Personalmente non lo trovavo così fastidioso.
Non trovi fastidioso «se stesso» o «sé stesso»?
Io, a ogni buon conto, non credo che scriverei "sé stesso" in
una tesi di laurea, ad esempio. Forse lo scriverei in un romanzo.
Questo è il punto cruciale della faccenda. Ormai ci sono da tempo diversi
autorevoli grammatici i quali sostengono che «sé stesso» si può scrivere, e
secondo me si potrebbe tranquillamente aggiungere che «sé stesso» non
trova alcuna spiegazione razionale.
Nonostante ciò, ci sono alcune prestigiose case editrici che continuano ad
imporre «se stesso» nei loro criteri redazionali (cioè i correttori di bozze
vengono istruiti a correggere quando trovano «sé stesso»), e anche chi è
convinto che «sé stesso» sia più razionale di «se stesso» esita fortemente
a usarlo in certe situazioni "ufficiali", come una tesi di laurea, un
curriculum, un articolo da pubblicare su una rivista specializzata.
Da dove viene questa esitazione? Se è vero che si può scrivere in un modo
o nell'altro, di che cosa abbiamo paura?
E qui torniamo al mio discorso. Infatti sappiamo tutti benissimo che «se
stesso» è stato utilizzato per generazioni e generazioni come uno di quei
"trabocchetti" che servono a certe classi sociali per distinguersi dal
popolaccio boia, il quale si abbandona alla sua ingenua spontaneità
mostrandosi incivile e incolto.
Ce ne sono molti di questi "trabocchetti". Ad esempio un tempo i figli dei
contadini avevano rapporto con la cultura unicamente per mezzo del maestro,
e il maestro di solito li chiamava per cognome, oppure leggeva sul registro:
prima il cognome e poi il nome. Così questi poveretti si convincevano che
doveva esserci una qualche "ufficialità" nel dire prima il nome e poi il
cognome, e quando dovevano sforzarsi di esprimersi a un certo livello
(come quando c'era da mettere una firma, o da declamare le proprie
generalità) si comportavano di conseguenza. Non sapevano, poveretti,
che quella era una usanza da burocrati regi, e che nell'alta società ci si
prentava come facevano loro a casa: col nome. Così appena uno si presentava
(o si firmava) con cognome e nome subito si poteva fare un sorrisino di
bonaria sufficienza, perché in quel modo egli dimostrava di aver avuto a che
fare con la cultura solo attrarso l'appello che tutti i giorni il maestro
faceva per sapere chi era in classe.
È sempre una questione di esclusività, di riconoscimento sociale.
Non sorprende che una classe sociale usi come criterio di inclusione e
esclusione qualche cosa a cui non tutti possono accedere. Alcune classi
sociali usano il denaro, o altri oggetti preziosi, invece quando la
stratificazione è culturale bisogna usare un sistema più raffinato, che si
può ottenere costruendo appunto tutto un sistema di "trabocchetti" nei quali
tutti puntualmente cadono quando iniziano il loro percorso educativo,
dopodiché vengono addestrati ad evitarli, e quell'addestramento è proprio
l'elemento esclusivo a cui non tutti possono accedere.
Dopodiché è ovvio che questi "trabocchetti" devono andare per forza contro
ciò che è più spontaneo e naturale dal punto di vista linguistico.
Immaginiamo che un insegnante di matematica prepari un compito in classe,
e che - svolgendo i problemi per conto suo - si convinca che la soluzione di
uno di questi debba essere, che so, 2/3. Fa svolgere il compito, e quando li
porta a casa per correggerli si rende conto che una buona parte della classe
ha ottenuto come soluzione di quel problema non 2/3, ma 1/2.
