Post by KlaramPost by edevilsSbaglierò, ma a me pare che chi ha posto la domanda, pur
firmandosi per modestia "Non Edotto", sappia benissimo che la forma
con l'indicativo non è quella più colta. Ma ci ha chiesto se la
ritenessimo "accettabile nel contesto" oppure "un errore al 100%,
punto e basta". Il "contesto" citato a me pare quello di un testo
scritto ma discorsivo, non particolarmente formale: al mio
orecchio (opinabilissimo, per carità) quell'indicativo colloquiale
"ci può stare", e ho anche fatto notare qualche "attenuante"
aggiuntiva come la distanza tra verbo reggente e subordinata
dislocata in fondo a destra, dopo altre due subordinate nel mezzo,
nonché il tempo passato del verbo. Gli "errori al 100%, punto e
basta" per me sono altri. Se quell'indicativo è il "100%" sulla
scala degli errori, i congiuntivi del "Di" vicepresidente della
Camera che percentuali stellari raggiungeranno? ;-)
Certo, una valutazione come errore al 100% è troppo tranciante.
Sicuramente c'è di peggio, ed è giusto tener conto dei diversi
registri, però se uno mi chiede un parere su "credo che e
indicativo", gli rispondo che è un errore.
Su "un sito migliore del nostro" si riporta una pagina di Luciano Satta
sul "credo che".
La morale, anticipo, è che non ci sono solo regolette da applicare in
maniera pedissequa, ma anche l'orecchio del parlante che modula le
regole a uno specifico contesto, una specifica frase, in fondo anche al
proprio gusto. Non sempre un congiuntivo in meno, sia pur teoricamente
previsto, suonerà peggio.
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[…] Riassumo la mia umile ma decisa posizione: «Credo che sia tardi»,
d’obbligo o quasi; ma «Desidero sapere se sia tardi» senza obbligo, va
bene anche «Desidero sapere se è tardi.»
In quest’ultimo esempio e in quest’ultima affermazione ho un sostenitore
eccezionale: «Io mi domando a mia volta quale finisce per essere, oggi,
la verità di un vocabolario…»; autore, Giovanni Nencioni, [ex]
presidente dell’Accademia della Crusca. Posso assicurare, per chi non lo
sapesse, che uno non diventa presidente della Crusca con la stessa
facilità (o faciloneria) con cui talvolta (o spesso) un altro diventa
presidente del consiglio.
Una volta scrissi su un giornale: «Che la scuola italiana ha certe
pecche di arretratezza è risaputo». Sul mio tavolino sfarfallarono
decine di lettere: lei doveva dire «abbia», reclamavano concordi. E
questa grande attenzione di molta gente per il congiuntivo fa piacere.
Però la molta gente spesso è precipitosa. Se si prova a rovesciare la
frase abbia dovrebbe stare sempre bene; però giudicate voi: «È risaputo
che la scuola italiana abbia certe pecche di arretratezza». Un’identica
ondata di proteste mi sommerse quando analogamente scrissi: «Che il
sabato e la domenica sono i giorni piú importanti della settimana lo
dimostra anche il lessico». Macché sono, siano, insorsero i lettori. E
mi toccò ripetere il discorso della frase invertita: «Anche il lessico
dimostra che il sabato e la domenica siano…» eccetera. Ma per dritto o
per rovescio dimostrare che vuole l’indicativo, anche se la
dimostrazione è del tutto soggettiva e niente affatto convincente: «Ora
ti dimostro che la Terra ha la forma di un cubo». Semmai, il congiuntivo
si darà a dimostrare come.
Un’altra volta scrissi: «Credo di ricordare che un tempo si diceva
cosí». Nuova bufera epistolare: c’è credo, insorse la gente, dovevi
usare il congiuntivo dicesse. Nossignori, fui costretto a rispondere
nonostante l’evidenza, il mio indicativo dipendeva da ricordare, non da
credere. Il verbo che avrebbe dovuto reggere il congiuntivo non era
stato localizzato: è un altro bell’esempio di gente che esige il
congiuntivo a vanvera, senza avere raziocinio o intuito sintattico.
