Artamano
2008-07-01 21:50:06 UTC
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Savitri Devi Mukerji
PAOLO DI TARSO
O DEL CRISTIANESIMO GIUDAICO.
Presentato da Mauro Likar
A Méadi, vicino al Cairo, il 18 giugno 1957, Savitri Devi Mukerji scriveva
una breve, incisiva, e memorabile riflessione su Paolo di Tarso e sul
Cristianesimo Giudaico, che condivido pienamente, e che, quindi, riporto
nella sua integralità.
Se vi e un fatto che non può mancare di colpire ogni persona che studi
seriamente la storia del cristianesimo, questo e l'assenza
press'a poco completa di documenti riguardanti l'uomo di cui la grande
religione internazionale porta il nome, vale a dire Gesù
Cristo. Noi non sappiamo di lui che ciò che ci viene detto nei Vangeli, vale
a dire, praticamente nulla; perché questa raccolta di
testi, cosi prolissi nella loro descrizione di fatti miracolosi che lo
riguardano, non fornisce alcuna informazione sulla sua persona e,
in particolare, sulla sua origine: certo abbiamo, in uno dei quattro Vangeli
canonici, una lunga genealogia relativa a Giuseppe, sposo
della madre di Gesù, e risalente fino ad Adamo! Ma io mi sono sempre chiesta
di che interesse questa prosapia poteva mai essere
per noi, dato che ci viene detto espressamente in altri luoghi che Giuseppe
non ha nulla a che fare con la nascita del Bambino. Uno dei numerosi Vangeli
"apocrifi" - rigettato dalla Chiesa - attribuisce la paternità di Gesù ad un
soldato romano, notevole per il suo coraggio e per questo soprannominato la
Pantera. Questo
Vangelo viene citato da Heckel in uno dei suoi studi sul cristianesimo dei
primi tempi. L'accettazione di questo punto di vista, tuttavia, non
risolverebbe interamente la questione molto importante delle origini del
Cristo, perché non ci viene detto chi fosse sua madre. Uno dei Vangeli
canonici ci dice che essa era
figlia di Joachim e di Anna, allorché Anna aveva passato l'età della
maternità; in altre parole, sarebbe, essa pure, nata
miracolosamente - o sarebbe stata, molto più semplicemente, una bambina
adottata da Anna e Joachim nella loro vecchiaia - il che
non chiarisce affatto le cose.
Ma vi è qualcosa di ben più inquietante. Si sono recentemente scoperti gli
annali di un importante convento della setta degli
Esseni, situato ad appena una trentina di chilometri da Gerusalemme. Questi
annali si riferiscono ad un periodo che si
estende dall'inizio del primo secolo prima di Gesù Cristo alla seconda metà
del primo secolo dopo di lui. Vi si tratta, già
settant'anni prima di lui, di un grande Iniziato o Maestro spirituale - di
un Maestro di Giustizia - di cui si attenderebbe un
giorno il ritorno. Della carriera straordinaria di Gesù, delle sue
innumerevoli guarigioni miracolose,del suo insegnamento durante
tre interi anni in mezzo al popolo della Palestina., del suo ingresso
trionfale in Gerusalemme, così brillantemente descritto dai Vangeli
canonici, del suo processo e della sua crocifissione, accompagnata, secondo
i Vangeli canonici, da avvenimenti allarmanti, come un terremoto,
l'oscurarsi del cielo alle tre del pomeriggio, e dal fatto che il velo del
Tempio si sarebbe lacerato spontaneamente in due) non viene detta una sola
parola nelle pergamene di questi asceti-uomini eminentemente religiosi, che
di tali avvenimenti avrebbero dovuto interessarsi. Sembrerebbe, da queste
"pergamene del Mar Morto", - raccomando a coloro cui ciò interessi, la
lettura dello studio pubblicato da John Allegro in lingua inglese - o che
Gesù non abbia prodotto nessuna impressione sugli spiriti religiosi del suo
tempo, così avidi di saggezza e così ben informati, come sembrano essere
stati gli asceti del monastero in questione, oppure ... che egli non sia,
semplicemente, mai esistito.
Per inquietante che sia, questa conclusione deve venir posta dinnanzi al
pubblico mondiale e, in particolare, dopo le recenti scoperte, dinnanzi al
pubblico
cristiano.
Tuttavia, per ciò che riguarda la Chiesa cristiana, e il Cristianesimo in
quanto fenomeno storico, e il ruolo che esso ha
giocato in Occidente, e nel mondo, la questione dell'esistenza o meno di
Gesù ha molta meno importanza di quanto non sembri.