Ora, supponiamo che diverse persone, svolgendo una serie di passaggi
matematici, commettano degli errori. Siccome i passaggi sono molti, è assai
improbabile che più persone commettano lo stesso errore nello stesso punto,
sicché tutti coloro che commettono degli errori di solito ottengono dei
risultati diversi fra di loro. Parafrasando l'incipit di Anna Karenina,
potremmo dire: «Tutti i calcoli fatti bene si somigliano; ogni calcolo fatto
male è invece sbagliato a modo suo».
Applicando questo principio, che potremmo chiamare il principio di Anna
Karenina, il nostro professore di matematica dovrà concludere che c'è
qualcosa che non va: o buona parte dei suoi studenti sono riusciti a
passarsi fra di loro lo stesso compito contenente gli stessi errori, oppure
è altamente probabile che nei calcoli fatti dall'insegnante ci sia un
errore, e che la soluzione esatta sia proprio 1/2, e non quel 2/3 che egli
aveva calcolato. E se poi l'insegnate fosse certo - per qualche motivo -
che gli studenti non possono aver copiato, o per lo meno che essi non
possono aver copiato tutti lo stesso compito, egli non potrebbe che
mettersi umilmente alla ricerca del proprio errore.
Ebbene, alle scuole elementari accade da tempo immemorabile qualcosa di
molto simile. Arrivano ogni anno dei bambini nuovi, e ad un certo punto
costoro devono imparare a sillabare. Se noi volessimo scrivere un trattato
scientifico sulla sillabazione e sulla articolazione dei nuclei sillabici,
dovremmo scrivere un saggio grosso così che - per altro - risulterebbe
incomprensibile alla maggior parte degli insegnanti. Per fortuna però questa
competenza può essere acquisita anche come automatismo, sicché i ragazzi,
dopo aver visto qualche esempio, cominciano ad acquisire quegli automatismi
grazie ai quali in poco tempo sono in grado di sillabare correttamente,
secondo le aspettative dell'insegnante. Anzi, non proprio secondo tali
aspettative, perché quando arriva il momento di sillabare «basta» e «costa»
la maggior parte dei bambini scrivono «bas-ta» e «cos-ta».
Se l'insegnante fosse in grado di leggere con profitto il saggio grosso
così sulla articolazione dei nuclei sillabici, si renderebbe conto che
questi bambini hanno perfettamente ragione a sillabare in quel modo.
Ma anche senza impegnare la sua mente in una tale impresa, il principio
di Anna Karenina gli impone di ammettere che molto probabilmente la
sillabazione corretta è proprio quella che viene spontanea alla maggior
parte dei ragazzi dopo che essi hanno acquisito certi automatismi.
È proprio una questione di logica, ancor prima che di studio.
Ed è qui che intervengono le considerazioni che facevo sui criteri di
esclusività sociale. Infatti - lo ripeto - la lingua è prima di tutto uno
status symbol e un segno di appartenenza e di esclusione da certi gruppi
sociali privilegiati. Se illustri letterati prima di me hanno scritto «po'»,
«se stesso», e sono andati a capo scrivendo «ba-sta», e io mi ritrovo a
scrivere una lettera a un cliente importante o a un potenziale datore di
lavoro, farò bene ad attenermi a quegli illustri precedenti. Infatti proprio
perché quei precedenti sono contrari a qualunque automatismo e a qualunque
riflessione razionale condotta in modo corretto (e - al solito - c'è un solo
modo di essere razionali), allora da tempo immemorabile tutti i bambini
cadono in quei trabocchetti, e tutti i bambini devono essere corretti a più
riprese, a volte per anni (soprattutto se hanno un buon occhio e un buon
orecchio), sicché alla fine proprio le regolette che sono massimamente
incompatibili con gli automatismi e con la ragione che li sostiene diventano
i tratti più prestigiosi di quello status symbol. Di conseguenza se io in
quella lettera scrivessi «pò», «sé stesso» e andassi a capo sillabando
«bas-ta» sul volto di chi mi legge probabilmente si stamperebbe un sorriso
di superiorità, oppure costui scriverebbe indignato ai giornali
stracciandosi le vesti e denunciando - o tempora o mores - una scuola che
produce degli adulti che ignorano le regole più elementari della ortografia.
