- darwinisti, anzi nega proprio che una
simile transizione sia mai avvenuta. Secondo lui FORMA e FUNZIONE
nascono insieme. Quest'ipotesi, denominata Auto-evoluzione di forma e
funzione, si basa sul postulato che non siano i geni a determinare le
morfologie (in particolare le strutture tassonomiche superiori), ma che
le forme siano il risultato della concatenazione ininterrotta delle
leggi della fisica e della chimica, che sono state "colonizzate"
solo posteriormente dai geni, introducendo nel sistema la memoria e
l'informazione. Per sgombrare il campo da fraintendimenti
creazionisti, stiamo parlando di un citogenetista accademico
riconosciuto a livello internazionale di dichiarata impostazione
materialista.
Sono queste, ad oggi, le poche cose serie da dire sul "dissenso" al
darwiniano e non certo le beghe politiche provocate dalla ministra
Moratti. Dissenso che in Italia annovera, pochissimi ma buoni
rappresentati: Giuseppe Sermonti (genetista), Roberto Fondi
(paleontologo dell'università di Siena), Giovanni Monastra (biologo,
presidente dell'INRAN), Marcello Barbieri, e altri. Costoro
contestano, non certo "l'Evoluzione" come fatto storico in sé
(accusa insensata reiterata continuamente), bensì la formulazione
completamente meccanicista della teoria egemone, secondo la quale
l'ordine emerge dal disordine, per cui l'organismo perfettamente
funzionante e l'ecosistema con i suoi complessi equilibri sono il
prodotto della competizione "libera e caotica" dei suoi costituenti
(Caso e Necessità). Se i lavori di questa nicchia di ricercatori, sono
ritenuti scientificamente irrilevanti dal Comitato Scientifico di cui
sopra, non sarebbe comunque più formativo confutarli pubblicamente,
anziché affermare semplicemente che non vale neanche la pena parlarne?
Sicuramente se ne è parlato a scopo diffamatorio, quando il dott.
Pievani ha detto che le obiezioni del prof. Giuseppe Sermonti
all'evoluzionismo sono - come quelle di Zichichi -
"folcloristiche". Ora mi consola parzialmente il suo tono bonario,
conoscendo il disprezzo aperto con cui l'anziano professore viene
trattato in altri ambienti (spesso politicizzati). Tuttavia un minimo
di onestà intellettuale impone di distinguere decisamente due
personaggi così diversi. Il modo "cialtrone" del prof. Zichichi di
trattare la scienza è noto al grande pubblico, avendo costui ampia
visibilità televisiva in qualità di esperto di qualsiasi argomento
(oltretutto non se ne conoscono lavori degni di nota nemmeno nel campo
della fisica). Al contrario Giuseppe Sermonti è un genetista di
livello internazionale, misconosciuto in patria, che ha prodotto e
tentato di divulgare (pur nell'ostracismo più totale) obiezioni alla
teoria darwiniana pertinenti ai suoi studi e soprattutto argomentati in
maniera scientifica, non certo confessionale. Tutt'altro da quello
che il moderatore ha detto in Sala del Minor Consiglio domenica scorsa,
riferendo che Sermonti "non crede alle evidenze che lui stesso deve
studiare". Sarebbe utile in proposito una rilettura di "Dopo
Darwin", un libro vecchio di 25 anni ma attualissimo, scritto a
quattro mani con Roberto Fondi. Ci si accorgerebbe della legittimità
scientifica delle prove e delle argomentazioni, pur senza condividerne,
magari, le conclusioni. Oppure, non è più nemmeno lecito contestare
una teoria sedicente scientifica?
La seconda parte del libro, curata da Roberto Fondi, mostrava lo stato
della conoscenza paleontologica al 1980 (non credo che ci siano state
da allora novità significative, a parte la retrodatazione della
comparsa dei primi microrganismi). L'esame obiettivo della serie
fossile mostra che la paleontologia confuta decisamente gli assunti
darwiniani, cioè le stesse cose che diceva S.J. Gould fin dagli anni
'70. Però qui si giunge alla logica conclusione: la proposta di
superamento del darwinismo, non di una sua riedizione.