Perché, anche se Gesù ha vissuto e predicato, non è affatto lui il vero
fondatore del Cristianesimo; quale esso si presenta nel
mondo. Se è veramente vissuto, Gesù è stato un uomo "al di sopra dei Tempi",
il cui regno - come egli stesso ha detto a
Pilato, secondo i Vangeli - "non era di questo mondo". Un uomo la cui intera
attività, tutto l'insegnamento, tendevano a mostrare, a
coloro che erano insoddisfatti di questo mondo, una via spirituale;
attraverso la quale essi potevano sfuggire e trovare, nel
loro paradiso interiore, in questo "Regno di Dio" che è in noi, il Dio "in
spirito e verità", che essi cercavano senza conoscerlo. Se
è vissuto, Gesù non si è mai sognato di fondare una organizzazione
Temporale, e mai, soprattutto, una
organizzazione politica e finanziaria; come è ben presto diventata la Chiesa
Cristiana. La politica non lo interessava
affatto. Detestato dai ricchi, egli era un nemico così deciso di ogni
intromissione del danaro, negli affari spirituali, che certi
Cristiani hanno, a torto o a ragione, visto in ciò un argomento che prova
che, contrariamente all'insegnamento di tutte le Chiese
cristiane (salvo quelle che naturalmente negano assolutamente la sua natura
umana, come ad esempio la setta dei Monifisiti), egli
non era affatto di sangue ebraico. Il vero fondatore del Cristianesimo
storico, del Cristianesimo tale e quale noi praticamente lo conosciamo, e
che ha giocato, e ancora recita, un ruolo nella storia dell'Occidente e del
mondo, non è né Gesù, di cui noi non sappiamo nulla, né il suo discepolo
Pietro, di cui
sappiamo che era della Galilea e faceva di mestiere il semplice pescatore;
ma Paolo di Tarso, di cui sappiamo che era Ebreo di sangue, di formazione, e
di cuore, e, ciò che più conta, un Ebreo istruito e "cittadino romano"; come
tanti intellettuali ebrei sono, al giorno d'oggi, cittadini francesi,
tedeschi, russi, o americani.
Il Cristianesimo storico, che non è per nulla un'opera "al di sopra
dei Tempi" ma in tutto un'opera "nei Tempi", è l'opera di Saul,
chiamato Paolo, vale a dire, l'opera di un piccolo ebreo; come
sarebbe stato il Marxismo duemila anni più tardi.
Se esaminiamo la carriera di Paolo di Tarso, vediamo che Saul
era un Ebreo ortodosso e istruito; un Ebreo saturato della
4
coscienza della sua razza, e del ruolo del "popolo eletto" che
questo doveva, secondo quanto promesso di Jahvè, recitare nel
mondo. Egli era allievo di Gamaliel, uno dei teologi i più reputati
del suo tempo, della Scuola dei Farisei; quella che, come
precisano i Vangeli, il Profeta Gesù, che la Chiesa cristiana
avrebbe poi elevato al rango di Dio, aveva più violentemente
combattuta; per il suo orgoglio, la sua ipocrisia, la sua abitudine
di spaccare il capello in quattro, e di far passare la lettera della
legge ebraica prima del suo spirito: prima, almeno, di ciò che si //
lui credeva essere il suo spirito. Non è detto che Saul non abbia
avuto, a riguardo, un'idea diversa dalla sua. Inoltre, Saul - e
questo è molto importante - era un Ebreo colto e cosciente, nato
e allevato fuori dalla Palestina, in una di quelle città dell'Asia
Minore romana, che erano succedute all'Asia Minore ellenistica,
conservandone tutti i caratteri: Tarso; città in cui il greco era
"lingua franca" universale, in cui il latino diventava, via via,
sempre più familiare, e in cui era facile incontrare i
rappresentanti di tutti i popoli del Vicino Oriente. In altri termini,
Saulo era già un Ebreo cosmopolita del "ghetto", che
possedeva, oltre ad una profonda conoscenza della sua tradizione
israelita, una comprensione del mondo dei "Goyyim": dei non
Ebrei; cosa che doveva, più tardi, tornargli molto utile e preziosa.
Egli li conosceva infinitamente meglio della maggior parte di
quegli Ebrei di Palestina, dal cui ambiente erano usciti tutti i
primi fedeli della nuova setta religiosa, della quale, proprio lui,
era destinato a fare il Cristianesimo; tale quale noi ancora lo
vediamo.
È detto negli "Atti degli Apostoli" che egli fu dapprima un
persecutore accanito della nuova setta. Gli aderenti di questa, non
disprezzavano, forse la legge ebraica, nel senso stretto del
termine? L'uomo che essi riconoscevano per loro capo, e che
dicevano resuscitato dalla morte, questo Gesù, che lui, Saulo, non
aveva mai visto, non aveva forse dato l'esempio dell'inosservanza
del Sabbat, della negligenza dei giorni di digiuno, e di altre
trasgressioni assai biasimevoli delle regole di vita, da cui un
Ebreo non deve mai allontanarsi? Si diceva anche che un
mistero, il che non faceva presagire nulla di buono, aleggiava
sulla storia della sua nascita; che egli, forse, non era di origine
ebraica - chi lo sa? Come non perseguitare una simile setta,
quando uno è un Ebreo ortodosso, allievo del celebre Gamaliel?
Bisognava preservare dallo scandalo i più osservatori della
Legge. Saul, che aveva già dato prova di zelo, con la sua
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presenza alla lapidazione di Stefano - uno dei primi predicatori
della pericolosa setta - continuò a difendere la legge e la
tradizione ebraiche, da quelli che egli considerava come degli
eretici; finché non comprese, alla fine, che proprio dal punto di
vista strettamente Ebraico, aveva molto - molto meglio - da
fare. Lo comprese sulla via di Damasco.
