Artamano
2008-01-09 21:40:03 UTC
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=16062
Tutto progredisce, anche il male: è la metastasi dello sviluppismo
di Francesco Lamendola - 04/01/2008
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Fanno male, i filosofi di professione, a disprezzare le umili pagine di
cronaca quotidiana, a cominciare dalla cosiddetta "cronaca nera": è lì che
s'imparano un sacco di cose sull'orientamento morale e spirituale del nostro
tempo; non sui manuali polverosi e sui virtuosismi dialettici di qualche
cervellone universitario (che fa rima con barone).
Qualcuno si ricorda ancora del "caso Curina", che le cronache del tempo
ribattezzarono subito "il delitto del catamarano"?
Era il 10 giugno del 198, son passati quasi vent'anni esatti. Filippo De
Cristofaro detto "Pippo", ex ballerino di 34 anni, e la sua giovanissima
amante olandese, la studentessa diciassettenne Diane Beyer, avevano
noleggiato il catamarano Arx, nel porto di Senigallia (Ancona), di proprietà
della trentaquattrenne Annarita Curina, per fare una crociera in Adriatico.
Ma i due giovani turisti sognavano la Polinesia; e sognavano anche di
possedere il catamarano. Così, appena partiti, uccisero a colpi di coltello
e di machete l'incomoda skipper e presero il largo. L'imbarcazione (che i
due avevano ribattezzato Fly II) venne ritrovata, il 19 luglio, su una
spiaggia della Tunisia; i due assassini vennero arrestati mentre tentavano
una improbabile fuga verso l'interno, accompagnati da un amico olandese col
suo cane lupo.
Da principio la Beyer si assunse tutta la colpa del delitto, dicendo di aver
perso la testa per gelosia: disse che la vittima si esibiva nuda e provocava
il suo fidanzato. Ma presto gli inquirenti sospettarono che si trattasse di
una manovra di De Cristofaro perché la sua ragazza, essendo minorenne,
avrebbe avuto una pena relativamente mite. La giuria del processo di primo
grado se ne convinse, e il 30 marzo 1990 lo condannò a 30 anni di
reclusione; pena che i giudici della Corte d'appello gli tramutarono in
quella dell'ergastolo, e che quelli della Corte di cassazione confermarono
definitivamente. Quanto alla Beyer, se la cavò con una condanna a 6 anni per
concorso in omicidio; e, nel 1992, fu rispedita in Olanda.
Vent'anni fa, dicevamo; fu un caso che fece scalpore. Ogni giorno i
giornali, fra giugno e luglio, dedicavano pagine e pagine alla fuga del
catamarano attraverso il Mediterraneo e, magari, anche più lontano; il 19
giugno era stato ritrovato, legato a un'ancora, il corpo della Curina, e da
quel momento lo sdegno, la rabbia, il desiderio di vendetta infiammarono il
pubblico italiano. Quando poi, catturati gli assassini, fu chiaro che
l'unico movente del delitto era stato il cieco desiderio di impadronirsi
della barca; e quando, per tentar di alleggerire la loro posizione, gli
assassini cercarono di presentare la vittima come una seduttrice alquanto
disinibita, l'indignazione cedette al disgusto, alla nausea. Possibile che
la vita umana valga così poco, si chiesero gli Italiani, da poterla troncare
per impadronirsi di una barca? E che si possa giungere, pur di ridurre la
propria condanna, a infangare la memoria della propria vittima?
E ora facciamo un balzo in avanti e torniamo ai nostri giorni. Torniamo, per
esempio, a quella notte del 1° novembre 2007 in cui è stata uccisa,
sgozzata, la studentessa inglese Meredith Kercher, di 21 anni, che
frequentava i corsi dell'Università di Perugia. Indagati e incarcerati per
il delitto, che non sembra aver alcun movente, sono la compagna di
appartamento della vittima, la studentessa americana Amanda Knox, anche
lei ventunenne; il suo fidanzato Raffaele Sollecito, di 24 anni; un ragazzo
ivoriano di 21 anni, Rudy Gude (che in primo tempo era scappato in Germania
ed è stato poi riacciuffato); e (a piede libero) il congolese Patrick
Lumumba, di 37 anni, proprietario di un pub. L'inchiesta è tuttora in corso
e quindi non è il caso di fare considerazioni di carattere giudiziario; ma
nulla vieta di svolgere una riflessione di carattere generale sulle
circostanze in cui sembra essere maturato il delitto.
Quello che colpisce a prima vista, oltre alla mancanza di un movente, è la
disinvoltura con cui, in certi ambienti universitari di tipo internazionale,
si fa uso di stupefacenti e la promiscuità sessuale che accompagna il
"fumo". Non è per fare del moralismo a buon mercato, ma si resta interdetti
dai continui "non ricordo" che costellano le confuse dichiarazioni degli
indagati, a proposito di quelle notti brave dove, a forza di andare un po'
oltre, ci si è trovati con il cadavere di una ragazza cui qualcuno ha
tagliato la gola; e non si sa perché.
Fra l'altro, lo spaccato sociologico che viene fuori da questa vicenda, cui
fa da sfondo il progetto Eramus - che tante scuole e tanti genitori vedono
come un ambito di studi molto serio e molto affidabile per i giovani - è di
uno squallore desolante. Colpiscono, inoltre, le fotografie che Sollecito e
Knox hanno inserito nel loro blog, in cui posano, con aria soddisfatta,
armati di mannaia e di mitragliatrice. Fantasie? Può darsi. Ma abbiamo
bisogno, in questa povera Italia già immersa fino al collo nella violenza e
nella pasticcioneria, di studenti e studentesse che vengono dall'altro capo
del mondo nelle nostre università non per studiare, ma per cercare
sistematicamente lo sballo, la trasgressione, l'ordinaria follia? Pensiamo
che tali studenti potrebbero rimanersene tranquillamente nella loro Seattle
o nella loro Londra; non abbiamo bisogno di loro e ne faremmo volentieri a
meno. E forse è il caso di ripensare, almeno in parte, a tutto il denaro
pubblico che viene destinato a certe forme di viaggi studio internazionali
dove, a quanto pare, studiare è l'ultima cosa che abbia importanza.
Ecco dunque il progresso: in una società che viole avere sempre di più, che
ha eretto ovunque altari per i sacrifici al Dio denaro, non si uccide più
per impadronirsi di una barca; si uccide e basta. Per provare emozioni
forti. Come cantava Lucio Battisti negli anni '70: "Tu chiamale, se vuoi,
emozioni". Già: le emozioni dei figli di papà che non sanno come ammazzare
la noia, perché di emozioni vere non ne hanno mai provate e mai ne
proveranno, abituati come sono a dare tutto per scontato e per dovuto. A
cominciare dall'ospitalità del Paese e delle università che li accolgono,
sulla fiducia, ritenendoli (a torto) persone serie.
Non che si sia persa l'abitudine di uccidere per soldi. Ne sa qualcosa quel
Michele Fusaro che, il 12 dicembre scorso, ha rapito, sgozzato, tagliato a
pezzi la povera Iole Tassitani, di Castelfranco Veneto. Intendeva chiedere
il riscatto - il riscatto di una morta; e, intanto, faceva tranquillamente
la sua vita di sempre. Con i pezzi della vittima messi in garage dentro
tanti sacchetti per la spazzatura. Tuttavia, sempre più spesso, si assiste a
delitti raccapriccianti e inspiegabili, che sono in apparenza privi di
movente. Come quello compiuto da un certo Lorenzo Giacomini, diciottenne
milanese che, il 2 gennaio 2008, prima tenta di violentare sua madre, la
giornalista e scrittrice Edi Vesco; poi le taglia la carotide con un
coltello da cucina, si pulisce, prende il treno, va a Brescia e dice ai
carabinieri, con perfetta lucidità: "Arrestatemi, ho ucciso mia mamma; non
so perché".
Lo avevamo già scritto, partendo da una riflessione dal caso di Guidonia
(nell'articolo Qualcosa sta accadendo che non sappiamo interpretare): è come
se le forze del Male si stiano scatenando: la società è in fiamme, sconvolta
da una violenza cieca e bestiale che infuria sin dentro le pareti di casa; e
noi stiamo qui a disquisire sul sesso degli angeli. Parliamo di un'Italia,
di un'Europa che non c'è più, che non esiste; e le nostre classi dirigenti
sono più cieche dell'uomo della strada.
Davanti alle ultime, orribili rivelazioni sul delitto di Castelfranco, il
vice-presidente della regione Veneto ha dichiarato che i Veneti ripudiano
uno come Fusaro; che egli deve solo marcire in carcere. Belle parole; ma non
è così: Fusaro - e tutti quelli come lui - come Giacomini, come Sollecito,
come Knox - non sono Marziani. Non servono i riti di esorcismo: Fusaro è un
veneto, di Bassano: questo è un dato non solo anagrafico, ma antropologico.