L'evoluzionismo vorrebbe che la vita partisse alle origini con poche
forme indifferenziate e sviluppasse la sua infinità varietà
procedendo nel tempo. I fatti paleontologici dicono tutt'altro: che
la vita quando compare, si manifesta già specifica e con la massima
biodiversità, in ogni epoca geologica. Che con il passare delle ere i
vari tipi e sottotipi di forme viventi non aumentano in numero ma
rimangono quasi costanti (tutti i Phyla conosciuti c'erano già 500
milioni di anni fa e quasi tutte le classi a circa 350 milioni di
anni). Il fatto più spiacevole è che il tracciamento dei possibili
alberi filogenetici tra specie e ordini, anziché chiarirsi, con
l'aumentare della conoscenza dei fossili, si complica in tutti gli
ambiti. E questa risalita ai progenitori sempre più antichi si ferma
comunque al livello di entità che risultano "irriducibili" a
qualunque altro progenitore conosciuto. In altre parole si risale fino
ad un numero finito di "prototipi" Si ha quasi l'impressione che
questi prototipi siano stati forniti dalla natura belli e pronti e che
su di essi si sia esercitata l'evoluzione successiva, nella misura di
"variazioni" sul tema. In conclusione la natura si manifesta
attraverso una serie di salti sistemici che, per complessità, non
ammettono gradi intermedi (dal mondo inorganico all'organico, dagli
organismi monocellulari a quelli pluricellulari, dall'ambiente marino
a quello terrestre, dall'assenza di volo al la capacità di volare,
ecc...)
Alla maggioranza dei benpensanti un'esposizione di questo tipo appare
inaccettabile, esotica, quasi magica. Di solito obiettano: "e le
forme sono nate dal nulla?". Obiezione non ricevibile in un contesto
scientifico: quando un fenomeno straordinario come la stessa origine
della vita non si inquadra nel paradigma vigente, bisogna tentare di
elaborare un nuovo paradigma. Invece è bastato smettere di parlarne.
Sul mistero della nascita della vita, pare sia calato un velo pietoso,
come se l'esperimento di Stanley Miller avesse risolto per sempre il
problema. Tuttalpiù avrebbe dimostrato che in particolari condizioni
controllate si possono formare per reazione chimica alcuni mattoni
fondamentali della casa (molti in verità contestano anche questo). Ma
chi ha costruito la casa? Non esiste nel contesto delle attuali leggi
della fisica una strada per spiegare in termini termodinamici il
passaggio dal caos all'aggregazione, dal disordine
all'informazione, dalle proteine alla cellula (correggetemi se
sbaglio). Essendo la vita un sistema "circolare" che prevede la
retroazione (feed-back) tra i suoi elementi costitutivi non lo si può
ottenere per aggiunte successive di un sistema lineare (in merito a
ciò, la "Teoria semantica dell'evoluzione" di Marcello Barbieri
è molto innovativa e illuminante).
Non vedrei quindi alcuno scandalo nell'ammettere come ipotesi di
lavoro di una biologia post-darwiniana la nostra quasi totale ignoranza
sulla nascita e l'avvicendamento delle forme. Questa ignoranza è
appunto causata dal neo-darwinismo, che impedisce di esplorare strade
alternative, a parte rarissimi tentativi di una biologia
"strutturale" e le ipotesi relative al "campo morfogenetico"
(Rupert Sheldrake - Ervin Laszlo). Non è una crociata iconoclasta.
Professandomi agnostico e razionalista, come tanti suoi colleghi,
propongo di sgombrare il campo dagli equivoci politici e religiosi. Il
libro della Genesi non è che una delle tante cosmogonie antiche e non
deve interessare ad alcuno se la narrazione è in accordo o meno con
una teoria scientifica (tra l'altro ci sono altre cosmogonie molto
più ricche e suggestive - come ad esempio quella vedica - che si
prestano ad interpretazioni molto profonde). Però bisognerà anche
disfarsi del darwinismo, allo stesso modo con cui Galileo si è
liberato dai dogmi aristotelici per fondare la Dinamica dei corpi. (ed
Aristotele è comunque ritenuto un padre del pensiero moderno).
Fare piazza pulita degli eredi di Darwin non significa cancellare Sir
Charles dai libri di scuola, ma collocarlo nella giusta prospettiva
della storia delle scienze. Il suo contributo originale alla biologia
si limita alla speciazione per isolamento geografico ed alla
constatazione che in natura gli individui competono per accaparrarsi
risorse limitate e che la selezione naturale mantiene sana la specie
(sopprimendo gli anormali, i deboli, i "mostri"). Nelle due
settimane del Festival edizione 2005, è stata giustamente ricordata
non solo la figura di Darwin naturalista, ma anche la sua esemplare e
rara attitudine di scienziato aperto alle critiche e alle obiezioni.