L a storia, per come la racconta la Chiesa cristiana, vuole che
colà egli abbia avuto un'improvvisa visione di Gesù - che egli
non aveva, lo ripeto, mai visto "secondo la carne" - e cioè in
carne ed ossa, e che abbia inteso la voce di quest'ultimo dirgli:
"Saul, Saul, perché mi perseguiti?", voce alla quale egli non
poté resistere. Egli sarebbe, inoltre, rimasto accecato da una luce
abbagliante, e si sarebbe sentito gettare a terra. Trasportato a
Damasco - sempre in questo stesso racconto degli "Atti degli
Apostoli" - egli vi avrebbe incontrato uno dei fedeli della setta
che era venuto a combattere, un uomo che, dopo avergli restituito
la vista, gli avrebbe dato il battesimo e l'avrebbe ricevuto nella
comunità cristiana.
È superfluo dire che questo racconto miracoloso non può venire
accettato che da coloro che già condividono la fede cristiana.
Esso non ha, come tutte le favole di questo genere, nessun
possibile valore storico. Chi, senza idee preconcette, cerca una
spiegazione plausibile - verosimilmente naturale - della
maniera in cui le cose sono andate, non può certo
accontentarsene. E la spiegazione, per essere plausibile, deve
rendere conto non solo della trasformazione di Saul in Paolo, -
del difensore accanito del Giudaismo sionistico ortodosso, in
fondatore della Chiesa cristiana, quale noi la conosciamo - ma
anche della natura, del contenuto, e della direzione della sua
attività dopo la sua conversione: della logica interna della sua
carriera; in altri termini, del legame psicologico, più o meno
consapevole, fra il suo passato decisamente anti-cristiano e la sua
grande opera cristiana. Ogni conversione implica sempre un
legame fra il passato del convertito, e il resto della sua vita: una
ragione profonda, vale a dire una sua aspirazione permanente,
che l'atto della conversione soddisfa. Deve esservi una volontà,
una direzione fissa di vita e d'azione, di cui l'atto di conversione è
l'espressione, e lo strumento.
Ora, dato tutto quello che noi sappiamo di lui, e soprattutto del
seguito della sua professione, non vi è che una volontà profonda,
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fondamentale, inseparabile dalla personalità di Saulo di Tarso;
un'ossessione presente in tutti gli stadi della sua vita, che possa
fornire la spiegazione della sua "Via di Damasco". Questa
volontà, è quella di servire il vecchio ideale ebraico: di
dominazione spirituale mondiale, complemento e coronamento di
quello della dominazione economica. Saul, Ebreo ortodosso,
Ebreo cosciente, che aveva combattuto la nuova setta, fintanto
ché essa costituiva un pericolo per l'ortodossia ebraica, non
poteva rinunciare alla propria fede e ortodossia, e diventare
proprio l'anima e il braccio di questa setta, così pericolosa, che
dopo aver compreso che, rimaneggiata da lui, trasformata,
adattata alle esigenze del vasto mondo dei "Goyyim" - dei
"Gentili" degli Evangeli - ; interpretata all'occorrenza in modo
da dare, come più tardi dirà Nietzsche: un "senso nuovo ai
misteri antichi", essa poteva diventare, durante alcuni secoli, se
non per sempre, lo strumento più potente della dominazione
spirituale di Israele: la via attraverso cui si sarebbe realizzata, più
sicuramente e nel modo più definitivo, la "missione" del popolo
ebraico, che era, secondo lui, quella di regnare sugli altri popoli,
e di asservirli moralmente; sfruttandoli anche economicamente. E
più l'asservimento morale fosse stato completo, più lo
sfruttamento economico sarebbe stato, implicitamente, florido.
Solo a questo prezzo, valeva la pena di ripudiare esteriormente il
rigore della sua vecchia, amata, e venerabile Legge. O, per
esprimersi in un linguaggio più triviale e diretto, l'improvvisa
conversione di Saul lungo la Via di Damasco, si spiega, in modo
del tutto naturale, solo se si ammette che egli si sia reso conto, di
colpo, delle possibilità che il Cristianesimo nascente offriva: al
profitto, e alla dominazione morale del suo popolo; gli Ebrei, e
che egli abbia pensato - in un lampo di genio intuitivo, bisogna
ben dirlo - :
"Ho proprio avuto la vista assai corta, perseguitando questa
setta ,invece di servirmene, costi quel che costi! Come sono
stato stolto nell'attaccarmi a delle forme -dei dettagli-invece di
vedere l'essenziale: l'interesse ultimo del popolo di Israele".
L'intera carriera ulteriore di Paolo è una illustrazione, una prova,
nella misura in cui ci si può sognare di "provare" dei fatti di
questa natura, di questa metamorfosi geniale; di questa vittoria
dell'Ebreo intelligente, uomo pratico, e abile diplomatico (e chi
dice "diplomatico" in connessione a questioni religiose, intende
dire ingannevole) sull'Ebreo istruito nell'ortodossia; preoccupato
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soprattutto dei problemi di purezza rituale. Dal giorno della sua
conversione, Paolo, in effetti, si abbandona allo "Spirito", e va là
dove lo "Spirito" gli suggerisce, o piuttosto gli ordina, di andare,
pronunciando, in ogni circostanza, le parole che Esso gli ispira.