Ho sempre difeso il congiuntivo, «Sembra che può bastare» e simili non
mi vanno giú. D’altra parte mi affanno a predicare che il congiuntivo è
roba fine, perciò godiamocelo a minuzzoli, senza sperperarlo, anche
perché un congiuntivo ne tollera a malapena un altro nelle vicinanze:
«Io penso che sia meglio che tu rimanga in casa». Via, non si tollera
una frase come questa, ancorché esemplare:
«Spero che nessuno pensi che Roberto sbagli, qualora compri un libro nel
quale trovi suggerimenti che lo persuadano affinché smetta di fumare».
Meglio lasciarlo fumare, questo Roberto.
Fuori dello scherzo, e fuori dell’esempio inventato, mi pare un po’
troppo adorna di congiuntivi (perfetti, indiscutibili uno per uno)
questa frase di Giulio Andreotti: «Gli chiesi se pensasse che l’Unione
Sovietica potesse fornire armi all’Egitto senza assicurarsi che, al
momento dato, fossero usate nel senso giusto».
In difesa del congiuntivo cito e biasimo qualche scrittore (perché tra
poco dirò che il congiuntivo è in eccedenza, ma bisogna anche far vedere
i casi di congiuntivo «deficitario»). Giovanni Pascutto: «Fai finta che
sono cieco. Guidami tu». È la fine, l’ultima frase di un romanzo, e per
il pedante non è un lieto fine, speriamo che la guida sia molto ma molto
migliore del tizio da guidare. Dello stesso: «Dio mio, avevo paura che
non volevi piú saperne di me»; ed è da biasimare anche questo
indicativo, pur se qui sentimentalmente si solidarizza con un disarmato
tremulo implorante indicativo nel quale il dubbio solitamente attribuito
al congiuntivo ha palpiti di speranza e che intenerisce, cosí gonfio di
sgrammaticata dedizione; l’amore sopra tutto. Vincenzo Cerami: «… come
se qualcosa mi stava mangiando»; speriamo, commenterà invelenito il
solito pedante. Luigi Malerba: «Mi sembra che i romanzi non si scrivono
cosí. Sembra anche al pedante.
Una puntata sulla politica, con un solo autore, il presidente del
consiglio Bettino Craxi: «Io credo che c’è»; «Io penso che le nostre
possibilità sono limitate» […]; «Ho l’impressione che mi avete portato
fuori strada» […] Commento a Craxi: hanno detto che il potere logora,
che il potere logora chi non ce l’ha, che il potere non logora ma
corrompe (questo è lo scrittore Primo Levi); il pedante si limita a dire
che il potere logora i congiuntivi di chi lo detiene.
Invece io mi permetto di trascurare il congiuntivo quando ciò è lecito
(e se si perdona il bisticcio, è lecito anche ora che ho detto quando è
lecito laddove qualcuno avrebbe preferito quando sia lecito, di cui
riconosco tutta l’eleganza). C’è chi ha rimproverato me e altri perché
scriviamo accade che, si dà il caso che con l’indicativo. Ma codesti
altri e io ci sentiamo a posto seguendo la distinzione — pur da vedere
con diligenza e badando alle eccezioni — che attribuisce all’indicativo
la certezza e la realtà, al congiuntivo l’incertezza e l’opinione; e con
accade che si vogliono introdurre eventi e situazioni reali, non
frottole. Non c’è bisogno di un Accadde che ci incontrassimo, perché
Accadde che ci incontrammo regge benone; e ugualmente sta bene Si dà il
caso che oggi piove. Non è in discussione la bellezza di un Si dà il
caso che oggi piova, specialmente se con vaga sottolineatura ironica o
enfatica. E non si discute il congiuntivo nell’analogo vuole il caso
che, essendo volere un verbo burbanzoso e democratico insieme, poiché
pretende l’esecuzione di qualche cosa ma contemporaneamente pare
metterla in dubbio: «Voglio che tu stia in casa», dice un coniuge
all’altro; e guardate com’è bene educata e discreta la sintassi, che
unisce al comando l’incertezza sull’obbedienza: io voglio, ma bisogna
vedere se tu mi ascolti, l’imperativo si attenua appena viene enunciato,
cosicché il volere si avvicina al pregare, e insomma il congiuntivo dà
anche una mano a tenere la pace in famiglia.
