The King ? Of Spades
2004-02-05 00:30:07 UTC
Oggi sto a casa malato, e riprendo un testo di qualche decina d'anni fa. Il
modo di avvicinarsi al calcio non era poi tanto diverso da adesso, magari
solo un po' più naif.
La disfatta
La lotta a coltello che durava ormai da quasi un anno fu vinta da don
Camillo, il quale riuscì a finire il suo "Ricreatorio popolare" quando alla
"Casa del popolo" di Peppone mancavano ancora tutti i serramenti.
Il Ricreatorio popolare risultò una faccenda molto in gamba:
salone-ritrovo per rappresentazioni, conferenze e mercanzia del genere,
bibliotechina con sala di lettura e scrittura, area coperta per allenamenti
sportivi e giochi invernali. Inoltre una magnifica distesa cintata
contenente campo ginnico, pista, piscina, giardino per l'infanzia con
giostra, altalena, eccetera. Roba, per la massima parte ancora allo stato
embrionale, ma in tutte le cose l'importante è cominciare.
Per la festa d'inaugurazione don Camillo aveva preparato un programma in
gamba: canti corali, gare atletiche e partita di calcio. Perché don Camillo
aveva messo assieme una squadra semplicemente formidabile e fu, questo, un
lavoro cui don Camillo dedicò tanta passione che, fatti i conti, alla fine
degli otto mesi di allenamento, le pedate che don Camillo aveva dato da solo
agli undici giocatori risultarono molto più numerose delle pedate che gli
undici giocatori messi assieme erano riusciti a dare a un solo pallone.
Peppone sapeva tutto e masticava amaro, e non poteva sopportare che un
partito il quale rappresentava veramente il popolo, dovesse risultare
secondo nella gara iniziata con don Camillo a favore del popolo. E quando
don Camillo gli aveva fatto sapere che, per dimostrare «la sua simpatia
verso i più ignoranti strati sociali del paese», avrebbe generosamente
concesso alla squadretta di calcio "Dynamos" di misurarsi con la sua
"Gagliarda", Peppone diventò pallido e, fatti chiamare gli undici ragazzi
della squadra sportiva sezionale e appiccicatili sull'attenti contro il
muro, fece loro questo discorso: «Giocherete con la squadra del prete.
Dovete vincere o vi spacco la faccia a tutti! È il partito che lo comanda
per l'onore del popolo vilipeso!».
«Vinceremo!», risposero gli undici che sudavano per la paura.
Quando lo seppe, don Camillo radunò gli uomini della Gagliarda e riferi
in merito.
«Qui non siamo tra gente rozza e selvaggia come nell'ambiente di quelli
là» concluse sorridendo. «E possiamo ragionare da gentiluomini assennati.
Con l'aiuto di Dio gli appiccicheremo sei goal a zero. Io non faccio
minacce: io dico semplicemente che l'onore della parrocchia è nelle vostre
mani. Anzi nei vostri piedi. Ognuno faccia il suo dovere di buon cittadino.
Se poi, naturalmente, c'è qualche barabba che non ce la mette tutta fino
all'ultima goccia, io mica faccio le tragedie di Peppone che spacca le
facce! Io gli polverizzo il sedere a pedate!».
Alla festa dell'inaugurazione c'era tutto il paese. Peppone in testa con
tutta la mercanzia del seguito in fazzoletto rosso sgargiante. In qualità di
«sindaco generico» si compiacque dell'iniziativa e come «rappresentante del
popolo in particolare» affermò serenamente la sua fiducia che l'iniziativa
non sarebbe servita a indegni scopi di propaganda politica come qualche
maligno già sussurrava in giro.
Durante l'esecuzione dei cori, Peppone trovò modo di osservare col
Brusco che, in fondo, anche il canto è uno sport in quanto sviluppa i
polmoni. E il Brusco con signorile pacatezza gli rispose che, secondo lui,
la cosa sarebbe risultata ancora più efficace agli effetti del miglioramento
fisico della gioventù cattolica se i giovinetti avessero accompagnato il
canto con gesti adeguati in modo da sviluppare oltre a quelli dei polmoni,
anche i muscoli delle braccia.
