Le neuroscienze, giorno dopo giorno, scoprono inconfutabilmente, come
tanti fenomeni cerebrali, per credenza popolare assunti come astratti
dal meccanismo bichimico (amore, fede, creatività, arbitrio, ecc)
altro non siano in realtà che conseguenze di precisi e ben definiti
processi biochimici.
http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/09_giugno_25/fotografato_...
Vi è ragionevolmernte da attendersi , relativamente a breve, che anche
tutti quei fenomeni, fino ad oggi ritenuti dal pensiero magico comune,
come indipendenti dai processi cerebrali, possano in essi trovare
classificazione e causa.
Attendiamo di conoscere quali processi neuronici siano alla bese della
"Fede".
Non occorre viceversa attendere per prendere atto come anche la Fede
sia un processo endogeno del nostro telencefalo.
Ukar
Se ci pensi bene Ukar è la conferma che il Libero Arbitrio è
soltanto un ' illusione. Tutti i processi assemblano strutturano
collegano organizzano i neuroni.
Sfida ai nuovi neuroni
di Tracey J. Shors
Ogni giorno nel cervello adulto nascono migliaia di nuove cellule
nervose.
Ma se non sono adeguatamente stimolate da compiti di apprendimento
impegnativi, muoiono entro un paio di settimane
Guardando la televisione, sfogliando una rivista oppure navigando sul
Web vi sarete imbattuti in pubblicità che spronano a esercitare la
mente. I più svariati programmi di fitness cerebrale invitano a
conservarla agile e ad assegnare ogni giorno al vostro cervello
qualche esercizio: mandare a memoria un elenco, risolvere un rompicapo
o magari stimare quanti alberi ci sono nel parco dietro casa.
Tutto ciò sa un po' di culturismo mentale, ma questi programmi
potrebbero avere una base nella biologia del cervello. Studi recenti,
anche se svolti in prevalenza con i roditori, indicano che
l'appprendimento aumenta la sopravvivenza di neuroni nuovi nel
cervello adulto, e che più il problema è coinvolgente e impegnativo,
maggiore è il numero di neuroni che sopravvive. È perciò presumibile
che queste cellule vengano in soccorso nelle situazioni che mettono
alla prova la nostra mente: gli esercizi mentali avrebbero sul
cervello lo stesso efffetto dell'esercizio fisico sul corpo.
Questi risultati potrebbero interessare in particoolare chi è
intellettualmente pigro, ma quel che più conta è che offrono qualche
conferma all'idea che, impegnando la mente, chi è ai primi stadi della
malattia di Alzheimer, o di altre forme di demenza, potrebbe
rallentare il declino cognitivo.
Dieci anni fa, il mondo della neurobiologia fu scosso da una notizia
strabiliante: il cervello adullto dei mammiferi produce nuovi
neuroni.
I biologi avevano a lungo ritenuto che questa capacità generativa, la
neurogenesi, si verificasse esclusivamente durante lo sviluppo delle
menti giovani, e che si perdesse invecchiando.
Ma all'inizio degli anni novanta Elizabeth Gould, della Rockefeller
University, dimostrò che nel cervello adulto nascono nuove cellule: in
particolare nell'ippocampo, una regione essenziale per l'apprendimento
e la memoria. Presto seguirono notizie analoghe riguardanti altre
specie animali, quali il topo o la scimmia marmoset, e nel 1998 alcuni
neuroscienziati americani e svedesi dimostrarono che la neurogenesi è
presente anche nellla specie umana.
Per studiare la neurogenesi nei roditori si iniettta loro la BrdU
(bromodesossiuridina), una sostannza che marca le cellule appena nate,
facendo sì che risaltino quando sono osservate al microscopio. Questi
studi indicano che, ogni giorno, nell'ippocampo dei roditori nascono
da 5000 a 10.000 nuovi neuroni. (Benché lo stesso fenomeno avvenga
nell'ippocampo umano, in questo caso non sappiamo quante siano le
cellule neonate).
Questi neuroni, però, non vengono generati in modo regolare; al
contrario, la loro produzione può essere influenzata da diversi
fattori ambienntali. Per esempio è stato dimostrato che il consumo di
sostanze alcoliche ritarda la generazione di nuove cellule cerebrali;
inoltre la frequenza con cui esse nascono può aumentare con
l'esercizio: ratti e topi che trascorrono parte del loro tempo
camminando in una ruota girevole producono almeno il doppio di nuove
cellule rispetto alle loro controparti sedentarie. Persino nutrirsi di
mirtilli accelera la generazione di nuovi neuroni nel loro ippocampo.