E c’è un’altra errata opinione da combattere: che il congiuntivo sia
«sempre» obbligatorio nel periodo ipotetico, quando manchi la certezza,
vale a dire con i tipi della probabilità, e dell’irrealtà. Non è vero.
Un periodo dell’irrealtà si può sistemare con un paio di indicativi
imperfetti: «Se eri in casa ti telefonavo». E anche con l’indicativo e
il condizionale: «Se scoppiava la bomba ci sarebbe stata una strage»
(Romano Bilenchi).
Va bene, diciamolo pure, con metafora consunta anzi avvizzita perché piú
pertinente, che il congiuntivo è il fiore all’occhiello della sintassi,
ma pensate: un uomo che si mette (o che si metta) un fiore all’occhiello
due volte il mese è leggiadro; se lo fa quattro volte è stravagante,
dodici stucchevole, venti è rivoltante, trenta fa augurare che su quel
fiore e chi lo porta calino schiere di api momentaneamente di cattivo
umore. E chi non lo chiama fiore all’occhiello , il congiuntivo lo
chiama gioiello. Ma siamo alle solite: nessuna signora si ingioiella per
andare dal tabaccaio sotto casa a comprare un francobollo, a meno che
non sia innamorata del tabaccaio. E si ricordi una cosa: la persona di
poca istruzione dice «Se lo sapevo ti telefonavo» e va sul sicuro perché
nessuno può rimproverare una frase come questa; obbligate la stessa
persona a fare a meno dell’indicativo, e può darsi che vi sentiate dire
«Se lo avrei saputo ti avrei telefonato»; insomma avete obbligato un
parlante a parlare scorretto.
Come alla recluta appena arrivata non si mette in mano un mitra e non si
dice di andare in cortile a sparare, cosí è meglio non imporre il
congiuntivo prima di averlo messo bene in testa, propria e altrui.
L’Italia pedante fa del congiuntivo una gloria nazionale come il
paesaggio, i cipressetti in cima ai colli, il vino, Dante e gli
spaghetti. È un modo che molti stranieri ci invidiano, si sente dire, al
punto che si immagina una famiglia di stranieri, ben disposti a passare
le vacanze in Italia, che vanno all’agenzia di viaggi a chiedere se sia
da preferire il congiuntivo della riviera adriatica o quello della
Versilia. Ma l’Italia pedante è anche l’Italia che il «suo» congiuntivo
non lo conosce bene, si è visto; o perlomeno c’è di mezzo qualcosa che
imbrana il parlante. Il congiuntivo impaurisce, e non tanto i
giovanissimi che vanno a ruota libera, privi di ammaestramenti, quanto i
grandi. Nel settembre del 1984 udii in televisione la persona piú
importante in materia di istruzione, la senatrice Franca Falcucci, dire:
«Mentre il Senato sta cercando di operare in modo che si potesse…». Per
l’appunto era il primo giorno di scuola. Figuriamoci a giugno, avrà
commentato qualcuno. Ma no, nessuno se ne accorse; e bisogna decidere se
sia piú grave l’errore della persona importante o il fatto che tutti, a
quel che pare, presero per buono quello che era uno sproposito.