Durante la partita di palla al cesto, Peppone disse con sincera
convinzione che anche il gioco dei cerchietti ha, oltre a un indubbio valore
atletico, una sua finissima grazia e si stupì che in programma non fosse
compresa anche una gara di cerchietti.
Siccome queste osservazioni erano espresse con tale discrezione che si
potevano agevolmente udire fino a settecento metri di distanza, don Camillo
aveva le vene del collo che sembravano due pali di gaggìa. E aspettava
quindi con ansia indescrivibile che arrivasse il momento della partita.
Allora avrebbe parlato lui.
E venne il momento della partita. Maglia bianca con grande "G" nera sul
petto gli undici della Gagliarda. Maglia rossa con falce e martello e stella
intrecciati con una elegante "D" gli undici della Dynamos.
Il popolo se ne infischiò dei simboli e salutò le squadre a modo suo:
«Viva Peppone!» o «Viva don Camillo!».
Peppone e don Camillo si guardarono e con molta dignità si salutarono
chinando leggermente il capo.
Arbitro neutro: l'orologiaio Binella apolitico dalla nascita. Dopo dieci
minuti di gioco il maresciallo dei carabinieri pallido come un morto si
avvicinò a Peppone seguito da due militi parimenti esangui.
«Signor sindaco», balbettò, «crede opportuno che telefoni in città per
avere rinforzi?».
«Lei può chiamare una divisione, se vuole, ma qui sei quei macellai non
la smettono di fare il gioco pesante, nessuno potrà impedire che ci scappi
fuori un mucchio di morti alto fino al terzo piano! Neanche Sua Maestà il Re
lo potrebbe impedire! Ha capito?», urlò Peppone dimenticando, tanto era
l'orgasmo, perfino l'esistenza della Repubblica.
Il maresciallo si volse a don Camillo che era lì a un metro.
«Lei crede che...» balbettò. Ma don Camillo non lo lasciò finire.
«Io» urlò «credo semplicemente che neanche l'intervento americano in
persona potrà impedire che si nuoti nel sangue qui se quei bolscevichi
maledetti non la smettono di rovinarmi gli uomini tirando calci negli
stinchi!».
«Va bene», concluse il maresciallo. E andò a barricarsi coi suoi due
uomini in caserma perché sapeva benissimo che, alla fine di tutte queste
faccende, la gente chiude i festeggiamenti tentando di bruciare la caserma
dei carabinieri.
Il primo goal lo segnò la Gagliarda e si levò un urlo che fece tremare
il campanile. Peppone con la faccia stravolta si volse verso don Camillo
stringendo i pugni per buttarglisi addosso. Don Camillo rispose mettendosi
in guardia. Mancava un millimetro al cozzo, ma don Camillo vide con la coda
dell'occhio che la gente s'era improvvisamente immobilizzata e tutti gli
occhi erano fissi su di lui e su Peppone.
«Se ci picchiamo noi, qui succede la battaglia di Maclodio» disse a
denti stretti don Camillo.
«Va bene: lo faccio per il popolo», rispose Peppone ricomponendosi.
«E io per la cristianità», disse don Camillo.
Non accadde niente. Però Peppone, finito dopo pochi istanti il primo
tempo, radunò la Dynamos.
«Fascisti!», disse con voce piena di disgusto.
Poi afferrò per il collo lo Smilzo, il centrattacco.
«Tu, sporco traditore, ricordati che quando eravamo in montagna io ti ho
salvato la pelle tre volte. Se entro i primi cinque minuti non segni, questa
volta te la faccio, la pelle!».
Lo Smilzo, iniziato il secondo tempo e avuta la palla, parti.
Lavorò con la testa, coi piedi, con le ginocchia, col sedere: diede
perfino una morsicata al pallone, sputò un polmone, si spaccò la milza, ma
al quarto minuto spediva il pallone in porta.
Poi si buttò per terra e non si mosse più. Don Camillo andò a mettersi
dalla parte opposta del campo per non compromettersi.
Il portiere della Gagliarda aveva la febbre per la paura.
I rossi si chiusero nella difensiva e non ci fu verso di rompere il
cerchio. Trenta secondi prima della fine, l'arbitro fischiò un fallo. Rigore
contro la Gagliarda.
Il pallone partì. Non l'avrebbe parato neppure Zamora un angolo simile.