Non serve dire che i Veneti lo ripudiano: è come chiudere la stalla dopo che
i buoi sono fuggiti.
Come è veneto, della bassa veronese, quel Pietro Maso che tanti anni fa
massacrò a martellate il padre e la madre per intascare i soldi dell'eredità
e che poi, per costruirsi un alibi, andò tranquillamente a passare la serata
in discoteca. Uno sempre vestito con eleganza; che passava le giornate al
bar con gli amici; uno cui non mancavano i soldi: ma non gli bastavano. Ora
la stampa si è ricordata di lui, perché è di nuovo libero e si è fidanzato.
Come stupirsi? Già l'indomani del suo arresto, in carcere gli arrivavano
montagne di lettere di ammiratori e ammiratrici; soprattutto ammiratrici:
gli scrivevano di amarlo, di volerlo sposare.
E veneti sono quei due fratelli di Cimadolmo, in provincia di Treviso, che
hanno assassinato la madre per questioni di eredità: entrambi maggiorenni e
con un lavoro. Come un lavoro lo aveva Fusaro. Non si parla di delitti
maturati nel degrado materiale, ma in quello spirituale. Gente non povera,
in alcuni casi benestante. Ma che vuole di più, sempre di più. E che vuole
subito; che non è disposta ad aspettare. Come insegnano gli araldi e i
profeti del progresso: soddisfatti i bisogni primari, bisogna passare ai
secondari; soddisfatti anche quelli, bisogna incominciare ad inventarsi
altri bisogni, sempre più lontani da quelli autentici, dalla vita vera.
L'importante non è migliorare la qualità della propria vita; l'importante è
poter disporre di sempre più cose e sempre più costose. Che roba da
poveracci, passare le ferie al mare vicino casa: la Polinesia ci vuole.
Subito. E col catamarano di proprietà.
Il poeta Andrea Zanzotto, di Pieve di Soligo, ha dichiarato al quotidiano Il
Gazzettino che non riconosce più questo Veneto. Ecco, questo è già un
discorso più onesto: nessuno lo riconosce; ma è diventato così. È cambiato.
Come è cambiato il Friuli; come è cambiata la provincia in generale; come
sono cambiate l'Italia, l'Europa, il mondo. Tutto sta cambiando, proprio
sotto i nostri occhi; e sta cambiando tanto, troppo in fretta. Forse, questo
cambiamento sconvolgente non è solo opera dello stordimento da
super-benessere; forse c'è qualcosa d'altro; forse siamo le cavie
inconsapevoli di qualche malvagio pifferaio che vuol condurci, felici e
contenti, verso l'abisso (vedi i nostri precedenti articoli: Esiste un
progetto consapevole per strappare l'anima del mondo? e Lo shock del futuro,
banco di prova del nuovo ordine mondiale).
Certo, i meccanismi della modernità sono in se stessi demoniaci.
Scriveva, già mezzo secolo fa, Yves Congar nel suo libro Spirito e libertà
(titolo originale: Si vous êtes mes témoins, Parigi, 1958; traduzione
italiana Torino, Borla Editore, 1962, pp. 10-14):
"Il mondo nel quale siamo stati chiamati a vivere è caratterizzato da due
movimenti che agiscono, contemporaneamente, in senso contrario e si
compensano reciprocamente: da un lato l'esaltazione del soggetto individuale
e della sua libertà; dall'altro la ricerca della potenza attraverso
l'organizzazione e lo sfruttamento dei mezzi di massa e della
socializzazione dell'esistenza.
"Da una parte la società moderna tenta di rendere assoluta la libertà
individuale; in Francia, particolarmente, l'ideologia rousseiana e giacobina
concepisce la libertà come una pura autonomia dell'individuo, come
possibilità per ciascuno di fare ciò che gli piace, possibilità limitata
solamente dall'equivalente libertà degli altri individui e dalla libertà
comune. Dall'altra parte però, l'individuo moderno è in balia della potenza
di due colossi: lo Stato e la grande impresa industriale. L'impresa,
organizzata su larga base è diventata condizione del benessere materiale,
che sempre più dipende dalla macchina.
"Ne derivano quattro conseguenze che condizionano la nostra vita.
"1) l'aspra competizione che fa della vita, ad ogni livello, una lotta
spossante per i nervi; l'uomo moderno è iperteso, costantemente alla ricerca
di una maggiore velocità per sorpassare il concorrente, per strappare una
promozione, per arraffare un titolo che lo ponga in una buona posizione
davanti agli altri;
"2) l'assoggettamento continuo ad una propaganda o ad una pubblicità
aggressive che vogliono conquistare una clientela di massa, vuoi per un
prodotto industriale vuoi per una potente organizzazione ideologica o
politica (.): una vera e propria violenza alle coscienze da parte dalla
tecnica della propaganda che giunge a paralizzare le facoltà di riflessione
e di giudizio personale;
"3) la concentrazione della massa in scuole di larghi mezzi, in grandi
officine, in città o grossi agglomerati, che favorisce per se stessa una
psicologia di massa;
"4) l'intervento dello Stato, infine, responsabile del bene comune e della
popolazione, il quale intervento assume la forma di una pianificazione che
si sforza di armonizzare questi potenti fattori, condizioni del benessere
umano, in modo razionale e scientifico ove previsioni e controlli sono
basati sulla statistica.
"Da tutto ciò ne consegue che gli uomini sono ridotti allo stato di massa; è
un fatto più volte messo in rilievo, particolarmente da quel grande storico
della cultura che fu Huizinga. Egli riteneva infatti che questa
collettivizzazione della vita distoglie l'uomo dalle decisioni della propria
coscienza, gli toglie la sua umanità e gli fa seguire le sorti della massa:
crudeltà, intolleranza, sentimentalismo, ineducazione, in breve, l'opposto
di uno spirito erasmiano umanista e personale.
"Vi è senza dubbio una rivincita dell'individuo, ed è senz'altro forte, ma
come si esplica e dove porta?
"L'uomo moderno rischia di essere come spaccato e diviso in due parti, in
ciascuna delle quali la sua personalità profonda, la sua libertà spirituale
minacciano di inaridire. Rischia infatti di lasciare che la sua vita sia
divisa tra la parte di se stesso dedicata alla professione, alla lotta per
un'esistenza materiale e difficile, alla programmazione, a quelle attività
socializzate che lo riducono allo stato di massa, da un lato, e, dall'altro,
ad un contrappeso di svaghi nei quali cerca di rimettersi a posto i nervi.
"Appena gli è possibile l'uomo moderno evade dalle officine e dalle città:
parte in automobile, in moto, verso i fiumi, le montagne, il verde. Là
sfugge al massimo le costrizioni; ed il simbolo di questo abbandono è allora
il suo modo di vestire. Non pensa più a nulla. Ma questa non è anche
evasione da se stessi? La sua qualità di uomo, la sua libertà profonda - non
quella del corpo, ma quella dell'anima, quella dell'essere responsabile di
se stesso - vi trovano un vantaggio? In questo ricercare una contropartita
al lavoro nel turismo, al peso dell'impegno quotidiano nel bikini, si
rischia di non lasciar posto alla propria persona e persino di non pensar
più che vi sono dei valori di spirito, di libertà spirituale, di
miglioramento dell'uomo stesso che richiedono di essere rispettati.
"È prendere sul serio tutto l'uomo, applicarsi solo al lavoro e alla lotta
per l'esistenza materiale, compensando quanto vi è di abbrutente con delle
semplici attività di svago e di evasione?"
Mezzo secolo fa, certi fenomeni erano solo in embrione: eppure, Congar li ha
visti e compresi alla perfezione. Non si è stracciato le vesti; non ha detto
che ripudiava certi comportamenti aberranti: li ha analizzati, si è sforzato
di comprenderli. E si è reso conto che i meccanismi profondi della società
di massa tendono a spaccare l'uomo in due metà - quella di un lavoro che
abbrutisce e quella dello svago come pura evasione - che tradiscono,
entrambe, la sua natura profonda e lo indicono a non prendersi sul serio in
quanto essere unitario.
Non poteva, però, immaginare che anche lo svago sarebbe divenuto non già una
fuga verso il verde e la libertà, ma verso luoghi e forme di alienazione, di
nevrosi e di inautenticità ancor più gravi di un lavoro disumanizzante:
spiagge affollatissime, discoteche, droga, superalcolici, orge sessuali,
atti di criminalità per puro divertimento (come il gettare grosse pietre,
dai cavalcavia, sulle automobili che transitano al di sotto).