Queste sono le sue parole esatte tratte dal secondo fondamentale lavoro
"L'Origine dell'Uomo" del 1871:
... nelle prime edizioni della mia "Origin of Species" ho
probabilmente attribuito troppo all'azione della selezione naturale e
della sopravvivenza del più adatto... Non avevo allora considerato a
sufficienza l'esistenza di molte strutture che sembrano non essere,
per quanto possiamo giudicare, né benefiche né dannose; e questo
credo sia una delle più grandi sviste sinora trovate nel mio lavoro.
Quindi 130 anni sono passati invano? Sono state prodotte nuove prove
dell'onnipotenza della selezione naturale nell'indirizzare le nuove
forme verso destini inaspettati? Sono state riempite le lacune fossili
di cui si lamentava Darwin? Purtroppo invece di studiare Darwin per
quello che fece e per quello che disse, lo si celebra in ogni salsa
come precursore e visionario. Tutte le conquiste della biologia
posteriore vengono fatte risalire a lui, quando in realtà la biologia
moderna è nata nonostante Darwin, per non dire in aperta
contraddizione. Darwin sosteneva la generazione spontanea (abiogenesi)
della vita batterica (non è una colpa, data l'epoca) e la
discendenza dei caratteri acquisiti (pangenesi) alla stregua di
Lamarck. Eppure è lui il padre putativo di ogni disciplina.
La genetica: il lavoro di Gregor Mendel, lo scopritore della genetica,
è stato trascurato dai darwinisti finchè era in chiaro disaccordo con
la dottrina del trasformismo, poiché rivelava la fondamentale
persistenza dei determinanti genetici dietro un'apparente
variabilità. Poi Mendel è stato poi forzato ad andare a braccetto a
Darwin con la formulazione della famosa "Sintesi" negli anni '30
del '900.
La paleontologia: i fondamenti della sistematica sono precedenti a
Darwin (Cuvier e Linneo) e le linee filogenetiche tratteggiate,
(perché inesistenti) che troviamo su tutti i libri di scienze, non
aggiungono alcunché di significativo alla comprensione delle forme
viventi.
Al contrario gli esiti disastrosi dell'applicazione del darwinismo
alle società e alle culture umane (l'eugenetica, il razzismo,
l'ideologia del colonialismo) vengono sempre attribuiti alle derive
dei suoi discepoli troppo integralisti (Galton, Huxley e compagnia) al
di là delle intenzioni originali del maestro. Quindi Darwin non è
solo un naturalista rivoluzionario è l'uomo simbolo della
modernità, autore della "fine del disincanto", fondatore lui
stesso del pensiero moderno (se non ho frainteso le parole del prof.
Sgaramella), filosofo della scienza, salvatore dell'umanità.
Cos'altro ancora? Santo?
Tutto ciò rivela la debolezza di questo schema di pensiero, che sembra
sottrarsi alle regole vigenti negli altri campi della scienza. Basta
leggere i testi di Darwin per constatare quanto egli fosse figlio del
suo tempo. La sua teoria è talmente "originale" che il, sempre
misconosciuto, A.F.Wallace, negli stessi anni e dall'altra faccia del
pianeta, la formulò negli identici termini. Fenomeno paranormale? Ma
no, semplicemente entrambi i ricercatori, di scuola anglosassone,
l'avevano mutuata dalle teorie economiche maltusiane della lotta per
le risorse. A tal proposito rammento l'analisi di Karl Marx, suo
contemporaneo, che scrisse nel 1862:
E' notevole vedere come Darwin ritrovi nel mondo animale e vegetale
la sua società inglese, con la divisione del lavoro, la concorrenza,
l'apertura di nuovi mercati, le invenzioni e la lotta per la vita di
Malthus. ... in Darwin il regno animale figura come società borghese.