Goal.
Ormai la partita era finita: l'unico compito degli uomini di Peppone era
quello di recuperare i giocatori e riportarli in sede. L'arbitro era
apolitico: si arrangiasse.
Don Camillo non capiva più niente. Corse in chiesa e andò a
inginocchiarsi davanti all'altare.
«Signore», disse, «perché non mi ha aiutato? Ho perso».
«E perché dovevo aiutare te e non gli altri? Ventidue gambe quelle dei
tuoi uomini, ventidue quelle degli altri: don Camillo, tutte le gambe sono
uguali. Io non posso occuparmi di affari di gambe. Io mi occupo di anime. Da
mihi animas, caetera tolle. Io i corpi li lascio alla terra. Don Camillo,
non riesci dunque a ritrovare il tuo cervello?».
«Faccio fatica, ma lo ritrovo», rispose don Camillo. «Non pretendevo che
voi amministraste personalmente le gambe dei miei. Tanto più che son
migliori di quelle degli altri. Dico che non avete impedito che la disonestà
di un uomo incolpasse i miei uomini di un fallo non commesso».
«Sbaglia il prete nel dir messa, don Camillo: perché non ammetti che
altri possa sbagliare pur senza essere in mala fede?».
«Si può ammettere che uno sbagli in tutti i campi. Ma non quando si
tratta di arbitraggio sportivo! Quando c'è di mezzo un pallone...».
«Anche don Camillo ragiona, non peggio di Peppone, ma addirittura peggio
di Fulmine che non ragiona per niente», continuò il Cristo.
«Anche questo è vero», ammise don Camillo. «Però Binella è un
farabutto».
Non poté continuare perché udì avvicinarsi un vocìo tremendo e, di lì a
poco, entrò un uomo, disfatto, ansimante, col terrore sul viso.
«Vogliono ammazzarmi», singhiozzò. «Salvatemi!».
La folla era davanti alla porta e stava per entrare. Don Camillo
abbrancò un candelabro di mezzo quintale e lo brandì minaccioso.
«In nome di Dio», gridò, «indietro o vi spacco la testa! Ricordatevi che
chi entra qui è sacro e intoccabile!».
La gente ristette.
«Vergognati, mandria scatenata! Torna alla tua stalla a pregare Dio che
ti perdoni la tua bestialità!».
La gente abbassò il capo confusa e silenziosa e fece per andarsene.
«Segnatevi!» ordinò don Camillo. E col candelabro brandito nella mano
ciclopica, alto come una montagna, pareva Sansone.
Tutti si segnarono.
«Fra voi e l'oggetto del vostro odio bestiale sta la croce che ognuno di
voi ha tracciato con la sua mano. Chi cerca di violare questa sacra barriera
è un sacrilego. Vade retro!».
Rientrò e diede il catenaccio alla porta: ma non ce n'era bisogno.
L'uomo era accasciato su una panca e ansimava ancora.
«Grazie, don Camillo», sussurrò.
Don Camillo non rispose.
Camminò un poco in su e in giù, poi si fermò davanti all'uomo.
«Binella!» disse fremendo don Camillo. «Binella: qui davanti a me e a
Dio non puoi mentire! Il fallo non c'era! Quanto ti ha dato quel mascalzone
di Peppone per farti fischiare un fallo in caso di partita pari?».
«Duemilacinquecento lire».
«Mmmm!» muggì don Camillo mettendogli i pugni sotto il naso.
«Ma...» gemette Binella.
«Via!» urlò don Camillo indicandogli la porta.
Rimasto solo, don Camillo si rivolse al Cristo.
«Ve l'avevo detto io che quello è un venduto maledetto? Ho o non ho
ragione di arrabbiarmi?».
«No, don Camillo», rispose il Cristo. «La colpa è tua che, per lo stesso
servizio, hai offerto a Binella duemila lire. Quando Peppone gliene ha
offerte cinquecento di più, egli ha accettato la proposta di Peppone».
Don Camillo allargò le braccia.
«Gesù», disse, «ma allora, se noi ragioniamo così, va a finire che il
colpevole sono io!».
«Proprio così, don Camillo. Proponendogli tu, sacerdote, per primo
l'affare, egli ha stimato che fosse un affare lecito e allora, affare lecito
per affare lecito, si prende quello che frutta di più».