Questo, ormai, è il pericolo. Che l'essere umano, alienato e derubato della
propria essenza profonda, della sua parte spirituale, si riduca a un puro
meccanismo alla ricerca di emozioni forti, che gli diano ancora l'illusione
di essere, almeno in parte, umano. Che cerchi, nel ricorso a una violenza
sempre più insensata e sempre più diffusa, al tempo stesso un narcotico per
la propria noia esistenziale e uno stimolante per il proprio inaridimento
interiore. Come nel film Arancia meccanica di Stanley Kubrick.
Solo che non è più soltanto un film; è l'orrore quotidiano della nostra
società vuota, allucinata, ormai prona nell'adorazione di un progresso che è
solo l'altro nome del Nulla.
Esistono motivi razionali di speranza anche in mezzo alle tenebre del male?
di Francesco Lamendola - 04/01/2008
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Abbiamo sostenuto, nel precedente articolo Tutto progredisce, anche il male:
è la metastasi dello sviluppismo, che i meccanismi profondi della società di
massa tendono a spaccare l'uomo in due metà - quella di un lavoro che
abbrutisce e quella dello svago come stordimento e come narcotico - che
tradiscono, entrambe, la sua natura profonda e lo indicono a non prendersi
sul serio (per usare l'espressione di Yves Congar), in quanto essere
unitario.
Le tenebre del male sembrano avvolgerci da ogni parte: sia nella sfera del
politico (il 2008 è incominciato con il rogo di decine di persone che
avevano cercato rifugio in una chiesa di Nairobi a cui la folla, ebbra di
sangue, ha dato fuoco), sia in quella del privato (come nel caso del
diciottenne milanese che, dopo aver tentato di violentare la propria madre,
l'ha uccisa tagliandole la carotide). È dunque necessario che ci domandiamo
se, in questa oscurità che scende come una eclisse di Sole in pieno giorno,
vi sia ancora posto per la dimensione della speranza.
Ma che cos'è, esattamente, la speranza?
È solo il pio desiderio di un bene che si vorrebbe conseguire, il bisogno
disperato e irragionevole di una salvezza improbabile, che tutte le
circostanze sembrerebbero smentire?
O è l'attesa inerte, passiva di un bene che non abbiamo né la forza, né la
volontà di perseguire da soli e che un miracolo, forse, potrebbe offrirci a
portata di mano?
Insomma: la speranza è l'ultimo rifugio dei disperati o è una virtù virile,
fatta di coraggio e di realismo, per cui si è certi, anche quando la neve ha
coperto tutte le impronte in un paesaggio invernale livido e spettrale, che
tornerà la primavera, fiorirà tutta la campagna e a noi, o a chi verrà
dietro di noi, sarà possibile ritrovare la giusta direzione?
Una cosa, per noi, è certa: sperare non vuol dire fantasticare, non vuol
dire illudersi e sognare compensi inesistenti. La speranza non è una virtù
delle persone deboli e sfiduciate, ma delle persone forti, anche nei momenti
di scoraggiamento.
Ma andiamo con ordine e cominciamo dall'etimologia della parola.
"Speranza" viene dal tardo latino sperantia ed è, più o meno, la traduzione
del vocabolo greco ?????.
La teologia distingue due generi di speranza, quella naturale e quella
soprannaturale, che viene dalla Grazia divina.
Scrive Pietro Palazzini alla voce Speranza della Enciclopedia Cattolica
(edizione 1953, vol. XI, col. 1.110-1.111):
"Il significato primigenio del termine ????? è desiderio; sperare è tendere
verso un oggetto che ci appare come un bene. La speranza, considerata nel
piano naturale, è il desiderio di un bene futuro, arduo ma possibile (Summa
Theologiae, 1a-2ae, q. 40, a. 2). Suoi elementi essenziali sono il desiderio
e la fiducia. È la tensione di chi non è ancora tutto quello che deve
essere, ma ha coscienza insieme della sua imperfezione e della sua
perfettibilità.
"la speranza cristiana presenta la medesima struttura; ma la tensione supera
la nativa capacità dell'uomo, spingendosi fino al possesso eterno di Dio.
Per questo è essenzialmente un suo dono. Infusa nell'anima del battezzato
come qualità permanente, insieme con la virtù della fede, la speranza è,
sotto il soffio della Grazia attuale, il principio di quella santa
inquietudine, che stimola l'uomo, oltre la sua debolezza e le sue colpe, a
superarsi continuamente fino a raggiungere il fine supremo."
I filosofi del Novecento si sono appassionatamente confrontati intorno al
binomio speranza-disperazione, mano a mano che le ombre della modernità
(prima fra tutte, l'ombra del fungo atomico) si allungavano inquietanti
sulle prospettive del nostro presente e del nostro domani. Né qui ci
dilungheremo a esaminare dettagliatamente il principio disperazione di
Günther Anders, il principio speranza di Ernst Bloch e il principio di
responsabilità di Hans Jonas, perché non vogliamo fare dell'ermeneutica per
specialisti, ma una riflessione piana e accessibile a tutti gli uomini di
buona volontà.
In particolare, vogliamo domandarci se sia possibile fondare un principio
della speranza al di fuori delle sabbie mobili del sentimento (o,
addirittura, del sentimentalismo), recuperando sotto i piedi il solido
terreno della ragione, come si dice, oggettiva.
La cosa, infatti, è terribilmente seria: viviamo in un'epoca oscura e la
Nemesi della civiltà moderna, con gli spettri paurosi dell'angoscia
disperante e dell'autodistruzione, sembra ormai dietro l'angolo. Abbiamo
quindi non solo il diritto, ma anche il dovere di interrogarci se sia
possibile nutrire un ragionevole principio di speranza, senza il quale non
resta che il lasciarsi vivere all'insegna della casualità.
Anche il fatto di mettere al mondo dei figli, oggi, è diventata una
questione tremendamente impegnativa: sia per le difficoltà legate al
crescerli e proteggerli, che fino a un paio di generazioni fa non erano
neppur paragonabili a quelle odierne (eccezion fatta per eventi storici
circoscritti, come le guerre del passato), sia per le loro stesse
prospettive di sopravvivenza e di legittima ricerca della felicità in un
mondo sempre più compromesso, a cominciare dai fondamentali equilibri
ecologici.
Ebbene, vogliamo dire subito che nutrire in cuore la speranza, nel senso più
ampio e trascendente della parola, non è, per noi, una irresponsabile
evasione nel Limbo di un sentimento puramente soggettivo, bensì un atto
razionale dell'intelligenza, della volontà e dell'essenza più profonda della
nostra anima. Non si tratta di "ottimismo", più o meno a buon mercato,
perché "ottimismo" e "pessimismo" nascono solo da una coloritura emozionale
che noi diamo alla realtà; bensì di una salda convinzione basata sul
ragionamento e sull'esperienza e sorretta da argomentazioni di ordine
logico, oltre che spirituale.
E la prima di tali argomentazioni, che comprende tutte le altre e di cui
tutte le altre non sono che un ulteriore sviluppo, è questa: esiste qualcosa
invece del nulla, dunque - al di là dei fenomeni contingenti e accidentali -
esiste l'Essere che ha originato questo qualcosa.
Perché, invece del nulla, esiste qualcosa? Noi siamo parte di questo
qualcosa; e questo qualcosa è pieno di imperfezioni che ci fanno soffrire,
che mettono a dura prova la nostra fede nella bontà del mondo. Tuttavia, non
possiamo dubitare che qualcosa esista: perfino se il mondo intero non fosse
che un sogno - e forse lo è, dice l'Induismo: un sogno cosmico di Dio -,
perfino allora qualcosa esisterebbe: il sogno stesso, di cui siamo parte; il
nostro sognare (e sia pure il nostro credere di sognare).
Ma c'è di più.
Noi - lo abbiamo detto - soffriamo per l'imperfezione delle cose e di noi
stessi; ci sentiamo divisi e lacerati nella nostra essenza profonda,
aspiriamo al bene e, tuttavia, compiamo continuamente il male.
Che cosa significa tutto questo, se non che il bene esiste, anche se
continuamente umiliato e negato; e che esso, non il male, è la realtà
fondamentale dell'esistente, il costante punto di riferimento della nostra
coscienza? Potremmo avvertire questa amara consapevolezza del male e, al
tempo stesso, questa bruciante nostalgia del bene, se così non fosse? Se il
Male fosse il principio dell'esistente, da dove ci verrebbero questa
amarezza e questa nostalgia?
E nemmeno è possibile che l'Essere sia il male, perché il male dà solo male,
cioè negazione e privazione di esistenza; e dalla negazione nulla può avere
origine, ma solo fine. Se l'Essere fosse il male, non sarebbe più l'Essere,
ma il non-essere. E dal non-essere nulla può originarsi, nulla può prendere
inizio.
Ancora: se l'Essere fosse il male, il mondo sarebbe un assurdo: assurdo
nascere, assurdo vivere, assurdo morire (ed è questa, precisamente, la
posizione di tanti scrittori e filosofi del Novecento, in particolare
dell'area esistenzialista).