Ora, dov'è che lo "Spirito" gli "ordina" di andare? In Palestina
forse? Presso gli Ebrei che condividono ancora gli "errori" che
egli inizia invece pubblicamente ad abiurare, e che
sembrerebbero, quindi, essere i primi ad avere diritto alla sua
nuova rivelazione? Neanche per sogno! Egli se ne guarda bene!
E' in Macedonia, come in Grecia, e fra i Greci dell'Asia Minore,
fra i Galati, e più tardi fra i Romani - in paesi Ariani; in ogni
modo, in paesi non-ebrei - che il neofita se ne va a predicare il
dogma teologico del peccato originale, della salute eterna
attraverso Gesù crocifisso, e il dogma morale dell'uguaglianza ditutti gli
uomini, e di tutti i popoli. È ad Atene che egli proclama
che Dio ha creato "tutte le nazioni, tutti i popoli d'un solo e
medesimo sangue" (Atti degli Apostoli, Capitolo 17, versetto
26). Certo gli Ebrei, per quanto li riguarda, si astraggono da
questa negazione delle differenze naturali fra le razze, ma risulta
utile, dal loro punto di vista, di predicarla e di imporla ai
"Goyyim"; di distruggere, in essi, i valori nazionali che avevano,
fino ad allora, fatto la loro forza. Si tratta, piuttosto, di affrettarne
semplicemente la distruzione; dato che, dal IV secolo prima di
Gesù Cristo, essi si stavano già sfaldando, sotto l'influsso degli
Ebrei "ellenizzati" di Alessandria. Probabilmente Paolo predica
anche "nelle sinagoghe", vale a dire agli Ebrei, ai quali presenta
la nuova dottrina come il compimento delle profezie, e dell'attesa
messianica. Senza dubbio, egli dice, a questi figli del suo popolo,
come a coloro che "temono Dio" - ai mezzi-Ebrei, come
Timoteo, e agli Ebrei per un quarto, che abbondano nei porti del
mar Egeo (come anche a Roma) - che il Cristo crocifisso e
resuscitato, che egli annuncia, non è altro che il Messia
promesso. Egli dà un senso nuovo alle profezie ebraiche, così
come dà un nuovo significato ai misteri immemorabili della
Grecia, dell'Egitto, della Siria, e dell'Asia Minore: un senso che
attribuisce un ruolo unico, un posto unico, un'importanza unica al
popolo ebraico, nella religione dei non-Ebrei. Non vi è, per lui,
che questo mezzo, che sia in grado di assicurare, al suo popolo, la
dominazione spirituale dell'avvenire. Il suo genio - non religioso,
ma politico - consiste proprio nell'averlo compreso.
Ma non è sul solo piano della dottrina, che egli può dimostrarsi di
una flessibilità sconcertante: "Greco con i Greci, ed Ebreo con
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gli Ebrei", come afferma lui stesso. Egli ha il senso delle
necessità - e delle impossibilità - pratiche. E' lui, prima così
ortodosso, il primo ad opporsi ad ogni imposizione della legge
ebraica ai convertiti cristiani; di razza non ebraica. Insiste, contro
Pietro, e il gruppo meno conciliante dei primi Cristiani di
Gerusalemme, sul fatto che un cristiano di origine non ebraica,
non ha assolutamente bisogno della circoncisione; né delle regole
ebraiche riguardanti la nutrizione. Scrive ai suoi nuovi fedeli:
mezzi-Ebrei, mezzi-Greci, Romani di dubbia origine, Levantini
di tutti i porti del Mediterraneo; a tutta questa gente senza razza,
di cui egli vuol fare l'intermediario virale fra il suo popolo,
immutabile entro la propria tradizione mosaica, e il vasto mondo
da conquistare -che non esistono affatto, per essi, delle distinzioni
fra ciò che è "puro" e ciò che è "impuro"; che è loro permesso di
mangiare qualsiasi cosa ("Tutto ciò che si trova sul mercato").
Egli sa che senza queste concessioni, il Cristianesimo non può
sperare di conquistare l'Occidente; né Israele potrà sperare di
conquistare il mondo: per mezzo dell'Occidente convertito.
Pietro, che non era affatto un ebreo da "ghetto", non conosceva
ancora nulla delle condizioni del mondo non-ebraico, e non
vedeva affatto le cose dallo stesso punto di vista, non ancora, in
ogni caso. È per questo che bisogna vedere in Paolo il vero
fondatore del Cristianesimo storico: l'uomo che ha fatto,
dell'insegnamento puramente spirituale del profeta Gesù, la base
di un'organizzazione militante nei Tempi; il cui scopo non era,
nella coscienza profonda dell'apostolo, che la dominazione dei
suoi pari razziali su un mondo moralmente de-virilizzato, e
fisicamente imbastardito; un mondo in cui l'amore mal compreso
dell'"uomo", conduce direttamente alla mescolanza
indiscriminata delle razze, alla soppressione di ogni fierezza
nazionale, e, in una parola, alla degenerazione.
E' tempo che i Gentili aprano gli occhi a questa realtà di duemila
anni; che essi ne afferrino tutta l'acuta attualità, e che reagiscano
di conseguenza.
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Savitri Devi Mukerji
Méadi - presso Cairo - 18 giugno 1957.