Più in generale, è la filosofia materialista, positivista,
riduzionista ottocentesca ad aver partorito il darwinismo,
all'insaputa del povero Charles, che stentava egli stesso a capire il
successo travolgente della sua dottrina. Egli fu l'uomo giusto al
momento giusto. E proprio in contrasto con le idee del suo fondatore il
paradigma della "sopravvivenza del più adatto" è stato spalmato
su tutta la natura ad occultare l'ignoranza dei fondamenti di quei
fenomeni che si vorrebbe spiegare. La dubbia utilità scientifica
dell'enunciato darwiniano fu osservata, fra gli altri, dal filosofo
della scienza Karl Popper:
non è affatto chiaro che cosa potremmo considerare come possibile
confutazione della teoria della selezione naturale. Se, più in
particolare, accettiamo la definizione statistica di adattamento, [che
definisce l'adattabilità] in termini di sopravvivenza effettiva,
allora la sopravvivenza del più adatto diventa tautologica e
inconfutabile.
Addirittura le tare epistemologiche dell'opera di Darwin sfociano in
un antropomorfismo ingenuo (si ricordi che l'argomentazione di
"L'origine delle specie" muove dall'analogia con
l'allevatore, cioè dalla selezione artificiale operata da un
intelligenza esterna che sa già in anticipo qual è la direzione
desiderabile per gli esemplari dell'allevamento (pelo più folto,
resistenza, statura). Ciò non può assolutamente valere per la
Selezione Naturale che tuttavia assume nelle spiegazioni darwiniane lo
stesso ruolo di un demiurgo (deus ex machina) che opera sempre per il
bene dell'individuo e della specie. Paradossalmente l'esito finale
dell'applicazione della filosofia darwinista alla natura è una nuova
forma di finalismo, poiché ogni caratteristica anatomica e
comportamentale dei viventi esiste perché è utile ad uno scopo (ed
inoltre deve essersi trasformata, durante il processo evolutivo,
attraverso stadi intermedi di massima utilità).
Alla luce di queste considerazioni ho trovato sorprendenti le
proposizioni finali del documento dei "saggi" indirizzato al
Ministero (sempre che, di nuovo, non abbia frainteso). Secondo
Sgaramella:
il darwinismo è il presupposto per una comprensione olistica della
natura.
ciò nondimeno il documento mette in guardia dagli eccessi di una certa
deriva scientista cioè dalla:
onnipotenza del gene (il rischio delle manipolazioni genetiche).
Capirà adesso quanto possa sentirmi confuso. In quale modo la sintesi
neo-darwiniana possa dirsi "olistica" mi sfugge. Nella storia della
scienza niente è più pervasivamente riduzionista dell'attuale
Teoria Sintetica dell'Evoluzione. Almeno nella forma che mi è stata
insegnata a scuola; altrimenti se stiamo parlando di qualcos'altro,
ci terrei ad essere informato sulla letteratura scientifica recente
(ritenuta degna dal Comitato) che si indirizza verso
l'interpretazione olistica della biologia. Il monito
sull'onnipotenza del gene poi, non sarà mica un avvertimento verso
la divulgazione ultradarwinista alla Richard Dawkins (quella sì, se
posso permettermi, folcloristica, così pervasa di inquietanti elementi
antropomorfi come il "Gene Egoista" e "L'Orologiaio Cieco").
Come si fa sostenere una cosa e il suo contrario nell'ambito della
stessa manifestazione scientifica?
Nel mondo paleoantropologico in particolare, il mito dell'onnipotenza
del gene è molto viva e giustifica l'eccessivo ottimismo con cui
vengono presentati i risultati dell'antropologia molecolare.
Purtroppo non c'è qui spazio per affrontare nel dettaglio la
questione e instillare un poco di dubbio nella certezza che questi
modelli abbiano prodotto risultati definitivi e condivisi da tutti,
come l'età dell'antenato Homo sapiens comune tutta l'umanità e
la sua origine africana. Le applicazioni della genetica di popolazione
alle migrazioni degli antenati dell'uomo spesso contraddicono i dati
archeologici più recenti. Come si concilia una fuoriuscita
dall'Africa stimata in 50.000 anni con la presenza di uomini
anatomicamente moderni oltre il circolo polare Artico 30.000 anni fa,
in Australia 60.000 anni fa, nelle Americhe 40.000 anni fa?
Bisognerebbe chiedersi se il cosiddetto gene MRCA (Most Recent Common
Ancestor) sia in grado di darci informazioni significative
sull'antenato in carne ed ossa che l'avrebbe portato nel suo DNA.