Ma, se esiste l'assurdo (e certamente esiste), non può essere però il
fondamento delle cose, il fondamento dell'esistente: dunque non può essere
l'Essere. L'assurdo, per sua stessa natura, non può costituire la base
dell'intera realtà, per il semplice fatto che l'assurdo non è qualche cosa
di positivo, bensì mancanza e privazione (di senso, di logica, di moralità);
e la coscienza che riconosce l'assurdo come tale, riconosce che la
privazione non può essere il fondamento logico delle cose, non può
identificarsi con l'Essere.
Altrimenti, su che cosa poggerebbe l'assurdo? Saremmo costretti a una
regressio ad infinitum, come nella cosmologia mitologica dell'elefante e
della tartaruga. Se l'Universo poggia su un elefante che, a sua volta,
poggia su una tartaruga, su che cosa poggia la tartaruga? E così via, sempre
all'indietro, senza mai una fine.
Questo concetto è bene espresso da Enrico Zoffoli nel suo libro Problema e
mistero del male (Torino, Casa Editrice Marietti, 1960, pp. 41-42):
"Ritenere che la realtà è radicalmente, universalmente e irrimediabilmente
assurda, equivale ad affermare che il male è qualcosa di positivo, per sé
sussistente, anteriore ed autonomo rispetto a tutto il resto che, secondo
l'ipotesi, non sarebbe che vano. Si ricade, così, nell'errore manicheo, che
avendo ipostatizzato il male, lo ha negato e ne ha perduto la più elementare
nozione.
"E, infatti, se alla radice o base ultima delle cose troviamo il male, si
deve anche concedere che questo precede e fonda la realtà delle medesime; ma
noi, così, sfociamo nel nulla, perché un male totale e radicale è totale e
radicale negazione. Ora, il nulla dà il nulla, sul nulla non regge nulla,
neppure la illusione.
"In altri termini, se la contraddizione colpisse la coerenza intima, ossia
negasse l'identità del reale e con se stesso al punto da costituirne l'unico
substrato primo e irriducibile, dovremmo anche supporre che la negazione
dell'essere fonderebbe l'essere.; e negazione dell'essere è infatti il
difetto d'identità dell'essere con se stesso, ossia la contraddizione
immanente nella sua struttura profonda.
"Oppure: il male, se è privazione di bene, è necessariamente posteriore al
medesimo perché condizionato dal bene. Dunque:
"se c'è qualcosa ,ci può essere anche il male; ma se tutto è male, non c'è
niente, perché il male totale è negazione totale.;
"se c'è il male, è segno che c'è anche il bene; e, nel caso, il male non è
solo insieme col bene, ma altresì per il bene, suo esclusivo e ineliminabile
soggetto.;
"la gravità del male non è mai pari e tanto meno maggiore dell'eccellenza
del bene.
"Il primato del bene, dunque, è assoluto e pacifico, come il primato
dell'essere che, essendo identico a se stesso, esclude la contraddizione e
fonda l'essenziale intelligibilità e bontà delle cose.
"Pertanto il pessimismo, che si spinge fino a negare la Provvidenza intesa
come Razionalità pura, affermando l'irrazionalità del Tutto, è
insostenibile: per noi è semplicemente assurdo porre l'assurdità alla base
stessa dell'essere. Per esser logici, dovremmo negar tutto, compresi noi
stessi coi nostri problemi e quanto in qualsiasi senso e misura provoca la
nostra insofferenza. Col pessimista non si può neanche ragionare sul perché
del male. Esagerandolo, egli lo nega.
"Suppongo che Tutto sia realmente, radicalmente, disperatamente assurdo.
Dunque, anche la ragione è tale. Ma, questa, se è assurda, come può
avvertire l'assurdo, parlare di assurdo, respingere l'assurdo?. Se
l'osserva, lo giudica e non intende rassegnarvisi, è segno che almeno essa,
nel suo fondo più riposto ed autentico, è fuori e sopra l'assurdo: la
ragione è vera, coerente, luminosa Che, se non fosse tale, come potremmo
fidarci della fondatezza delle sue proteste e accettare le sue conclusioni?.
Solo il razionale avverte l'irrazionale; solo chi è nella verità, scopre
l'errore. Il quale non può mai conoscere se stesso come errore: chi vi cade,
riconoscendolo, già se ne libera."
Certo vi sono state anche alcune anime grandi, come Giacomo Leopardi
(specialmente nel suo Inno ad Ahrimane), che sono cadute in tale errore;
che, sopraffatte dallo spettacolo del male, hanno finito per concepirlo come
il fondamento della realtà. Ma la contraddizione logica è evidente.
Attenzione: non vogliamo negare che il male esista e che sia anche una
realtà sussistente e personale; lo abbiamo, anzi, ripetutamente sostenuto e
continuiamo a mettere in guardia dal sottovalutarne lo spessore ontologico.
Il Male, cioè, non è solo (come pensava sant'Agostino), assenza di bene;
esso è anche assenza di bene. Ma ha un suo principio autonomo; che,
tuttavia, non è e non può essere - lo abbiamo appena visto - il Principio; e
non può, in alcun modo, costituire l'Essere.
Il Male esiste, ma è subordinato all'Essere, sia logicamente che
ontologicamente. E, di conseguenza, anche eticamente.
Nonostante le apparenze, il Male non ha e non potrebbe avere, in alcun caso,
la stessa forza del Bene. Perché il Bene è l'Essere - l'Essere per cui le
cose esistono, invece del nulla - e il male non è che una delle
manifestazioni dell'esistente. Non è un principio indipendente e sovrano, ma
gode solamente di un certo grado di autonomia.
Perché, non lo sappiamo.
È un grande mistero, che ci ispira - direbbe Kierkegaard, sulla scia di san
Paolo - un reverenziale timore e tremore.
E che ci sgomenta, anche, a volte; ci fa vacillare e sembra sul punto di
disperdere il nostro coraggio e la nostra speranza.
Ma la speranza non può mai morire, perché costituisce la primizia
dell'Essere: ogni ente, giunto all'autocoscienza, ne è pervaso e illuminato.
Perciò, coraggio!
Nulla di quanto accade, per quanto cupo e drammatico ci possa apparire,
giustifica la perdita del principio di speranza, che rischiara il nostro
cammino anche nelle notti più buie e tormentose.
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spesso tra amici si discute su cosa si può fare politicamente per cambiere
le cose e per opporsi al mondialismo.Notando le file sempre più scarse e le
risorse calanti degli oppositori pare che non si possa fare più nulla.Molti
cedono all'indifferenza,altri alla politica del compromesso.
Ma secondo me Guareschi aveva ragione ,nel trafiletto sottoesposto:
http://www.effedieffe.com/interventizeta.php?id=2422¶metro=cultura
Il libro di Gnocchi e Palmaro è dedicato a Giovanni Guareschi ed è
introdotto da un celeberrimo brano tratto da «Don Camillo e don Chichì»,
ove, anche in relazione a un piccolo insignificante episodio, quale quello
capitato a me, emerge la straordinaria profetica grandezza del direttore di
«Candido»: «Signore, cos'è questo vento di pazzia? Non è forse che il
cerchio sta per chiudersi e il mondo corre verso la sua rapida
autodistruzione?».
«Don Camillo, perché tanto pessimismo? Allora il mio sacrificio sarebbe
stato inutile? La mia missione fra gli uomini sarebbe dunque fallita perché
la malvagità degli uomini è più forte della bontà di Dio?»
«No, Signore. Io intendevo soltanto dire che oggi la gente crede soltanto in
ciò che vede e tocca. Ma esistono cose essenziali che non si vedono e non si
toccano: amore, bontà, pietà, onestà, pudore, speranza. E fede. Cose senza
le quali non si può vivere. Questa è l'autodistruzione di cui parlavo. L'uomo,
mi pare, sta distruggendo tutto il suo patrimonio spirituale. L'unica vera
ricchezza che, in migliaia di secoli, aveva accumulato. [.] Signore, se
questo è ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi?».
Il Cristo sorrise.
«Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i
campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo
alveo, la terra riemergerà e il sole l'asciugherà. Se il contadino avrà
salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo
del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno
agli uomini pane, vita e speranza.
«Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede
ancora la fede a mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni
giorno di più; ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla
fede. Ogni giorno di più uomini di molte parole e di nessuna fede
distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri. Uomini d'ogni
razza, d'ogni estrazione, d'ogni cultura».
Nel libro di Gnocchi e Palmaro la citazione si ferma qui.
Ma Guareschi era andato più avanti: «Signore, domandò don Camillo: volete
forse dire che il demonio è diventato tanto astuto che riesce, talvolta, a
travestirsi perfino da prete?».
«Don Camillo!» lo riproverò sorridendo il Cristo.
«Sono appena uscito dai guai del Concilio, vuoi mettermi tu in nuovi guai?».