Savitri Devi Mukerji
PAOLO DI TARSO
O DEL CRISTIANESIMO GIUDAICO.
Presentato da Mauro Likar
A Méadi, vicino al Cairo, il 18 giugno 1957, Savitri Devi Mukerji scriveva
una breve, incisiva, e memorabile riflessione su Paolo di Tarso e sul
Cristianesimo Giudaico, che condivido pienamente, e che, quindi, riporto
nella sua integralità.
Se vi e un fatto che non può mancare di colpire ogni persona che studi
seriamente la storia del cristianesimo, questo e l'assenza
press'a poco completa di documenti riguardanti l'uomo di cui la grande
religione internazionale porta il nome, vale a dire Gesù
Cristo. Noi non sappiamo di lui che ciò che ci viene detto nei Vangeli, vale
a dire, praticamente nulla; perché questa raccolta di
testi, cosi prolissi nella loro descrizione di fatti miracolosi che lo
riguardano, non fornisce alcuna informazione sulla sua persona e,
in particolare, sulla sua origine: certo abbiamo, in uno dei quattro Vangeli
canonici, una lunga genealogia relativa a Giuseppe, sposo
della madre di Gesù, e risalente fino ad Adamo! Ma io mi sono sempre chiesta
di che interesse questa prosapia poteva mai essere
per noi, dato che ci viene detto espressamente in altri luoghi che Giuseppe
non ha nulla a che fare con la nascita del Bambino. Uno dei numerosi Vangeli
"apocrifi" - rigettato dalla Chiesa - attribuisce la paternità di Gesù ad un
soldato romano, notevole per il suo coraggio e per questo soprannominato la
Pantera. Questo
Vangelo viene citato da Heckel in uno dei suoi studi sul cristianesimo dei
primi tempi. L'accettazione di questo punto di vista, tuttavia, non
risolverebbe interamente la questione molto importante delle origini del
Cristo, perché non ci viene detto chi fosse sua madre. Uno dei Vangeli
canonici ci dice che essa era
figlia di Joachim e di Anna, allorché Anna aveva passato l'età della
maternità; in altre parole, sarebbe, essa pure, nata
miracolosamente - o sarebbe stata, molto più semplicemente, una bambina
adottata da Anna e Joachim nella loro vecchiaia - il che
non chiarisce affatto le cose.
Ma vi è qualcosa di ben più inquietante. Si sono recentemente scoperti gli
annali di un importante convento della setta degli
Esseni, situato ad appena una trentina di chilometri da Gerusalemme. Questi
annali si riferiscono ad un periodo che si
estende dall'inizio del primo secolo prima di Gesù Cristo alla seconda metà
del primo secolo dopo di lui. Vi si tratta, già
settant'anni prima di lui, di un grande Iniziato o Maestro spirituale - di
un Maestro di Giustizia - di cui si attenderebbe un
giorno il ritorno. Della carriera straordinaria di Gesù, delle sue
innumerevoli guarigioni miracolose,del suo insegnamento durante
tre interi anni in mezzo al popolo della Palestina., del suo ingresso
trionfale in Gerusalemme, così brillantemente descritto dai Vangeli
canonici, del suo processo e della sua crocifissione, accompagnata, secondo
i Vangeli canonici, da avvenimenti allarmanti, come un terremoto,
l'oscurarsi del cielo alle tre del pomeriggio, e dal fatto che il velo del
Tempio si sarebbe lacerato spontaneamente in due) non viene detta una sola
parola nelle pergamene di questi asceti-uomini eminentemente religiosi, che
di tali avvenimenti avrebbero dovuto interessarsi. Sembrerebbe, da queste
"pergamene del Mar Morto", - raccomando a coloro cui ciò interessi, la
lettura dello studio pubblicato da John Allegro in lingua inglese - o che
Gesù non abbia prodotto nessuna impressione sugli spiriti religiosi del suo
tempo, così avidi di saggezza e così ben informati, come sembrano essere
stati gli asceti del monastero in questione, oppure ... che egli non sia,
semplicemente, mai esistito.
Per inquietante che sia, questa conclusione deve venir posta dinnanzi al
pubblico mondiale e, in particolare, dopo le recenti scoperte, dinnanzi al
pubblico
cristiano.
Tuttavia, per ciò che riguarda la Chiesa cristiana, e il Cristianesimo in
quanto fenomeno storico, e il ruolo che esso ha
giocato in Occidente, e nel mondo, la questione dell'esistenza o meno di
Gesù ha molta meno importanza di quanto non sembri.