E come esempio del disorientamento che il congiuntivo provoca almeno in
chi lo usa all’impronta, parlando, senza la riflessione di chi deve
metterlo per iscritto, basti. Ci sarebbero da aggiungere i faccino, i
vadino eccetera. «Io credo che i bambini si divertino» disse una persona
preparata e la cui professione faceva presumere un buon italiano. Con
ciò non voglio dire che questa persona faceva meglio a usare
l’indicativo, forse faceva ancora meglio a stare zitta. Si racconta di
una mamma che, il primo giorno di scuola, accomiatandosi dal figlio che
esordiva in terza media, gli disse prima di baciarlo: «Giovanni, vorrei
tanto che tu sai bene il congiuntivo». Se sia barzelletta o verità, devo
ancora saperlo. Ma quella seguente è verità. Una sera si svolse nella
sala di un albergo una conferenza sul congiuntivo; e parlava uno che,
come il firmatario di questo libro, raccomandava prudenza e moderazione,
ricordando in quali casi l’indicativo poteva essere un buon rimedio.
Dopo la conferenza, gli interventi degli ascoltatori; consensi e
dissensi. Parlò per ultimo proprio un dissenziente, ossia un difensore
strenuo del congiuntivo sempre e in ogni occasione. Cortesissimo,
all’apparenza anche colto, finí rivolgendo al conferenziere queste
parole: «Insomma, signore, ho l’impressione che lei ha antipatico il
congiuntivo».
Ora qui desidero dimostrare due cose: primo, il congiuntivo è vivissimo,
sbagliano tutti coloro che piangono su un congiuntivo in coma, anzi c’è
un’eccedenza di congiuntivo; secondo, ma questo l’ho già dimostrato, non
accoltello il congiuntivo, ne sono un difensore. Ma combatto l’eccesso:
se un passante trafelato e con valigia mi ferma sulla via della stazione
e mi domanda «Sa dirmi che ore siano?», giuro che gli do un’ora
sbagliata e gli faccio perdere il treno.
La vitalità del congiuntivo. A Firenze si tenne, era il 1985, una specie
di conferenza o tavola rotonda intitolata «Morte del congiuntivo».
L’annuncio del decesso, dato anche con manifesti, provocò un
affollamento di gente addolorata nella sala, che tuttavia non fu una
camera ardente perché uno dei partecipanti al dibattito parlò di morte
soltanto apparente e diede i risultati di una sua ricerchina fatta
leggendo da cima a fondo due settimanali e quattro quotidiani. Su
settecento esempi, che comprendevano i casi di indicativi leciti e i
casi di congiuntivi che avrebbero fatto bella figura anche come
indicativi (ecco perché si è parlato di eccedenza: i congiuntivi
«voluttuari» sono novanta), gli indicativi che avevano l’obbligo di
essere congiuntivi, gli indicativi proibiti, quelli la cui cifra avrebbe
dovuto testimoniare la morte del congiuntivo, sono tre, e precisamente:
«Qualcuno ha osato ipotizzare che quei soldi furono…»; «Si ritiene che
la trasfigurazione attuale è oltre l’avanguardia»; «Lamenta che gli
imprenditori lavorano all’estero». E quest’ultimo indicativo potrebbe
essere difeso con buon successo.
Ora voglio dare alcuni esempi, su frasi di tutti i giorni, di
congiuntivo obbligatorio o quasi, e di indicativo lecito se non
opportuno. La linea di divisione sarà fra caso della certezza e caso
dell’incertezza. Per il momento si lascia stare il periodo ipotetico,
tranne l’esortazione, a chi non ha sufficiente confidenza con il
congiuntivo, a usare liberamente l’indicativo, nell’ipotesi riguardante
il passato (si precisa fra l’altro che questo libro ha il proposito di
aiutare, e non quello di scoraggiare). La famosa iperbole «Se mia nonna
aveva le ruote era un carretto» sarà una costruzione popolare anche
nella sintassi ma, come il precedente esempio, «Se lo sapevo ti
telefonavo, non ha niente da rimproverarsi, è inutile appesantire con
«Se mia nonna avesse avuto le ruote sarebbe stata un carretto», il
risaputo e quindi superfluo postulato che una anziana signora non è un
veicolo e perciò non è un carretto nemmeno se si mette i pattini.