Tutto progredisce, anche il male: è la metastasi dello sviluppismo
di Francesco Lamendola - 04/01/2008
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Fanno male, i filosofi di professione, a disprezzare le umili pagine di
cronaca quotidiana, a cominciare dalla cosiddetta "cronaca nera": è lì che
s'imparano un sacco di cose sull'orientamento morale e spirituale del nostro
tempo; non sui manuali polverosi e sui virtuosismi dialettici di qualche
cervellone universitario (che fa rima con barone).
Qualcuno si ricorda ancora del "caso Curina", che le cronache del tempo
ribattezzarono subito "il delitto del catamarano"?
Era il 10 giugno del 198, son passati quasi vent'anni esatti. Filippo De
Cristofaro detto "Pippo", ex ballerino di 34 anni, e la sua giovanissima
amante olandese, la studentessa diciassettenne Diane Beyer, avevano
noleggiato il catamarano Arx, nel porto di Senigallia (Ancona), di proprietà
della trentaquattrenne Annarita Curina, per fare una crociera in Adriatico.
Ma i due giovani turisti sognavano la Polinesia; e sognavano anche di
possedere il catamarano. Così, appena partiti, uccisero a colpi di coltello
e di machete l'incomoda skipper e presero il largo. L'imbarcazione (che i
due avevano ribattezzato Fly II) venne ritrovata, il 19 luglio, su una
spiaggia della Tunisia; i due assassini vennero arrestati mentre tentavano
una improbabile fuga verso l'interno, accompagnati da un amico olandese col
suo cane lupo.
Da principio la Beyer si assunse tutta la colpa del delitto, dicendo di aver
perso la testa per gelosia: disse che la vittima si esibiva nuda e provocava
il suo fidanzato. Ma presto gli inquirenti sospettarono che si trattasse di
una manovra di De Cristofaro perché la sua ragazza, essendo minorenne,
avrebbe avuto una pena relativamente mite. La giuria del processo di primo
grado se ne convinse, e il 30 marzo 1990 lo condannò a 30 anni di
reclusione; pena che i giudici della Corte d'appello gli tramutarono in
quella dell'ergastolo, e che quelli della Corte di cassazione confermarono
definitivamente. Quanto alla Beyer, se la cavò con una condanna a 6 anni per
concorso in omicidio; e, nel 1992, fu rispedita in Olanda.
Vent'anni fa, dicevamo; fu un caso che fece scalpore. Ogni giorno i
giornali, fra giugno e luglio, dedicavano pagine e pagine alla fuga del
catamarano attraverso il Mediterraneo e, magari, anche più lontano; il 19
giugno era stato ritrovato, legato a un'ancora, il corpo della Curina, e da
quel momento lo sdegno, la rabbia, il desiderio di vendetta infiammarono il
pubblico italiano. Quando poi, catturati gli assassini, fu chiaro che
l'unico movente del delitto era stato il cieco desiderio di impadronirsi
della barca; e quando, per tentar di alleggerire la loro posizione, gli
assassini cercarono di presentare la vittima come una seduttrice alquanto
disinibita, l'indignazione cedette al disgusto, alla nausea. Possibile che
la vita umana valga così poco, si chiesero gli Italiani, da poterla troncare
per impadronirsi di una barca? E che si possa giungere, pur di ridurre la
propria condanna, a infangare la memoria della propria vittima?
E ora facciamo un balzo in avanti e torniamo ai nostri giorni. Torniamo, per
esempio, a quella notte del 1° novembre 2007 in cui è stata uccisa,
sgozzata, la studentessa inglese Meredith Kercher, di 21 anni, che
frequentava i corsi dell'Università di Perugia. Indagati e incarcerati per
il delitto, che non sembra aver alcun movente, sono la compagna di
appartamento della vittima, la studentessa americana Amanda Knox, anche
lei ventunenne; il suo fidanzato Raffaele Sollecito, di 24 anni; un ragazzo
ivoriano di 21 anni, Rudy Gude (che in primo tempo era scappato in Germania
ed è stato poi riacciuffato); e (a piede libero) il congolese Patrick
Lumumba, di 37 anni, proprietario di un pub. L'inchiesta è tuttora in corso
e quindi non è il caso di fare considerazioni di carattere giudiziario; ma
nulla vieta di svolgere una riflessione di carattere generale sulle
circostanze in cui sembra essere maturato il delitto.
Quello che colpisce a prima vista, oltre alla mancanza di un movente, è la
disinvoltura con cui, in certi ambienti universitari di tipo internazionale,
si fa uso di stupefacenti e la promiscuità sessuale che accompagna il
"fumo". Non è per fare del moralismo a buon mercato, ma si resta interdetti
dai continui "non ricordo" che costellano le confuse dichiarazioni degli
indagati, a proposito di quelle notti brave dove, a forza di andare un po'
oltre, ci si è trovati con il cadavere di una ragazza cui qualcuno ha
tagliato la gola; e non si sa perché.
Fra l'altro, lo spaccato sociologico che viene fuori da questa vicenda, cui
fa da sfondo il progetto Eramus - che tante scuole e tanti genitori vedono
come un ambito di studi molto serio e molto affidabile per i giovani - è di
uno squallore desolante. Colpiscono, inoltre, le fotografie che Sollecito e
Knox hanno inserito nel loro blog, in cui posano, con aria soddisfatta,
armati di mannaia e di mitragliatrice. Fantasie? Può darsi. Ma abbiamo
bisogno, in questa povera Italia già immersa fino al collo nella violenza e
nella pasticcioneria, di studenti e studentesse che vengono dall'altro capo
del mondo nelle nostre università non per studiare, ma per cercare
sistematicamente lo sballo, la trasgressione, l'ordinaria follia? Pensiamo
che tali studenti potrebbero rimanersene tranquillamente nella loro Seattle
o nella loro Londra; non abbiamo bisogno di loro e ne faremmo volentieri a
meno. E forse è il caso di ripensare, almeno in parte, a tutto il denaro
pubblico che viene destinato a certe forme di viaggi studio internazionali
dove, a quanto pare, studiare è l'ultima cosa che abbia importanza.
Ecco dunque il progresso: in una società che viole avere sempre di più, che
ha eretto ovunque altari per i sacrifici al Dio denaro, non si uccide più
per impadronirsi di una barca; si uccide e basta. Per provare emozioni
forti. Come cantava Lucio Battisti negli anni '70: "Tu chiamale, se vuoi,
emozioni". Già: le emozioni dei figli di papà che non sanno come ammazzare
la noia, perché di emozioni vere non ne hanno mai provate e mai ne
proveranno, abituati come sono a dare tutto per scontato e per dovuto. A
cominciare dall'ospitalità del Paese e delle università che li accolgono,
sulla fiducia, ritenendoli (a torto) persone serie.
Non che si sia persa l'abitudine di uccidere per soldi. Ne sa qualcosa quel
Michele Fusaro che, il 12 dicembre scorso, ha rapito, sgozzato, tagliato a
pezzi la povera Iole Tassitani, di Castelfranco Veneto. Intendeva chiedere
il riscatto - il riscatto di una morta; e, intanto, faceva tranquillamente
la sua vita di sempre. Con i pezzi della vittima messi in garage dentro
tanti sacchetti per la spazzatura. Tuttavia, sempre più spesso, si assiste a
delitti raccapriccianti e inspiegabili, che sono in apparenza privi di
movente. Come quello compiuto da un certo Lorenzo Giacomini, diciottenne
milanese che, il 2 gennaio 2008, prima tenta di violentare sua madre, la
giornalista e scrittrice Edi Vesco; poi le taglia la carotide con un
coltello da cucina, si pulisce, prende il treno, va a Brescia e dice ai
carabinieri, con perfetta lucidità: "Arrestatemi, ho ucciso mia mamma; non
so perché".
Lo avevamo già scritto, partendo da una riflessione dal caso di Guidonia
(nell'articolo Qualcosa sta accadendo che non sappiamo interpretare): è come
se le forze del Male si stiano scatenando: la società è in fiamme, sconvolta
da una violenza cieca e bestiale che infuria sin dentro le pareti di casa; e
noi stiamo qui a disquisire sul sesso degli angeli. Parliamo di un'Italia,
di un'Europa che non c'è più, che non esiste; e le nostre classi dirigenti
sono più cieche dell'uomo della strada.
Davanti alle ultime, orribili rivelazioni sul delitto di Castelfranco, il
vice-presidente della regione Veneto ha dichiarato che i Veneti ripudiano
uno come Fusaro; che egli deve solo marcire in carcere. Belle parole; ma non
è così: Fusaro - e tutti quelli come lui - come Giacomini, come Sollecito,
come Knox - non sono Marziani. Non servono i riti di esorcismo: Fusaro è un
veneto, di Bassano: questo è un dato non solo anagrafico, ma antropologico.