Don Camillo abbassò il capo.
«Vorreste dire che se quel disgraziato adesso prendeva un sacco di botte
dai miei, la colpa sarebbe stata mia?».
«In un certo senso sì, perché sei stato tu il primo a indurre l'uomo in
tentazione. Però la colpa tua sarebbe stata maggiore se, accettando la tua
offerta, Binella avesse concesso il fallo a favore dei tuoi. Perché allora
lo avrebbero picchiato i rossi. E quelli non avresti potuto fermarli».
Don Camillo ci pensò sopra un poco.
«In conclusione», disse, «è meglio che abbiano vinto gli altri».
«Proprio così, don Camillo».
«Gesù, allora vi ringrazio di avermi fatto perdere. E se vi dico che
accetto serenamente la sconfitta come punizione della mia disonestà, dovete
credere che son pentito davvero. Perché a non arrabbiarsi vedendo perdere
una squadra così, una squadra che, non faccio per vantarmi, potrebbe giocare
in divisione B, una squadra che di Dynamos se ne mangia duemila, credete, è
una cosa che spacca il cuore e grida vendetta a Dio!».
«Don Camillo!», ammonì sorridendo il Cristo.
«Non potete capirmi» sospirò don Camillo. «Lo sport è una faccenda tutta
speciale. Chi c'è dentro c'è dentro e chi non c'è dentro non c'è dentro.
Rendo l'idea?».
«Fin troppo, povero don Camillo. Ti capisco tanto che... Be': quando
farete la rivincita?».
Don Camillo balzò in piedi col cuore pieno di gioia.
«Sei a zero!» gridò. «Sei, a palla da schioppo che non li vedranno
neanche passare! Quant'è vero che centro quel confessionale!».
Buttò in aria il cappello e con un calcio l'agguantò al volo e lo
fulminò dentro la finestrina del confessionale.
«Goal!», disse il Cristo sorridendo.
da «Il piccolo mondo di Don Camillo», Giovanni Guareschi, 1949.
Alla prossima Sergio
--
http://www.amnesty.it
Tessera n. 503584 di Amnesty International
e-mail: ***@email.it
modo di avvicinarsi al calcio non era poi tanto diverso da adesso, magari
solo un po' più naif.
La disfatta
La lotta a coltello che durava ormai da quasi un anno fu vinta da don
Camillo, il quale riuscì a finire il suo "Ricreatorio popolare" quando alla
"Casa del popolo" di Peppone mancavano ancora tutti i serramenti.
Il Ricreatorio popolare risultò una faccenda molto in gamba:
salone-ritrovo per rappresentazioni, conferenze e mercanzia del genere,
bibliotechina con sala di lettura e scrittura, area coperta per allenamenti
sportivi e giochi invernali. Inoltre una magnifica distesa cintata
contenente campo ginnico, pista, piscina, giardino per l'infanzia con
giostra, altalena, eccetera. Roba, per la massima parte ancora allo stato
embrionale, ma in tutte le cose l'importante è cominciare.
Per la festa d'inaugurazione don Camillo aveva preparato un programma in
gamba: canti corali, gare atletiche e partita di calcio. Perché don Camillo
aveva messo assieme una squadra semplicemente formidabile e fu, questo, un
lavoro cui don Camillo dedicò tanta passione che, fatti i conti, alla fine
degli otto mesi di allenamento, le pedate che don Camillo aveva dato da solo
agli undici giocatori risultarono molto più numerose delle pedate che gli
undici giocatori messi assieme erano riusciti a dare a un solo pallone.
Peppone sapeva tutto e masticava amaro, e non poteva sopportare che un
partito il quale rappresentava veramente il popolo, dovesse risultare
secondo nella gara iniziata con don Camillo a favore del popolo. E quando
don Camillo gli aveva fatto sapere che, per dimostrare «la sua simpatia
verso i più ignoranti strati sociali del paese», avrebbe generosamente
concesso alla squadretta di calcio "Dynamos" di misurarsi con la sua
"Gagliarda", Peppone diventò pallido e, fatti chiamare gli undici ragazzi
della squadra sportiva sezionale e appiccicatili sull'attenti contro il
muro, fece loro questo discorso: «Giocherete con la squadra del prete.