Ci sarebbe molto da discutere sulla taratura dell'orologio molecolare
arbitrariamente effettuata sulla distanza genetica rispetto ad
un'altra specie, lo scimpanzé. Distanza che sul piano genetico è
ora ridotta al 2%. Mi chiedo se un'affermazione del genere non
equivalga a misurare le analogie tra "La Divina Commedia" e "I
promessi sposi", facendone l'analisi grammaticale. Molta
letteratura che sostiene la monogenesi recente è stata sottoposta ad
aggiustamenti "ad hoc" per farla tornare con l'idea preconcetta
della migrazione "Out of Africa". Basta una scorsa alla letteratura
genetica per trovare anche qui i dissidenti, che si rifanno ad una
diversa scuola di interpretazione dei dati e di cui non si è fatto
parola al Festival (John Relethford, Alan Thorne, Richard Lewontin).
Fin qui una sintesi dei dubbi relativi all'evoluzionismo come teoria
biologica. Ora tocchiamo un tasto molto più dolente:
l'estrapolazione del darwinismo all'evoluzione culturale
dell'uomo. Il 31 ottobre Gianfranco Biondi, co-autore de "Il codice
Darwin", affermava che tutte le nostre peculiarità umane, compresi i
comportamenti, i sentimenti, la cultura ci vengono dall'evoluzione.
Un'affermazione da prendere con cautela. Nella misura in cui
significa che l'uomo è un animale appartenente all'ordine dei
primati e che si è evoluto sulla Terra, senza interventi
soprannaturali, lo trovo un concetto evidente, certamente inoffensivo.
Nella misura in cui sottintende invece il darwinismo applicato alla
cultura umana, cioè che il pensiero, i significati, il linguaggio, i
sentimenti, siano "emersi" dai nostri geni attraverso un percorso
di competizione, di selezione del più adatto, allora lo trovo
assolutamente inaccettabile. E sono quasi sicuro che sia questo il caso
perché, lo scorso anno, ho assistito alla conferenza del prof. Luigi
Luca Cavalli Sforza. Sostenere, come fa quest'ultimo, che tutte le
peculiarità che ci fanno umani esistono in quanto "vantaggiose", e
in virtù del fatto di aver superato il test della selezione naturale
è un'impostazione di un riduzionismo lampante. A me sembra una ben
squallida prospettiva.
Prendo spunto proprio dalla relazione dell'ottobre del 2004, in cui
il nostro professore di Stanford spiega che la cultura va considerata
un meccanismo di adattamento all'ambiente straordinariamente
efficiente che ha preso il posto, nella nostra specie,
dell'evoluzione biologica. Ha impostato il suo lavoro su una
definizione di cultura di questo tenore:
"accumulazione nel tempo dei comportamenti umani che portano alle
novità culturali" (definizione che al limite potrebbe adeguarsi
all'evoluzione della tecnologia, se non fosse ricorsiva)
La supposta somiglianza formale tra l'evoluzione dei geni, delle
etnie, delle lingue e delle culture umane, poiché si sostiene fondata
sugli stessi meccanismi di base - cioè la mutazione (la novità), la
trasmissione preferenziale (orizzontale nel caso di lingua e cultura),
la deriva - è un enunciato da dimostrare, NON l'assioma da cui
partire. Altrimenti che modo di fare scienza è mai questo? Mi
preoccupano sinceramente alcune affermazioni estratte dal suo ultimo
libro "L'evoluzione della cultura":
la genetica ha sviluppato la teoria dell'evoluzione biologica, ma
tale teoria è del tutto generale e include anche quella
dell'evoluzione culturale, perché vale per qualunque organismo
[enunciato apodittico, quali evidenze?];
l'evoluzione culturale può fare quello che vuole ma è sempre sotto
il controllo della selezione naturale. Quest'ultima corregge sempre
gli errori e ciò offre una garanzia contro la possibilità che siano
compiuti errori troppo gravi; tuttavia essa può anche colpire molti
innocenti;
le nostre decisioni al livello culturale sono poi sottomesse a un
tribunale più elevato, la selezione naturale, che le giudica e decide
autonomamente in base alla nostra sopravvivenza e riproduzione se e
quanto conteranno sulle generazioni successive [antropomorfismo del
deus ex-machina].