Non serve dire che i Veneti lo ripudiano: è come chiudere la stalla dopo che
i buoi sono fuggiti.
Come è veneto, della bassa veronese, quel Pietro Maso che tanti anni fa
massacrò a martellate il padre e la madre per intascare i soldi dell'eredità
e che poi, per costruirsi un alibi, andò tranquillamente a passare la serata
in discoteca. Uno sempre vestito con eleganza; che passava le giornate al
bar con gli amici; uno cui non mancavano i soldi: ma non gli bastavano. Ora
la stampa si è ricordata di lui, perché è di nuovo libero e si è fidanzato.
Come stupirsi? Già l'indomani del suo arresto, in carcere gli arrivavano
montagne di lettere di ammiratori e ammiratrici; soprattutto ammiratrici:
gli scrivevano di amarlo, di volerlo sposare.
E veneti sono quei due fratelli di Cimadolmo, in provincia di Treviso, che
hanno assassinato la madre per questioni di eredità: entrambi maggiorenni e
con un lavoro. Come un lavoro lo aveva Fusaro. Non si parla di delitti
maturati nel degrado materiale, ma in quello spirituale. Gente non povera,
in alcuni casi benestante. Ma che vuole di più, sempre di più. E che vuole
subito; che non è disposta ad aspettare. Come insegnano gli araldi e i
profeti del progresso: soddisfatti i bisogni primari, bisogna passare ai
secondari; soddisfatti anche quelli, bisogna incominciare ad inventarsi
altri bisogni, sempre più lontani da quelli autentici, dalla vita vera.
L'importante non è migliorare la qualità della propria vita; l'importante è
poter disporre di sempre più cose e sempre più costose. Che roba da
poveracci, passare le ferie al mare vicino casa: la Polinesia ci vuole.
Subito. E col catamarano di proprietà.
Il poeta Andrea Zanzotto, di Pieve di Soligo, ha dichiarato al quotidiano Il
Gazzettino che non riconosce più questo Veneto. Ecco, questo è già un
discorso più onesto: nessuno lo riconosce; ma è diventato così. È cambiato.
Come è cambiato il Friuli; come è cambiata la provincia in generale; come
sono cambiate l'Italia, l'Europa, il mondo. Tutto sta cambiando, proprio
sotto i nostri occhi; e sta cambiando tanto, troppo in fretta. Forse, questo
cambiamento sconvolgente non è solo opera dello stordimento da
super-benessere; forse c'è qualcosa d'altro; forse siamo le cavie
inconsapevoli di qualche malvagio pifferaio che vuol condurci, felici e
contenti, verso l'abisso (vedi i nostri precedenti articoli: Esiste un
progetto consapevole per strappare l'anima del mondo? e Lo shock del futuro,
banco di prova del nuovo ordine mondiale).
Certo, i meccanismi della modernità sono in se stessi demoniaci.
Scriveva, già mezzo secolo fa, Yves Congar nel suo libro Spirito e libertà
(titolo originale: Si vous êtes mes témoins, Parigi, 1958; traduzione
italiana Torino, Borla Editore, 1962, pp. 10-14):
"Il mondo nel quale siamo stati chiamati a vivere è caratterizzato da due
movimenti che agiscono, contemporaneamente, in senso contrario e si
compensano reciprocamente: da un lato l'esaltazione del soggetto individuale
e della sua libertà; dall'altro la ricerca della potenza attraverso
l'organizzazione e lo sfruttamento dei mezzi di massa e della
socializzazione dell'esistenza.
"Da una parte la società moderna tenta di rendere assoluta la libertà
individuale; in Francia, particolarmente, l'ideologia rousseiana e giacobina
concepisce la libertà come una pura autonomia dell'individuo, come
possibilità per ciascuno di fare ciò che gli piace, possibilità limitata
solamente dall'equivalente libertà degli altri individui e dalla libertà
comune. Dall'altra parte però, l'individuo moderno è in balia della potenza
di due colossi: lo Stato e la grande impresa industriale. L'impresa,
organizzata su larga base è diventata condizione del benessere materiale,
che sempre più dipende dalla macchina.
"Ne derivano quattro conseguenze che condizionano la nostra vita.
"1) l'aspra competizione che fa della vita, ad ogni livello, una lotta
spossante per i nervi; l'uomo moderno è iperteso, costantemente alla ricerca
di una maggiore velocità per sorpassare il concorrente, per strappare una
promozione, per arraffare un titolo che lo ponga in una buona posizione
davanti agli altri;
"2) l'assoggettamento continuo ad una propaganda o ad una pubblicità
aggressive che vogliono conquistare una clientela di massa, vuoi per un
prodotto industriale vuoi per una potente organizzazione ideologica o
politica (.): una vera e propria violenza alle coscienze da parte dalla
tecnica della propaganda che giunge a paralizzare le facoltà di riflessione
e di giudizio personale;
"3) la concentrazione della massa in scuole di larghi mezzi, in grandi
officine, in città o grossi agglomerati, che favorisce per se stessa una
psicologia di massa;
"4) l'intervento dello Stato, infine, responsabile del bene comune e della
popolazione, il quale intervento assume la forma di una pianificazione che
si sforza di armonizzare questi potenti fattori, condizioni del benessere
umano, in modo razionale e scientifico ove previsioni e controlli sono
basati sulla statistica.
"Da tutto ciò ne consegue che gli uomini sono ridotti allo stato di massa; è
un fatto più volte messo in rilievo, particolarmente da quel grande storico
della cultura che fu Huizinga. Egli riteneva infatti che questa
collettivizzazione della vita distoglie l'uomo dalle decisioni della propria
coscienza, gli toglie la sua umanità e gli fa seguire le sorti della massa:
crudeltà, intolleranza, sentimentalismo, ineducazione, in breve, l'opposto
di uno spirito erasmiano umanista e personale.
"Vi è senza dubbio una rivincita dell'individuo, ed è senz'altro forte, ma
come si esplica e dove porta?
"L'uomo moderno rischia di essere come spaccato e diviso in due parti, in
ciascuna delle quali la sua personalità profonda, la sua libertà spirituale
minacciano di inaridire. Rischia infatti di lasciare che la sua vita sia
divisa tra la parte di se stesso dedicata alla professione, alla lotta per
un'esistenza materiale e difficile, alla programmazione, a quelle attività
socializzate che lo riducono allo stato di massa, da un lato, e, dall'altro,
ad un contrappeso di svaghi nei quali cerca di rimettersi a posto i nervi.
"Appena gli è possibile l'uomo moderno evade dalle officine e dalle città:
parte in automobile, in moto, verso i fiumi, le montagne, il verde. Là
sfugge al massimo le costrizioni; ed il simbolo di questo abbandono è allora
il suo modo di vestire. Non pensa più a nulla. Ma questa non è anche
evasione da se stessi? La sua qualità di uomo, la sua libertà profonda - non
quella del corpo, ma quella dell'anima, quella dell'essere responsabile di
se stesso - vi trovano un vantaggio? In questo ricercare una contropartita
al lavoro nel turismo, al peso dell'impegno quotidiano nel bikini, si
rischia di non lasciar posto alla propria persona e persino di non pensar
più che vi sono dei valori di spirito, di libertà spirituale, di
miglioramento dell'uomo stesso che richiedono di essere rispettati.
"È prendere sul serio tutto l'uomo, applicarsi solo al lavoro e alla lotta
per l'esistenza materiale, compensando quanto vi è di abbrutente con delle
semplici attività di svago e di evasione?"
Mezzo secolo fa, certi fenomeni erano solo in embrione: eppure, Congar li ha
visti e compresi alla perfezione. Non si è stracciato le vesti; non ha detto
che ripudiava certi comportamenti aberranti: li ha analizzati, si è sforzato
di comprenderli. E si è reso conto che i meccanismi profondi della società
di massa tendono a spaccare l'uomo in due metà - quella di un lavoro che
abbrutisce e quella dello svago come pura evasione - che tradiscono,
entrambe, la sua natura profonda e lo indicono a non prendersi sul serio in
quanto essere unitario.
Non poteva, però, immaginare che anche lo svago sarebbe divenuto non già una
fuga verso il verde e la libertà, ma verso luoghi e forme di alienazione, di
nevrosi e di inautenticità ancor più gravi di un lavoro disumanizzante:
spiagge affollatissime, discoteche, droga, superalcolici, orge sessuali,
atti di criminalità per puro divertimento (come il gettare grosse pietre,
dai cavalcavia, sulle automobili che transitano al di sotto).
Questo, ormai, è il pericolo. Che l'essere umano, alienato e derubato della
propria essenza profonda, della sua parte spirituale, si riduca a un puro
meccanismo alla ricerca di emozioni forti, che gli diano ancora l'illusione
di essere, almeno in parte, umano. Che cerchi, nel ricorso a una violenza
sempre più insensata e sempre più diffusa, al tempo stesso un narcotico per
la propria noia esistenziale e uno stimolante per il proprio inaridimento
interiore. Come nel film Arancia meccanica di Stanley Kubrick.