Perché, anche se Gesù ha vissuto e predicato, non è affatto lui il vero
fondatore del Cristianesimo; quale esso si presenta nel
mondo. Se è veramente vissuto, Gesù è stato un uomo "al di sopra dei Tempi",
il cui regno - come egli stesso ha detto a
Pilato, secondo i Vangeli - "non era di questo mondo". Un uomo la cui intera
attività, tutto l'insegnamento, tendevano a mostrare, a
coloro che erano insoddisfatti di questo mondo, una via spirituale;
attraverso la quale essi potevano sfuggire e trovare, nel
loro paradiso interiore, in questo "Regno di Dio" che è in noi, il Dio "in
spirito e verità", che essi cercavano senza conoscerlo. Se
è vissuto, Gesù non si è mai sognato di fondare una organizzazione
Temporale, e mai, soprattutto, una
organizzazione politica e finanziaria; come è ben presto diventata la Chiesa
Cristiana. La politica non lo interessava
affatto. Detestato dai ricchi, egli era un nemico così deciso di ogni
intromissione del danaro, negli affari spirituali, che certi
Cristiani hanno, a torto o a ragione, visto in ciò un argomento che prova
che, contrariamente all'insegnamento di tutte le Chiese
cristiane (salvo quelle che naturalmente negano assolutamente la sua natura
umana, come ad esempio la setta dei Monifisiti), egli
non era affatto di sangue ebraico. Il vero fondatore del Cristianesimo
storico, del Cristianesimo tale e quale noi praticamente lo conosciamo, e
che ha giocato, e ancora recita, un ruolo nella storia dell'Occidente e del
mondo, non è né Gesù, di cui noi non sappiamo nulla, né il suo discepolo
Pietro, di cui
sappiamo che era della Galilea e faceva di mestiere il semplice pescatore;
ma Paolo di Tarso, di cui sappiamo che era Ebreo di sangue, di formazione, e
di cuore, e, ciò che più conta, un Ebreo istruito e "cittadino romano"; come
tanti intellettuali ebrei sono, al giorno d'oggi, cittadini francesi,
tedeschi, russi, o americani.
Il Cristianesimo storico, che non è per nulla un'opera "al di sopra
dei Tempi" ma in tutto un'opera "nei Tempi", è l'opera di Saul,
chiamato Paolo, vale a dire, l'opera di un piccolo ebreo; come
sarebbe stato il Marxismo duemila anni più tardi.
Se esaminiamo la carriera di Paolo di Tarso, vediamo che Saul
era un Ebreo ortodosso e istruito; un Ebreo saturato della
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coscienza della sua razza, e del ruolo del "popolo eletto" che
questo doveva, secondo quanto promesso di Jahvè, recitare nel
mondo. Egli era allievo di Gamaliel, uno dei teologi i più reputati
del suo tempo, della Scuola dei Farisei; quella che, come
precisano i Vangeli, il Profeta Gesù, che la Chiesa cristiana
avrebbe poi elevato al rango di Dio, aveva più violentemente
combattuta; per il suo orgoglio, la sua ipocrisia, la sua abitudine
di spaccare il capello in quattro, e di far passare la lettera della
legge ebraica prima del suo spirito: prima, almeno, di ciò che si //
lui credeva essere il suo spirito. Non è detto che Saul non abbia
avuto, a riguardo, un'idea diversa dalla sua. Inoltre, Saul - e
questo è molto importante - era un Ebreo colto e cosciente, nato
e allevato fuori dalla Palestina, in una di quelle città dell'Asia
Minore romana, che erano succedute all'Asia Minore ellenistica,
conservandone tutti i caratteri: Tarso; città in cui il greco era
"lingua franca" universale, in cui il latino diventava, via via,
sempre più familiare, e in cui era facile incontrare i
rappresentanti di tutti i popoli del Vicino Oriente. In altri termini,
Saulo era già un Ebreo cosmopolita del "ghetto", che
possedeva, oltre ad una profonda conoscenza della sua tradizione
israelita, una comprensione del mondo dei "Goyyim": dei non
Ebrei; cosa che doveva, più tardi, tornargli molto utile e preziosa.
Egli li conosceva infinitamente meglio della maggior parte di
quegli Ebrei di Palestina, dal cui ambiente erano usciti tutti i
primi fedeli della nuova setta religiosa, della quale, proprio lui,
era destinato a fare il Cristianesimo; tale quale noi ancora lo
vediamo.
È detto negli "Atti degli Apostoli" che egli fu dapprima un
persecutore accanito della nuova setta. Gli aderenti di questa, non
disprezzavano, forse la legge ebraica, nel senso stretto del
termine? L'uomo che essi riconoscevano per loro capo, e che
dicevano resuscitato dalla morte, questo Gesù, che lui, Saulo, non
aveva mai visto, non aveva forse dato l'esempio dell'inosservanza
del Sabbat, della negligenza dei giorni di digiuno, e di altre
trasgressioni assai biasimevoli delle regole di vita, da cui un
Ebreo non deve mai allontanarsi? Si diceva anche che un
mistero, il che non faceva presagire nulla di buono, aleggiava
sulla storia della sua nascita; che egli, forse, non era di origine
ebraica - chi lo sa? Come non perseguitare una simile setta,
quando uno è un Ebreo ortodosso, allievo del celebre Gamaliel?
Bisognava preservare dallo scandalo i più osservatori della
Legge. Saul, che aveva già dato prova di zelo, con la sua
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presenza alla lapidazione di Stefano - uno dei primi predicatori
della pericolosa setta - continuò a difendere la legge e la
tradizione ebraiche, da quelli che egli considerava come degli
eretici; finché non comprese, alla fine, che proprio dal punto di
vista strettamente Ebraico, aveva molto - molto meglio - da
fare. Lo comprese sulla via di Damasco.