Premetto che non do come oro colato gli esempi che seguono, fra l’altro
segni evidenti della difficoltà di scegliere sempre bene. Vediamo.
Ecco subito una distinzione da niente, eppure da mettere in evidenza.
Nessuna grammatica lo dice, ma accertare che è diverso da accertarsi
che: «La polizia ha accertato che l’uomo era disarmato»; «La polizia si
è accertata che l’uomo fosse disarmato». Mentre la polizia si accertava,
non era ancora certa. Insomma, accertare è piú certo di accertarsi, se
si perdona il giochino. Ma queste sottigliezze, chi le conosce? Ed è la
stessa zuppa con assicurare che e assicurarsi che: «Assicuro che tutto
funziona bene»; «Mi assicuro che tutto funzioni bene».
Poi, i verbi che indicano evento: «È accaduto che mi hanno rubato
l’auto»; «Può accadere che mi rubino l’auto».
I verbi del dire: «Dicono, affermano che il paziente sta bene»; sí,
indicativo, perché io metterei con l’indicativo anche la certezza
soggettiva (ma i miei oppositori sono capaci di distinguere: indicativo
ossia certezza se l’ha detto un primario di fama internazionale,
congiuntivo ossia incertezza se l’ha detto un infermiere appena
diplomato). Tutto può cambiare con una negazione, che riconduce
all’incertezza: «Non assicurano che il malato stia bene»; però senza
scomunicare chi usa l’indicativo.
Tuttavia bisogna badare alla negazione che afferma, e allora ci risiamo
con la certezza: «Non c’è dubbio che ti ama», uguale a «È certo che ti
ama». Piccoli inevitabili pasticci, ai quali si deve aggiungere la frase
interrogativa, che per sua natura rimette in gioco l’incertezza, e
riecco il congiuntivo: «Sei sicura che ti ami?».
Altro caso da discutere, o da spiegare bene a chi non sa il congiuntivo,
e subito vedrete che non è facile. La sicurezza nel presente vuole
l’indicativo: «Sono sicuro che Giuseppe è in casa». Ma la sicurezza nel
passato è tutt’altro discorso, se nel frattempo i fatti hanno smentito
la sicurezza: «Ero sicuro che Giuseppe fosse qui» (e invece no); qui fra
l’altro l’indicativo disturberebbe perché verrebbe fuori «Ero sicuro che
era», con una ripetizione un po’ noiosa.
Non si dimentichi, inoltre, la differenza tra il pensare uguale a essere
del parere e il pensare uguale a riflettere sul fatto. Il secondo vuole
l’indicativo. Sergio Zavoli, bene: «Avevo guardato le sue mani pensando
che esse erano l’espressione massima della forma viva del padre». E
altrettanto bene Claudio Marabini: «Pensò che dappertutto la vita
continuava». Lo stesso accade di credere come atto di fede: «Credo che
Dio esiste».
Cerco di prevedere e di prevenire sottigliezze e cavilli giocando di
contropiede. Un cavillo è questo, già sentito: come la mettiamo con il
sogno, che accade ma non racconta una realtà. Non ho dubbi: «Ho sognato
che eravamo insieme», non «Ho sognato che fossimo insieme», per carità.
La realtà, che poi è diversa dalla certezza, sta nel fatto che il sogno
è avvenuto, come si è accennato: se uno sogna di dover baciare una
megera e si sveglia urlando, l’urlo c’è stato; piú realtà di cosí.
Ugualmente l’indicativo, e non il congiuntivo, è congeniale alla
scommessa: uno deve scommettere che la sua squadra vince; se scommette
che vinca, è troppo obiettivo e prudente per essere un tifoso.