Solo che non è più soltanto un film; è l'orrore quotidiano della nostra
società vuota, allucinata, ormai prona nell'adorazione di un progresso che è
solo l'altro nome del Nulla.
Esistono motivi razionali di speranza anche in mezzo alle tenebre del male?
di Francesco Lamendola - 04/01/2008
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Abbiamo sostenuto, nel precedente articolo Tutto progredisce, anche il male:
è la metastasi dello sviluppismo, che i meccanismi profondi della società di
massa tendono a spaccare l'uomo in due metà - quella di un lavoro che
abbrutisce e quella dello svago come stordimento e come narcotico - che
tradiscono, entrambe, la sua natura profonda e lo indicono a non prendersi
sul serio (per usare l'espressione di Yves Congar), in quanto essere
unitario.
Le tenebre del male sembrano avvolgerci da ogni parte: sia nella sfera del
politico (il 2008 è incominciato con il rogo di decine di persone che
avevano cercato rifugio in una chiesa di Nairobi a cui la folla, ebbra di
sangue, ha dato fuoco), sia in quella del privato (come nel caso del
diciottenne milanese che, dopo aver tentato di violentare la propria madre,
l'ha uccisa tagliandole la carotide). È dunque necessario che ci domandiamo
se, in questa oscurità che scende come una eclisse di Sole in pieno giorno,
vi sia ancora posto per la dimensione della speranza.
Ma che cos'è, esattamente, la speranza?
È solo il pio desiderio di un bene che si vorrebbe conseguire, il bisogno
disperato e irragionevole di una salvezza improbabile, che tutte le
circostanze sembrerebbero smentire?
O è l'attesa inerte, passiva di un bene che non abbiamo né la forza, né la
volontà di perseguire da soli e che un miracolo, forse, potrebbe offrirci a
portata di mano?
Insomma: la speranza è l'ultimo rifugio dei disperati o è una virtù virile,
fatta di coraggio e di realismo, per cui si è certi, anche quando la neve ha
coperto tutte le impronte in un paesaggio invernale livido e spettrale, che
tornerà la primavera, fiorirà tutta la campagna e a noi, o a chi verrà
dietro di noi, sarà possibile ritrovare la giusta direzione?
Una cosa, per noi, è certa: sperare non vuol dire fantasticare, non vuol
dire illudersi e sognare compensi inesistenti. La speranza non è una virtù
delle persone deboli e sfiduciate, ma delle persone forti, anche nei momenti
di scoraggiamento.
Ma andiamo con ordine e cominciamo dall'etimologia della parola.
"Speranza" viene dal tardo latino sperantia ed è, più o meno, la traduzione
del vocabolo greco ?????.
La teologia distingue due generi di speranza, quella naturale e quella
soprannaturale, che viene dalla Grazia divina.
Scrive Pietro Palazzini alla voce Speranza della Enciclopedia Cattolica
(edizione 1953, vol. XI, col. 1.110-1.111):
"Il significato primigenio del termine ????? è desiderio; sperare è tendere
verso un oggetto che ci appare come un bene. La speranza, considerata nel
piano naturale, è il desiderio di un bene futuro, arduo ma possibile (Summa
Theologiae, 1a-2ae, q. 40, a. 2). Suoi elementi essenziali sono il desiderio
e la fiducia. È la tensione di chi non è ancora tutto quello che deve
essere, ma ha coscienza insieme della sua imperfezione e della sua
perfettibilità.
"la speranza cristiana presenta la medesima struttura; ma la tensione supera
la nativa capacità dell'uomo, spingendosi fino al possesso eterno di Dio.
Per questo è essenzialmente un suo dono. Infusa nell'anima del battezzato
come qualità permanente, insieme con la virtù della fede, la speranza è,
sotto il soffio della Grazia attuale, il principio di quella santa
inquietudine, che stimola l'uomo, oltre la sua debolezza e le sue colpe, a
superarsi continuamente fino a raggiungere il fine supremo."
I filosofi del Novecento si sono appassionatamente confrontati intorno al
binomio speranza-disperazione, mano a mano che le ombre della modernità
(prima fra tutte, l'ombra del fungo atomico) si allungavano inquietanti
sulle prospettive del nostro presente e del nostro domani. Né qui ci
dilungheremo a esaminare dettagliatamente il principio disperazione di
Günther Anders, il principio speranza di Ernst Bloch e il principio di
responsabilità di Hans Jonas, perché non vogliamo fare dell'ermeneutica per
specialisti, ma una riflessione piana e accessibile a tutti gli uomini di
buona volontà.
In particolare, vogliamo domandarci se sia possibile fondare un principio
della speranza al di fuori delle sabbie mobili del sentimento (o,
addirittura, del sentimentalismo), recuperando sotto i piedi il solido
terreno della ragione, come si dice, oggettiva.
La cosa, infatti, è terribilmente seria: viviamo in un'epoca oscura e la
Nemesi della civiltà moderna, con gli spettri paurosi dell'angoscia
disperante e dell'autodistruzione, sembra ormai dietro l'angolo. Abbiamo
quindi non solo il diritto, ma anche il dovere di interrogarci se sia
possibile nutrire un ragionevole principio di speranza, senza il quale non
resta che il lasciarsi vivere all'insegna della casualità.
Anche il fatto di mettere al mondo dei figli, oggi, è diventata una
questione tremendamente impegnativa: sia per le difficoltà legate al
crescerli e proteggerli, che fino a un paio di generazioni fa non erano
neppur paragonabili a quelle odierne (eccezion fatta per eventi storici
circoscritti, come le guerre del passato), sia per le loro stesse
prospettive di sopravvivenza e di legittima ricerca della felicità in un
mondo sempre più compromesso, a cominciare dai fondamentali equilibri
ecologici.
Ebbene, vogliamo dire subito che nutrire in cuore la speranza, nel senso più
ampio e trascendente della parola, non è, per noi, una irresponsabile
evasione nel Limbo di un sentimento puramente soggettivo, bensì un atto
razionale dell'intelligenza, della volontà e dell'essenza più profonda della
nostra anima. Non si tratta di "ottimismo", più o meno a buon mercato,
perché "ottimismo" e "pessimismo" nascono solo da una coloritura emozionale
che noi diamo alla realtà; bensì di una salda convinzione basata sul
ragionamento e sull'esperienza e sorretta da argomentazioni di ordine
logico, oltre che spirituale.
E la prima di tali argomentazioni, che comprende tutte le altre e di cui
tutte le altre non sono che un ulteriore sviluppo, è questa: esiste qualcosa
invece del nulla, dunque - al di là dei fenomeni contingenti e accidentali -
esiste l'Essere che ha originato questo qualcosa.
Perché, invece del nulla, esiste qualcosa? Noi siamo parte di questo
qualcosa; e questo qualcosa è pieno di imperfezioni che ci fanno soffrire,
che mettono a dura prova la nostra fede nella bontà del mondo. Tuttavia, non
possiamo dubitare che qualcosa esista: perfino se il mondo intero non fosse
che un sogno - e forse lo è, dice l'Induismo: un sogno cosmico di Dio -,
perfino allora qualcosa esisterebbe: il sogno stesso, di cui siamo parte; il
nostro sognare (e sia pure il nostro credere di sognare).
Ma c'è di più.
Noi - lo abbiamo detto - soffriamo per l'imperfezione delle cose e di noi
stessi; ci sentiamo divisi e lacerati nella nostra essenza profonda,
aspiriamo al bene e, tuttavia, compiamo continuamente il male.
Che cosa significa tutto questo, se non che il bene esiste, anche se
continuamente umiliato e negato; e che esso, non il male, è la realtà
fondamentale dell'esistente, il costante punto di riferimento della nostra
coscienza? Potremmo avvertire questa amara consapevolezza del male e, al
tempo stesso, questa bruciante nostalgia del bene, se così non fosse? Se il
Male fosse il principio dell'esistente, da dove ci verrebbero questa
amarezza e questa nostalgia?
E nemmeno è possibile che l'Essere sia il male, perché il male dà solo male,
cioè negazione e privazione di esistenza; e dalla negazione nulla può avere
origine, ma solo fine. Se l'Essere fosse il male, non sarebbe più l'Essere,
ma il non-essere. E dal non-essere nulla può originarsi, nulla può prendere
inizio.
Ancora: se l'Essere fosse il male, il mondo sarebbe un assurdo: assurdo
nascere, assurdo vivere, assurdo morire (ed è questa, precisamente, la
posizione di tanti scrittori e filosofi del Novecento, in particolare
dell'area esistenzialista).