L a storia, per come la racconta la Chiesa cristiana, vuole che
colà egli abbia avuto un'improvvisa visione di Gesù - che egli
non aveva, lo ripeto, mai visto "secondo la carne" - e cioè in
carne ed ossa, e che abbia inteso la voce di quest'ultimo dirgli:
"Saul, Saul, perché mi perseguiti?", voce alla quale egli non
poté resistere. Egli sarebbe, inoltre, rimasto accecato da una luce
abbagliante, e si sarebbe sentito gettare a terra. Trasportato a
Damasco - sempre in questo stesso racconto degli "Atti degli
Apostoli" - egli vi avrebbe incontrato uno dei fedeli della setta
che era venuto a combattere, un uomo che, dopo avergli restituito
la vista, gli avrebbe dato il battesimo e l'avrebbe ricevuto nella
comunità cristiana.
È superfluo dire che questo racconto miracoloso non può venire
accettato che da coloro che già condividono la fede cristiana.
Esso non ha, come tutte le favole di questo genere, nessun
possibile valore storico. Chi, senza idee preconcette, cerca una
spiegazione plausibile - verosimilmente naturale - della
maniera in cui le cose sono andate, non può certo
accontentarsene. E la spiegazione, per essere plausibile, deve
rendere conto non solo della trasformazione di Saul in Paolo, -
del difensore accanito del Giudaismo sionistico ortodosso, in
fondatore della Chiesa cristiana, quale noi la conosciamo - ma
anche della natura, del contenuto, e della direzione della sua
attività dopo la sua conversione: della logica interna della sua
carriera; in altri termini, del legame psicologico, più o meno
consapevole, fra il suo passato decisamente anti-cristiano e la sua
grande opera cristiana. Ogni conversione implica sempre un
legame fra il passato del convertito, e il resto della sua vita: una
ragione profonda, vale a dire una sua aspirazione permanente,
che l'atto della conversione soddisfa. Deve esservi una volontà,
una direzione fissa di vita e d'azione, di cui l'atto di conversione è
l'espressione, e lo strumento.
Ora, dato tutto quello che noi sappiamo di lui, e soprattutto del
seguito della sua professione, non vi è che una volontà profonda,
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fondamentale, inseparabile dalla personalità di Saulo di Tarso;
un'ossessione presente in tutti gli stadi della sua vita, che possa
fornire la spiegazione della sua "Via di Damasco". Questa
volontà, è quella di servire il vecchio ideale ebraico: di
dominazione spirituale mondiale, complemento e coronamento di
quello della dominazione economica. Saul, Ebreo ortodosso,
Ebreo cosciente, che aveva combattuto la nuova setta, fintanto
ché essa costituiva un pericolo per l'ortodossia ebraica, non
poteva rinunciare alla propria fede e ortodossia, e diventare
proprio l'anima e il braccio di questa setta, così pericolosa, che
dopo aver compreso che, rimaneggiata da lui, trasformata,
adattata alle esigenze del vasto mondo dei "Goyyim" - dei
"Gentili" degli Evangeli - ; interpretata all'occorrenza in modo
da dare, come più tardi dirà Nietzsche: un "senso nuovo ai
misteri antichi", essa poteva diventare, durante alcuni secoli, se
non per sempre, lo strumento più potente della dominazione
spirituale di Israele: la via attraverso cui si sarebbe realizzata, più
sicuramente e nel modo più definitivo, la "missione" del popolo
ebraico, che era, secondo lui, quella di regnare sugli altri popoli,
e di asservirli moralmente; sfruttandoli anche economicamente. E
più l'asservimento morale fosse stato completo, più lo
sfruttamento economico sarebbe stato, implicitamente, florido.
Solo a questo prezzo, valeva la pena di ripudiare esteriormente il
rigore della sua vecchia, amata, e venerabile Legge. O, per
esprimersi in un linguaggio più triviale e diretto, l'improvvisa
conversione di Saul lungo la Via di Damasco, si spiega, in modo
del tutto naturale, solo se si ammette che egli si sia reso conto, di
colpo, delle possibilità che il Cristianesimo nascente offriva: al
profitto, e alla dominazione morale del suo popolo; gli Ebrei, e
che egli abbia pensato - in un lampo di genio intuitivo, bisogna
ben dirlo - :
"Ho proprio avuto la vista assai corta, perseguitando questa
setta ,invece di servirmene, costi quel che costi! Come sono
stato stolto nell'attaccarmi a delle forme -dei dettagli-invece di
vedere l'essenziale: l'interesse ultimo del popolo di Israele".
L'intera carriera ulteriore di Paolo è una illustrazione, una prova,
nella misura in cui ci si può sognare di "provare" dei fatti di
questa natura, di questa metamorfosi geniale; di questa vittoria
dell'Ebreo intelligente, uomo pratico, e abile diplomatico (e chi
dice "diplomatico" in connessione a questioni religiose, intende
dire ingannevole) sull'Ebreo istruito nell'ortodossia; preoccupato
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soprattutto dei problemi di purezza rituale. Dal giorno della sua
conversione, Paolo, in effetti, si abbandona allo "Spirito", e va là
dove lo "Spirito" gli suggerisce, o piuttosto gli ordina, di andare,
pronunciando, in ogni circostanza, le parole che Esso gli ispira.