Dovete vincere o vi spacco la faccia a tutti! È il partito che lo comanda
per l'onore del popolo vilipeso!».
«Vinceremo!», risposero gli undici che sudavano per la paura.
Quando lo seppe, don Camillo radunò gli uomini della Gagliarda e riferi
in merito.
«Qui non siamo tra gente rozza e selvaggia come nell'ambiente di quelli
là» concluse sorridendo. «E possiamo ragionare da gentiluomini assennati.
Con l'aiuto di Dio gli appiccicheremo sei goal a zero. Io non faccio
minacce: io dico semplicemente che l'onore della parrocchia è nelle vostre
mani. Anzi nei vostri piedi. Ognuno faccia il suo dovere di buon cittadino.
Se poi, naturalmente, c'è qualche barabba che non ce la mette tutta fino
all'ultima goccia, io mica faccio le tragedie di Peppone che spacca le
facce! Io gli polverizzo il sedere a pedate!».
Alla festa dell'inaugurazione c'era tutto il paese. Peppone in testa con
tutta la mercanzia del seguito in fazzoletto rosso sgargiante. In qualità di
«sindaco generico» si compiacque dell'iniziativa e come «rappresentante del
popolo in particolare» affermò serenamente la sua fiducia che l'iniziativa
non sarebbe servita a indegni scopi di propaganda politica come qualche
maligno già sussurrava in giro.
Durante l'esecuzione dei cori, Peppone trovò modo di osservare col
Brusco che, in fondo, anche il canto è uno sport in quanto sviluppa i
polmoni. E il Brusco con signorile pacatezza gli rispose che, secondo lui,
la cosa sarebbe risultata ancora più efficace agli effetti del miglioramento
fisico della gioventù cattolica se i giovinetti avessero accompagnato il
canto con gesti adeguati in modo da sviluppare oltre a quelli dei polmoni,
anche i muscoli delle braccia.
Durante la partita di palla al cesto, Peppone disse con sincera
convinzione che anche il gioco dei cerchietti ha, oltre a un indubbio valore
atletico, una sua finissima grazia e si stupì che in programma non fosse
compresa anche una gara di cerchietti.
Siccome queste osservazioni erano espresse con tale discrezione che si
potevano agevolmente udire fino a settecento metri di distanza, don Camillo
aveva le vene del collo che sembravano due pali di gaggìa. E aspettava
quindi con ansia indescrivibile che arrivasse il momento della partita.
Allora avrebbe parlato lui.
E venne il momento della partita. Maglia bianca con grande "G" nera sul
petto gli undici della Gagliarda. Maglia rossa con falce e martello e stella
intrecciati con una elegante "D" gli undici della Dynamos.
Il popolo se ne infischiò dei simboli e salutò le squadre a modo suo:
«Viva Peppone!» o «Viva don Camillo!».
Peppone e don Camillo si guardarono e con molta dignità si salutarono
chinando leggermente il capo.
Arbitro neutro: l'orologiaio Binella apolitico dalla nascita. Dopo dieci
minuti di gioco il maresciallo dei carabinieri pallido come un morto si
avvicinò a Peppone seguito da due militi parimenti esangui.
«Signor sindaco», balbettò, «crede opportuno che telefoni in città per
avere rinforzi?».
«Lei può chiamare una divisione, se vuole, ma qui sei quei macellai non
la smettono di fare il gioco pesante, nessuno potrà impedire che ci scappi
fuori un mucchio di morti alto fino al terzo piano! Neanche Sua Maestà il Re
lo potrebbe impedire! Ha capito?», urlò Peppone dimenticando, tanto era
l'orgasmo, perfino l'esistenza della Repubblica.
Il maresciallo si volse a don Camillo che era lì a un metro.
«Lei crede che...» balbettò. Ma don Camillo non lo lasciò finire.
«Io» urlò «credo semplicemente che neanche l'intervento americano in
persona potrà impedire che si nuoti nel sangue qui se quei bolscevichi
maledetti non la smettono di rovinarmi gli uomini tirando calci negli
stinchi!».