Non so a voi, ma a me questa suona più come una minaccia messianica
che un'asserzione scientifica: "state attenti perché qualunque
cosa facciate la selezione naturale decide "autonomamente" per il
vostro bene". Queste affermazioni reazionarie affossano completamente
un secolo di antropologia culturale. Da questa strada si ritorna dritti
al punto di partenza degli studi etnologici del XX secolo, che si sono
faticosamente scrollati di dosso la tara evoluzionistica
nell'interpretazione culturale e nello studio del "pensiero
selvaggio". Ovvero quella scala evolutiva "naturale" che porta
dai "semplici" comportamenti ripetitivi dei rituali
magico-religiosi, alle civiltà "complesse" che hanno inventato
l'ingegneria, il tasso di interesse e la democrazia parlamentare. Del
resto questo atteggiamento non stupisce nel clima da neo-darwinismo
sociale che si respira oggi nell'establishment politico-economico
dominante. Basta constatare la superficialità e l'arroganza con cui
la nostra civiltà industriale ha deciso unilateralmente che il proprio
democratico metodo di sviluppo è il migliore, anzi l'ultimo, e va
generosamente "elargito" a tutta la popolazione mondiale.
L'antropologia culturale ha mostrato che i comportamenti umani, le
strutture del pensiero, le società umane, si articolano in entità di
complessità "irriducibile". Strutture che non sono suscettibili di
essere spiegate nei termini di una "accumulazione di caratteri" che
tendono a trasformare le strutture di partenza in qualcosa di migliore
(più efficiente? più bello?). Ma la pensano così anche altri
genetisti, come ad esempio Richard Lewontin:
"Manca totalmente, nel caso delle culture, l'equivalente dei
meccanismi genetici alla Mendel. In biologia, le unità di base sono i
geni, mentre non c'è modo di identificare le unità di base nella
cultura, se non con criteri che risultano completamente arbitrari."
Il biasimo espresso dal Cavalli-Sforza verso i suoi colleghi
antropologi del versante culturale (accusati di "indigenismo"), a
suo dire "troppo poco evoluzionisti", si sposa male con la
professata interdisciplinarietà degli incontri del Festival. Non
sarebbe gentile invitare al tavolo anche gli antropologi culturali?
(peraltro la facoltà di Genova annovera esponenti rispettabili). I
neo-darwinisti si proclamano pluralisti, aperti di mente, contrari
all'oppressione dei dogmi religiosi altrui, democratici,
anti-razzisti, ma alla fine riducono tutto ciò che studiano, ai minimi
termini "digeribili" da una filosofia ottocentesca mutuata dalle
teorie economiche liberiste e dal positivismo progressista. I fatti
biologici come le manifestazioni immateriali, devono sottostare
"definitivamente" alla legge universale della selezione naturale.
Ogni espressione della cultura umana è interpolabile o estrapolabile a
piacere fino ad arrivare all'antenato comune, passando per
progenitori intermedi, spesso inesistenti. Il metodo scientifico invece
dovrebbe funzionare all'inverso: se un fenomeno non è suscettibile
di essere spiegato in modo evoluzionista, o si sospende il giudizio
oppure si cerca di elaborare una nuova teoria.
Rivelato il meccanismo di base, è facile vedere le vere ragioni alla
base della popolarità di uno studioso come Merrit Ruhlen. Sostenitore
della monogenesi delle lingue (la derivazione di tutte le lingue del
mondo da un'unica antica proto-lingua madre parlata da una comunità
di antenati), egli appare nel suo campo un "dissidente" della
dottrina ortodossa della linguistica comparata tradizionale
(poligenesi). Il fatto è che la monogenesi concorda in pieno con
l'impostazione neo-darwinista. La "macro-comparazione"
linguistica adottata da questo ricercatore sembra capace di ridurre
l'evoluzione delle lingue alle trasformazioni delle sue particelle
(sillabe e fonemi), allo stesso modo in cui la genetica annulla le
differenze tra gli organismi riducendole alle distanze tra i loro
genomi. In questo modo, trascurando aspetti essenziali delle strutture
linguistiche (come la sintassi che ne costituisce la "morfologia")
si possono mettere le "specie" linguistiche nel piano astratto
delle distanze vettoriali misurate come "accumulo di mutazioni" in
senso algebrico. Diventa così possibile estrapolare più o meno ciò
che si vuole, avvicinare vocaboli che tra di loro non sembravano