Mi piace dare un esempio di congiuntivo «eccedente» — ossia,
l’indicativo sarebbe stato perfetto — citando uno dei piú eleganti
prosatori di oggi, Carlo Laurenzi: «A riprova che almeno fra noi André
Gide sia piú citato che letto, ecco un fatterello forse imbarazzante».
I pericoli del congiuntivo sono anche pericoli concreti: una fabbrica di
pentole deve garantire che le pentole sono inossidabili, se garantisce
che siano inossidabili, le conviene riconvertirsi e fabbricare
biciclette; beninteso, garantendo che le ruote girano, e non che girino,
sennò siamo da capo.
Sulla certezza e sull’incertezza mi sia concesso raccontare un altro
episodio. Era una domenica sera, e il conduttore del telegiornale, uno
dei piú bravi, riassumendo la domenica sportiva annunciò: «È successo
che il Napoli abbia perso e che l’Atalanta abbia vinto». Ebbi qualche
perplessità, che tuttavia non espressi pubblicamente, finché una
lettrice di certe mie chiacchierate giornalistiche ebbe le stesse
perplessità e mi istigò a scrivere. Ne nacque una disputa fra il
conduttore e me. Egli sostenne che il suo congiuntivo intendeva
sottolineare, anche per le conseguenze che l’evento calcistico ebbe sul
concorso pronostici, un fatto che nessuno prevedeva. Io giudicai non
certo errati ma soltanto inutili quei due congiuntivi; l’argomento per
giustificarli mi sembra, come mi sembrò allora, piuttosto discutibile.
Potrei rispondere con uno scaltro cavillo: poiché la partita era proprio
Napoli-Atalanta, se è fuori del comune che il Napoli abbia perduto è
matematico che l’Atalanta ha vinto, quindi almeno il secondo verbo stava
bene con l’indicativo. Ma questa è una sottigliezza spregevole. Allora
insisto sul fatto che nessuno prevedeva. E penso: se quel conduttore di
telegiornali esce di casa durante un meraviglioso pomeriggio estivo, va
alla Rai, lavora, e rincasando a piedi viene infradiciato dalla testa ai
medesimi per opera di un improvviso acquazzone, aperto l’uscio di casa
dirà sicuramente alla moglie: «È accaduto che un temporale mi abbia
sorpreso». E la moglie scuoterà la testa, non per il marito bagnato ma
per il congiuntivo superfluo. In ogni modo, nella distinzione fra
certezza e incertezza questo conduttore non deve essere molto esperto,
se un paio di mesi dopo il congiuntivo calcistico annunciò: «Un fatto è
certo: i morti sarebbero tre». Tutti sanno che il condizionale,
specialmente nello stile giornalistico, vuole indicare che una notizia
non è certa.
Invero qui si è parlato di congiuntivo, e il condizionale c’entra poco;
ma si sa che c’entra molto nel periodo ipotetico. Si guardi allora,
appunto, la voce IPOTETICO.
(Scrivendo e parlando, Usi e abusi della lingua italiana, Firenze,
Sansoni, 1988)
Post by KlaramPost by edevilsPost by KlaramMaurizio non ha affatto ricordato la forma standard, ma ha
svicolato dalla forma esplicita alla forma implicita con
l'infinito, come hai fatto pure tu.
Maurizio risponderà meglio di me, ma... perché dici che abbiamo
svicolato? Generalmente la forma implicita rimpiazza quella
esplicita quando il soggetto di "credere" è lo stesso della
subordinata, dunque diciamo "credo di essere stato io" piuttosto
che "credo che sia stato io".
Volevo solo dire che proponendo la forma implicita, che potrebbe pure
essere migliore, avete evitato di rispondere alla domanda che verteva
sulla forma esplicita.
Se chi ha fatto la domanda cercava la forma migliore, in realtà, la
risposta di Maurizio è la più utile.