«Va bene», concluse il maresciallo. E andò a barricarsi coi suoi due
uomini in caserma perché sapeva benissimo che, alla fine di tutte queste
faccende, la gente chiude i festeggiamenti tentando di bruciare la caserma
dei carabinieri.
Il primo goal lo segnò la Gagliarda e si levò un urlo che fece tremare
il campanile. Peppone con la faccia stravolta si volse verso don Camillo
stringendo i pugni per buttarglisi addosso. Don Camillo rispose mettendosi
in guardia. Mancava un millimetro al cozzo, ma don Camillo vide con la coda
dell'occhio che la gente s'era improvvisamente immobilizzata e tutti gli
occhi erano fissi su di lui e su Peppone.
«Se ci picchiamo noi, qui succede la battaglia di Maclodio» disse a
denti stretti don Camillo.
«Va bene: lo faccio per il popolo», rispose Peppone ricomponendosi.
«E io per la cristianità», disse don Camillo.
Non accadde niente. Però Peppone, finito dopo pochi istanti il primo
tempo, radunò la Dynamos.
«Fascisti!», disse con voce piena di disgusto.
Poi afferrò per il collo lo Smilzo, il centrattacco.
«Tu, sporco traditore, ricordati che quando eravamo in montagna io ti ho
salvato la pelle tre volte. Se entro i primi cinque minuti non segni, questa
volta te la faccio, la pelle!».
Lo Smilzo, iniziato il secondo tempo e avuta la palla, parti.
Lavorò con la testa, coi piedi, con le ginocchia, col sedere: diede
perfino una morsicata al pallone, sputò un polmone, si spaccò la milza, ma
al quarto minuto spediva il pallone in porta.
Poi si buttò per terra e non si mosse più. Don Camillo andò a mettersi
dalla parte opposta del campo per non compromettersi.
Il portiere della Gagliarda aveva la febbre per la paura.
I rossi si chiusero nella difensiva e non ci fu verso di rompere il
cerchio. Trenta secondi prima della fine, l'arbitro fischiò un fallo. Rigore
contro la Gagliarda.
Il pallone partì. Non l'avrebbe parato neppure Zamora un angolo simile.
Goal.
Ormai la partita era finita: l'unico compito degli uomini di Peppone era
quello di recuperare i giocatori e riportarli in sede. L'arbitro era
apolitico: si arrangiasse.
Don Camillo non capiva più niente. Corse in chiesa e andò a
inginocchiarsi davanti all'altare.
«Signore», disse, «perché non mi ha aiutato? Ho perso».
«E perché dovevo aiutare te e non gli altri? Ventidue gambe quelle dei
tuoi uomini, ventidue quelle degli altri: don Camillo, tutte le gambe sono
uguali. Io non posso occuparmi di affari di gambe. Io mi occupo di anime. Da
mihi animas, caetera tolle. Io i corpi li lascio alla terra. Don Camillo,
non riesci dunque a ritrovare il tuo cervello?».
«Faccio fatica, ma lo ritrovo», rispose don Camillo. «Non pretendevo che
voi amministraste personalmente le gambe dei miei. Tanto più che son
migliori di quelle degli altri. Dico che non avete impedito che la disonestà
di un uomo incolpasse i miei uomini di un fallo non commesso».
«Sbaglia il prete nel dir messa, don Camillo: perché non ammetti che
altri possa sbagliare pur senza essere in mala fede?».
«Si può ammettere che uno sbagli in tutti i campi. Ma non quando si
tratta di arbitraggio sportivo! Quando c'è di mezzo un pallone...».
«Anche don Camillo ragiona, non peggio di Peppone, ma addirittura peggio
di Fulmine che non ragiona per niente», continuò il Cristo.
«Anche questo è vero», ammise don Camillo. «Però Binella è un
farabutto».
Non poté continuare perché udì avvicinarsi un vocìo tremendo e, di lì a
poco, entrò un uomo, disfatto, ansimante, col terrore sul viso.
«Vogliono ammazzarmi», singhiozzò. «Salvatemi!».
La folla era davanti alla porta e stava per entrare. Don Camillo
abbrancò un candelabro di mezzo quintale e lo brandì minaccioso.
«In nome di Dio», gridò, «indietro o vi spacco la testa! Ricordatevi che
chi entra qui è sacro e intoccabile!».