parenti ma che, passando attraverso l'artificio delle proto-lingue,
possono somigliare a tutti gli antenati possibili fino ad approdare
alla proto-lingua madre. L'intervento di Starostin mi è sembrato
veramente chiarificatore in proposito. Entità che, alla luce della
linguistica comparata tradizionale, apparivano "irriducibili" le
une alle altre ora appaiono derivare da progenitori comuni. Come ad
esempio la lingua Khoisan dei Boscimani e le antiche lingue caucasiche,
caratterizzate da strutture profondamente diverse che non possono
essere derivate da progenitori comuni,
La parte "sospetta" nelle conclusioni di Ruhlen (almeno nella
sintesi della conferenza) è l'estrapolazione alla mitica comunità
di primi homini sapiens migrati dall'Africa 50.000 anni fa. Egli
presenta questo risultato non come il frutto indipendente della sua
indagine, ma come una verità calata dall'alto. In altre parole le
proto-lingue dovrebbero venir fuori dall'analisi linguistica ed
essere controllate nello spazio-tempo archeologico (paleografia
antica?) o etnologico. Altrimenti vi è ben poco di verificabile. Ad
esempio vi è una lingua africana odierna che risulta più vicina alla
lingua madre (perché - immagino - più "semplice" o più
efficiente?) secondo il "tempo di coalescenza" calcolato
dall'albero filogenetico? E' possibile estrapolare la proto-lingua
dei progenitori dei Polinesiani (che dovrebbe risultare, secondo
l'archeologia, molto recente? L'aggregazione in macro-famiglie
(legittima finchè raggruppa entità omogenee), non produce di per sé
una lingua madre. L'unico elemento di prova che viene mostrato è la
matrice comune di singole parole e suoni, che sembrano diffusi fra
tutte le lingue del mondo.
Ma per quel che ne sappiamo questo può anche essere il risultato di un
"prestito" universale effettuato a livello planetario dalla singola
lingua di un'ipotetica cultura umana diffusa sul pianeta nella
preistoria recente (si pensi al destino dell'inglese moderno). Una
cultura umana che potrebbe contemporaneamente essere la matrice per una
monogenesi delle "tecnologie". In proposito trovo sorprendente che
il neo-darwinismo applicato all'uomo abbia introdotto la monogenesi
ovunque, eccetto che nella nascita delle civiltà. Qui infatti vige il
più severo dettame poligenetico: le grandi civiltà dell'antichità
sarebbero nate tutte indipendentemente le une dalle altre, giungendo a
conquiste tecnologiche e culturali del tutto analoghe tra loro. Ad
esempio, la nascita dell'agricoltura attorno ai 10.000 anni fa, in
maniera autonoma e indipendente sui quattro continenti, in un lasso di
tempo molto breve (se paragonato al passato evolutivo della specie),
appare, ad alcuni studiosi, un fenomeno molto misterioso.
Concludendo la questione "culturale", è chiaro che, dando per
scontato che l'uomo è un essere africano recente, vengono promossi
dall'establishment quei metodi di indagine che producono le parentele
genetiche desiderate. Insomma l'orologio molecolare, la
macro-linguistica e in generale le elaborazioni della scuola di
Stanford non costituiscono prove indipendenti della Teoria "Out of
Africa", bensì ne sono corollari inconsci.
Vorrei infine far notare l'esito più pregnante della filosofia
darwiniana, applicata al mondo tecnologico odierno: la manipolazione
genetica degli organismi. Nel dominio di una natura che si professa
governata dalle mosse caotiche di un "Orologiaio Cieco", non c'è
niente di male nel sostituire l'agente naturale con l'ingegnere
genetico, il quale si adopera per "migliorare la natura", in modo
che i suoi prodotti possano meglio incontrare le esigenze del mercato.
Peccato però che il Dogma centrale della biologia sia morto da
trent'anni. Peccato che l'inserzione violenta di tratti di genoma
GM nelle sequenze prodotte dall'evoluzione organica della specie, in
un complesso (e incompreso) equilibrio a cui partecipano tutti i
microrganismi cellulari, provochi risultati ampiamente imprevedibili,
indesiderati, spesso pericolosi (già documentati dalla letteratura
degli ultimi 15 anni). Questa è l'arroganza dell'allevatore
industriale, figlio degenere del più bonario allevatore di Darwin,
perché dotato di mezzi tecnologici che hanno by-passato le barriere di
specie ed è rivestito addirittura di una missione umanitaria verso i
problemi agro-alimentari del Terzo Mondo. [..]"