Ora, dov'è che lo "Spirito" gli "ordina" di andare? In Palestina
forse? Presso gli Ebrei che condividono ancora gli "errori" che
egli inizia invece pubblicamente ad abiurare, e che
sembrerebbero, quindi, essere i primi ad avere diritto alla sua
nuova rivelazione? Neanche per sogno! Egli se ne guarda bene!
E' in Macedonia, come in Grecia, e fra i Greci dell'Asia Minore,
fra i Galati, e più tardi fra i Romani - in paesi Ariani; in ogni
modo, in paesi non-ebrei - che il neofita se ne va a predicare il
dogma teologico del peccato originale, della salute eterna
attraverso Gesù crocifisso, e il dogma morale dell'uguaglianza ditutti gli
uomini, e di tutti i popoli. È ad Atene che egli proclama
che Dio ha creato "tutte le nazioni, tutti i popoli d'un solo e
medesimo sangue" (Atti degli Apostoli, Capitolo 17, versetto
26). Certo gli Ebrei, per quanto li riguarda, si astraggono da
questa negazione delle differenze naturali fra le razze, ma risulta
utile, dal loro punto di vista, di predicarla e di imporla ai
"Goyyim"; di distruggere, in essi, i valori nazionali che avevano,
fino ad allora, fatto la loro forza. Si tratta, piuttosto, di affrettarne
semplicemente la distruzione; dato che, dal IV secolo prima di
Gesù Cristo, essi si stavano già sfaldando, sotto l'influsso degli
Ebrei "ellenizzati" di Alessandria. Probabilmente Paolo predica
anche "nelle sinagoghe", vale a dire agli Ebrei, ai quali presenta
la nuova dottrina come il compimento delle profezie, e dell'attesa
messianica. Senza dubbio, egli dice, a questi figli del suo popolo,
come a coloro che "temono Dio" - ai mezzi-Ebrei, come
Timoteo, e agli Ebrei per un quarto, che abbondano nei porti del
mar Egeo (come anche a Roma) - che il Cristo crocifisso e
resuscitato, che egli annuncia, non è altro che il Messia
promesso. Egli dà un senso nuovo alle profezie ebraiche, così
come dà un nuovo significato ai misteri immemorabili della
Grecia, dell'Egitto, della Siria, e dell'Asia Minore: un senso che
attribuisce un ruolo unico, un posto unico, un'importanza unica al
popolo ebraico, nella religione dei non-Ebrei. Non vi è, per lui,
che questo mezzo, che sia in grado di assicurare, al suo popolo, la
dominazione spirituale dell'avvenire. Il suo genio - non religioso,
ma politico - consiste proprio nell'averlo compreso.
Ma non è sul solo piano della dottrina, che egli può dimostrarsi di
una flessibilità sconcertante: "Greco con i Greci, ed Ebreo con
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gli Ebrei", come afferma lui stesso. Egli ha il senso delle
necessità - e delle impossibilità - pratiche. E' lui, prima così
ortodosso, il primo ad opporsi ad ogni imposizione della legge
ebraica ai convertiti cristiani; di razza non ebraica. Insiste, contro
Pietro, e il gruppo meno conciliante dei primi Cristiani di
Gerusalemme, sul fatto che un cristiano di origine non ebraica,
non ha assolutamente bisogno della circoncisione; né delle regole
ebraiche riguardanti la nutrizione. Scrive ai suoi nuovi fedeli:
mezzi-Ebrei, mezzi-Greci, Romani di dubbia origine, Levantini
di tutti i porti del Mediterraneo; a tutta questa gente senza razza,
di cui egli vuol fare l'intermediario virale fra il suo popolo,
immutabile entro la propria tradizione mosaica, e il vasto mondo
da conquistare -che non esistono affatto, per essi, delle distinzioni
fra ciò che è "puro" e ciò che è "impuro"; che è loro permesso di
mangiare qualsiasi cosa ("Tutto ciò che si trova sul mercato").
Egli sa che senza queste concessioni, il Cristianesimo non può
sperare di conquistare l'Occidente; né Israele potrà sperare di
conquistare il mondo: per mezzo dell'Occidente convertito.
Pietro, che non era affatto un ebreo da "ghetto", non conosceva
ancora nulla delle condizioni del mondo non-ebraico, e non
vedeva affatto le cose dallo stesso punto di vista, non ancora, in
ogni caso. È per questo che bisogna vedere in Paolo il vero
fondatore del Cristianesimo storico: l'uomo che ha fatto,
dell'insegnamento puramente spirituale del profeta Gesù, la base
di un'organizzazione militante nei Tempi; il cui scopo non era,
nella coscienza profonda dell'apostolo, che la dominazione dei
suoi pari razziali su un mondo moralmente de-virilizzato, e
fisicamente imbastardito; un mondo in cui l'amore mal compreso
dell'"uomo", conduce direttamente alla mescolanza
indiscriminata delle razze, alla soppressione di ogni fierezza
nazionale, e, in una parola, alla degenerazione.
E' tempo che i Gentili aprano gli occhi a questa realtà di duemila
anni; che essi ne afferrino tutta l'acuta attualità, e che reagiscano
di conseguenza.
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Savitri Devi Mukerji
Méadi - presso Cairo - 18 giugno 1957.