La gente ristette.
«Vergognati, mandria scatenata! Torna alla tua stalla a pregare Dio che
ti perdoni la tua bestialità!».
La gente abbassò il capo confusa e silenziosa e fece per andarsene.
«Segnatevi!» ordinò don Camillo. E col candelabro brandito nella mano
ciclopica, alto come una montagna, pareva Sansone.
Tutti si segnarono.
«Fra voi e l'oggetto del vostro odio bestiale sta la croce che ognuno di
voi ha tracciato con la sua mano. Chi cerca di violare questa sacra barriera
è un sacrilego. Vade retro!».
Rientrò e diede il catenaccio alla porta: ma non ce n'era bisogno.
L'uomo era accasciato su una panca e ansimava ancora.
«Grazie, don Camillo», sussurrò.
Don Camillo non rispose.
Camminò un poco in su e in giù, poi si fermò davanti all'uomo.
«Binella!» disse fremendo don Camillo. «Binella: qui davanti a me e a
Dio non puoi mentire! Il fallo non c'era! Quanto ti ha dato quel mascalzone
di Peppone per farti fischiare un fallo in caso di partita pari?».
«Duemilacinquecento lire».
«Mmmm!» muggì don Camillo mettendogli i pugni sotto il naso.
«Ma...» gemette Binella.
«Via!» urlò don Camillo indicandogli la porta.
Rimasto solo, don Camillo si rivolse al Cristo.
«Ve l'avevo detto io che quello è un venduto maledetto? Ho o non ho
ragione di arrabbiarmi?».
«No, don Camillo», rispose il Cristo. «La colpa è tua che, per lo stesso
servizio, hai offerto a Binella duemila lire. Quando Peppone gliene ha
offerte cinquecento di più, egli ha accettato la proposta di Peppone».
Don Camillo allargò le braccia.
«Gesù», disse, «ma allora, se noi ragioniamo così, va a finire che il
colpevole sono io!».
«Proprio così, don Camillo. Proponendogli tu, sacerdote, per primo
l'affare, egli ha stimato che fosse un affare lecito e allora, affare lecito
per affare lecito, si prende quello che frutta di più».
Don Camillo abbassò il capo.
«Vorreste dire che se quel disgraziato adesso prendeva un sacco di botte
dai miei, la colpa sarebbe stata mia?».
«In un certo senso sì, perché sei stato tu il primo a indurre l'uomo in
tentazione. Però la colpa tua sarebbe stata maggiore se, accettando la tua
offerta, Binella avesse concesso il fallo a favore dei tuoi. Perché allora
lo avrebbero picchiato i rossi. E quelli non avresti potuto fermarli».
Don Camillo ci pensò sopra un poco.
«In conclusione», disse, «è meglio che abbiano vinto gli altri».
«Proprio così, don Camillo».
«Gesù, allora vi ringrazio di avermi fatto perdere. E se vi dico che
accetto serenamente la sconfitta come punizione della mia disonestà, dovete
credere che son pentito davvero. Perché a non arrabbiarsi vedendo perdere
una squadra così, una squadra che, non faccio per vantarmi, potrebbe giocare
in divisione B, una squadra che di Dynamos se ne mangia duemila, credete, è
una cosa che spacca il cuore e grida vendetta a Dio!».
«Don Camillo!», ammonì sorridendo il Cristo.
«Non potete capirmi» sospirò don Camillo. «Lo sport è una faccenda tutta
speciale. Chi c'è dentro c'è dentro e chi non c'è dentro non c'è dentro.
Rendo l'idea?».
«Fin troppo, povero don Camillo. Ti capisco tanto che... Be': quando
farete la rivincita?».
Don Camillo balzò in piedi col cuore pieno di gioia.
«Sei a zero!» gridò. «Sei, a palla da schioppo che non li vedranno
neanche passare! Quant'è vero che centro quel confessionale!».
Buttò in aria il cappello e con un calcio l'agguantò al volo e lo
fulminò dentro la finestrina del confessionale.
«Goal!», disse il Cristo sorridendo.
da «Il piccolo mondo di Don Camillo», Giovanni Guareschi, 1949.
Alla prossima Sergio
--
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Tessera n. 503584 di Amnesty International
e-mail: ***@email.it