Ma, se esiste l'assurdo (e certamente esiste), non può essere però il
fondamento delle cose, il fondamento dell'esistente: dunque non può essere
l'Essere. L'assurdo, per sua stessa natura, non può costituire la base
dell'intera realtà, per il semplice fatto che l'assurdo non è qualche cosa
di positivo, bensì mancanza e privazione (di senso, di logica, di moralità);
e la coscienza che riconosce l'assurdo come tale, riconosce che la
privazione non può essere il fondamento logico delle cose, non può
identificarsi con l'Essere.
Altrimenti, su che cosa poggerebbe l'assurdo? Saremmo costretti a una
regressio ad infinitum, come nella cosmologia mitologica dell'elefante e
della tartaruga. Se l'Universo poggia su un elefante che, a sua volta,
poggia su una tartaruga, su che cosa poggia la tartaruga? E così via, sempre
all'indietro, senza mai una fine.
Questo concetto è bene espresso da Enrico Zoffoli nel suo libro Problema e
mistero del male (Torino, Casa Editrice Marietti, 1960, pp. 41-42):
"Ritenere che la realtà è radicalmente, universalmente e irrimediabilmente
assurda, equivale ad affermare che il male è qualcosa di positivo, per sé
sussistente, anteriore ed autonomo rispetto a tutto il resto che, secondo
l'ipotesi, non sarebbe che vano. Si ricade, così, nell'errore manicheo, che
avendo ipostatizzato il male, lo ha negato e ne ha perduto la più elementare
nozione.
"E, infatti, se alla radice o base ultima delle cose troviamo il male, si
deve anche concedere che questo precede e fonda la realtà delle medesime; ma
noi, così, sfociamo nel nulla, perché un male totale e radicale è totale e
radicale negazione. Ora, il nulla dà il nulla, sul nulla non regge nulla,
neppure la illusione.
"In altri termini, se la contraddizione colpisse la coerenza intima, ossia
negasse l'identità del reale e con se stesso al punto da costituirne l'unico
substrato primo e irriducibile, dovremmo anche supporre che la negazione
dell'essere fonderebbe l'essere.; e negazione dell'essere è infatti il
difetto d'identità dell'essere con se stesso, ossia la contraddizione
immanente nella sua struttura profonda.
"Oppure: il male, se è privazione di bene, è necessariamente posteriore al
medesimo perché condizionato dal bene. Dunque:
"se c'è qualcosa ,ci può essere anche il male; ma se tutto è male, non c'è
niente, perché il male totale è negazione totale.;
"se c'è il male, è segno che c'è anche il bene; e, nel caso, il male non è
solo insieme col bene, ma altresì per il bene, suo esclusivo e ineliminabile
soggetto.;
"la gravità del male non è mai pari e tanto meno maggiore dell'eccellenza
del bene.
"Il primato del bene, dunque, è assoluto e pacifico, come il primato
dell'essere che, essendo identico a se stesso, esclude la contraddizione e
fonda l'essenziale intelligibilità e bontà delle cose.
"Pertanto il pessimismo, che si spinge fino a negare la Provvidenza intesa
come Razionalità pura, affermando l'irrazionalità del Tutto, è
insostenibile: per noi è semplicemente assurdo porre l'assurdità alla base
stessa dell'essere. Per esser logici, dovremmo negar tutto, compresi noi
stessi coi nostri problemi e quanto in qualsiasi senso e misura provoca la
nostra insofferenza. Col pessimista non si può neanche ragionare sul perché
del male. Esagerandolo, egli lo nega.
"Suppongo che Tutto sia realmente, radicalmente, disperatamente assurdo.
Dunque, anche la ragione è tale. Ma, questa, se è assurda, come può
avvertire l'assurdo, parlare di assurdo, respingere l'assurdo?. Se
l'osserva, lo giudica e non intende rassegnarvisi, è segno che almeno essa,
nel suo fondo più riposto ed autentico, è fuori e sopra l'assurdo: la
ragione è vera, coerente, luminosa Che, se non fosse tale, come potremmo
fidarci della fondatezza delle sue proteste e accettare le sue conclusioni?.
Solo il razionale avverte l'irrazionale; solo chi è nella verità, scopre
l'errore. Il quale non può mai conoscere se stesso come errore: chi vi cade,
riconoscendolo, già se ne libera."
Certo vi sono state anche alcune anime grandi, come Giacomo Leopardi
(specialmente nel suo Inno ad Ahrimane), che sono cadute in tale errore;
che, sopraffatte dallo spettacolo del male, hanno finito per concepirlo come
il fondamento della realtà. Ma la contraddizione logica è evidente.
Attenzione: non vogliamo negare che il male esista e che sia anche una
realtà sussistente e personale; lo abbiamo, anzi, ripetutamente sostenuto e
continuiamo a mettere in guardia dal sottovalutarne lo spessore ontologico.
Il Male, cioè, non è solo (come pensava sant'Agostino), assenza di bene;
esso è anche assenza di bene. Ma ha un suo principio autonomo; che,
tuttavia, non è e non può essere - lo abbiamo appena visto - il Principio; e
non può, in alcun modo, costituire l'Essere.
Il Male esiste, ma è subordinato all'Essere, sia logicamente che
ontologicamente. E, di conseguenza, anche eticamente.
Nonostante le apparenze, il Male non ha e non potrebbe avere, in alcun caso,
la stessa forza del Bene. Perché il Bene è l'Essere - l'Essere per cui le
cose esistono, invece del nulla - e il male non è che una delle
manifestazioni dell'esistente. Non è un principio indipendente e sovrano, ma
gode solamente di un certo grado di autonomia.
Perché, non lo sappiamo.
È un grande mistero, che ci ispira - direbbe Kierkegaard, sulla scia di san
Paolo - un reverenziale timore e tremore.
E che ci sgomenta, anche, a volte; ci fa vacillare e sembra sul punto di
disperdere il nostro coraggio e la nostra speranza.
Ma la speranza non può mai morire, perché costituisce la primizia
dell'Essere: ogni ente, giunto all'autocoscienza, ne è pervaso e illuminato.
Perciò, coraggio!
Nulla di quanto accade, per quanto cupo e drammatico ci possa apparire,
giustifica la perdita del principio di speranza, che rischiara il nostro
cammino anche nelle notti più buie e tormentose.
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spesso tra amici si discute su cosa si può fare politicamente per cambiere
le cose e per opporsi al mondialismo.Notando le file sempre più scarse e le
risorse calanti degli oppositori pare che non si possa fare più nulla.Molti
cedono all'indifferenza,altri alla politica del compromesso.
Ma secondo me Guareschi aveva ragione ,nel trafiletto sottoesposto:
http://www.effedieffe.com/interventizeta.php?id=2422¶metro=cultura
Il libro di Gnocchi e Palmaro è dedicato a Giovanni Guareschi ed è
introdotto da un celeberrimo brano tratto da «Don Camillo e don Chichì»,
ove, anche in relazione a un piccolo insignificante episodio, quale quello
capitato a me, emerge la straordinaria profetica grandezza del direttore di
«Candido»: «Signore, cos'è questo vento di pazzia? Non è forse che il
cerchio sta per chiudersi e il mondo corre verso la sua rapida
autodistruzione?».
«Don Camillo, perché tanto pessimismo? Allora il mio sacrificio sarebbe
stato inutile? La mia missione fra gli uomini sarebbe dunque fallita perché
la malvagità degli uomini è più forte della bontà di Dio?»
«No, Signore. Io intendevo soltanto dire che oggi la gente crede soltanto in
ciò che vede e tocca. Ma esistono cose essenziali che non si vedono e non si
toccano: amore, bontà, pietà, onestà, pudore, speranza. E fede. Cose senza
le quali non si può vivere. Questa è l'autodistruzione di cui parlavo. L'uomo,
mi pare, sta distruggendo tutto il suo patrimonio spirituale. L'unica vera
ricchezza che, in migliaia di secoli, aveva accumulato. [.] Signore, se
questo è ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi?».
Il Cristo sorrise.
«Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i
campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo
alveo, la terra riemergerà e il sole l'asciugherà. Se il contadino avrà
salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo
del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno
agli uomini pane, vita e speranza.
«Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede
ancora la fede a mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni
giorno di più; ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla
fede. Ogni giorno di più uomini di molte parole e di nessuna fede
distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri. Uomini d'ogni
razza, d'ogni estrazione, d'ogni cultura».
Nel libro di Gnocchi e Palmaro la citazione si ferma qui.
Ma Guareschi era andato più avanti: «Signore, domandò don Camillo: volete
forse dire che il demonio è diventato tanto astuto che riesce, talvolta, a
travestirsi perfino da prete?».
«Don Camillo!» lo riproverò sorridendo il Cristo.
«Sono appena uscito dai guai del Concilio, vuoi mettermi tu in nuovi guai?».