Dal momento che queste regolette più sono assurde e più diventano importanti
ai fini di questa dinamica di riconoscimento sociale, e poiché la vanità e
l'ambizione sono fenomeni reali che pervadono tutta la vita sociale dei
branchi di primati, l'insegnante farà bene a non negare la realtà dei fatti
con i propri studenti, perché anche questo sarebbe massimamente irrazionale.
Così l'insegnante potrebbe spiegare che dal punto di vista puramente
ortografico e linguistico è del tutto assurdo scrivere «po'», «se stesso» e
andare a capo sillabando «ba-sta», ma proprio perché è assurdo
l'acquisizione di certe abitudini contrarie a qualunque automastimo
spontaneo viene utilizzato come segno di appartenza a certi ranghi sociali
percepiti come più prestigiosi. Anzi, l'insegnante potrebbe spiegare ai
ragazzi che tutto sommato se la cavano a buon mercato facendo quel piccolo
sacrificio, ché in altri contesti culturali si potrebbe imporre alle bambine
la fasciatura dei piedi, e ai bambini di non avere paura delle armi.
Così facendo l'insegnante si renderebbe utile due volte: potrebbe spiegare
agli allievi come applicare correttamente la ragione alla ortografia della
propria lingua, e allo stesso tempo li proteggerebbe socialmente, fornendo
loro una bella lezione di etologia e antropologia.
Ma proprio perché la vanità e l'ambizione pervadono tutta la vita dei
primati superiori, c'è una certa resistenza a dire: «Non abbiamo alcuna
ragione per scrivere in questo modo, ma proprio perché non abbiamo alcuna
ragione utilizziamo la capacità di comportarsi in modo difforme da ciò che
viene spontaneo come segno socialmente distintivo». Anzi, questa cosa si
tende a negarla. E la negazione è talmente forte che nell'istante in cui ci
ritrova a dover ammettere la totale irrazionalità di certi costumi si
preferisce sacrificare alcuni di questi costumi pur di puntellare quella
negazione. Così, ad esempio, da qualche anno qualche illustre grammatico
ha cominciato - bontà sua - a consentire o persino a suggerire che si scriva
«sé stesso». Questa che può sembrare una illuminata concessione è una
cosa che viene molto ultile per le suddette dinamiche etologiche. Infatti
sui testi che codificano e pretendono di spiegare le regole si può mostrare
il fondamento razionale della nuova illuminata concessione, e al tempo
stesso nella società continua ad agire la vecchia regoletta, sicché se uno
scrive una lettera a un cliente importante o a un potenziale datore di
lavoro e in quella lettera scrive «sé stesso» è facile che chi legge pensi
di avere a che fare con un ignorantone.
Se veramente si vuole fare qualcosa per il popolo oppresso dai sistemi
di inclusione ed esclusione sociale non basta dire che si può anche
scrivere «sé stesso», ma bisogna aggiungere che per molto tempo si è
scritto «se stesso» e si continua a scrivere «se stesso» perché nessuno
ha il coraggio di dire che il re è nudo.
Qualcuno pensa di cavarsela distinguendo fra norma «ortografica» e
«fonetica». Ma che cos'è l'ortografia se non il modo in cui tradizionalmente
si è cercato di analizzare la fonetica della lingua? Il fatto che le regole
della sillabazione ortografica coincidano in gran parte con quelle dedotte
dagli studi scientifici, deve forse essere considerato un caso?
Cioè, dobbiamo forse dire che le regole ortografiche sono state definite in
modo del tutto convenzionale, e che solo per caso la maggior parte di esse
coincidono con certi automatismi della lingua? Se è così, perché in passato
a qualcuno è venuta la strana idea di sillabare «a-vre-mo», benché non ci
sia nessuna parola italiana che inizia con «vre»?
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Saluti.
D.