L'esercizio fisico e altre azioni contribuirebbero a produrre nuove
cellule cerebrali, ma non è detto che queste sopravvivano: molte, se
non la magggior parte, scompaiono infatti a poche settimane dalla
nascita.
Naturalmente la maggior parte delle cellule dell'organismo non
sopravvive all'infinito, per cui la loro morte non è di per sé un
fatto sconvolgente. L'enigma è la rapidità con cui avviene: per quale
ragione il cervello dovrebbe sobbarcarsi l'impegno di produrre nuove
cellule per poi vederle scomparire rapidamente?
Secondo i risultati delle nostre ricerche sui topi la risposta sembra
essere che sono prodotte «per sicurezza». Se gli animali devono
affrontare sfide cognitive, allora le cellule rimangono, altrimenti
svaniscono. Elizabeth Gould - oggi alla Princeton University - e io
l'abbiamo scoperto insieme nel 1999 con in una serie di esperimenti su
come l'apprendimento influisce sulla sopravvivenza di neuroni neonati
nell'ippocampo dei roditori.
Il compito di apprendimento che abbiamo usato, detto riflesso
condizionato di ammiccamento , ricorda per certi versi gli esperimenti
di Pavlov in cui i cani salivavano appena sentivano un suono che
avevano imparato ad associare all'arrivo del cibo.
Nel condizionamento di ammiccamento, un animale sente un suono e dopo
un intervallo di tempo prefissato - in genere 500 millisecondi, mezzo
secondo - viene colpiito da un soffio d'aria, oppure è stimolato
delicatamente sulla palpebra, in modo da farlo ammiccare.
Dopo un numero sufficiente di prove - dell'ordiine di qualche
centinaio - l'animale stabilisce una connessione mentale tra il suono
e la stimolazione oculare: impara ad anticipare l'arrivo dello stimolo
e ad ammiccare poco prima della sua comparsa. Questa risposta
«condizionata» indica che l'animale ha imparato ad associare i due
eventi nel tempo.
Il compito assegnato ai topi potrà sembrare banale, ma questo impianto
sperimentale è un sistema eccellente per misurare l'<<apprendimento
anticipatorio>> negli animali, vale a dire la capacità di prevedere il
futuro sulla base di quanto è accaduto nel passato.
Per esaminare il legame tra apprendimento e neurogenesi, all'inizio
dell'esperimento iniettammo la BrdU a un gruppo di topi. Una settimana
doopo, metà degli animali fu avviata al programma di condizionamento
appena descritto, mentre gli altri rimanevano nelle gabbie. Dopo
quattro o cinque giorni di addestramento scoprimmo che i topi che
avevano imparato a sincronizzare adeguatamente l'ammiccamento
conservavano nell'ippocampo un numero maggiore di neuroni marcati con
la BrdU rispetto a quelli rimasti nella gabbia : ne deducemmo che il
compito salvava cellule che altrimenti sarebbero morte. Negli animali
non addestrati, pochissime delle cellule neonate marcate con la BrdU
all'inizio dell'esperimento erano ancora visibili alla fine. Inoltre,
più gli animali imparavano più numerosi erano i neuroni conservati, un
fenomeno che si manifesta anche fra i roditori che imparano a
orientarsi in un labirinto.
Alla fine degli anni novanta, quando iniziammo gli studi sul riflesso
di ammiccamento, esaminammo gli effetti dell'addestramento sui topi
più «bravi», vale quelli che avevano imparato ad ammmiccare, per
esempio, entro 50 millisecondi dalla stimolazione della palpebra, e
che ripetevano il riisultato in oltre il 60 per cento delle prove. Più
recentemente ci siamo chiesti se anche gli animali che non avevano
imparato - o che avevano imparato in modo insufficiente - avessero
conservato i nuovi neuroni dopo l'addestramento. La risposta è stata
negativa.
In studi pubblicati nel 2007, i topi che, pur essendo stati sottoposti
a 800 prove, non avevano imparato ad anticipare la stimolazione della
palpebra, mostravano lo stesso esiguo numero di nuovi neuroni di
quelli rimasti in gabbia.
Abbiamo anche condotto esperimenti di ammmiccamento in cui limitavamo
le opportunità di apprendimento delle cavie, lasciando ai topi un
giorno soltanto - 200 prove - di addestramento. In questo caso alcuni
animali hanno imparato a prevedere lo stimolo e altri no. Anche
stavolta i topi che avevano imparato conservavano un nuumero maggiore
di neuroni nuovi rispetto agli altri, pur essendo stati sottoposti
tutti allo stesso addestramento. Stando a questi dati, è il processo
di apprendimento - e non solo l'esercizio di addestramento o
l'esposizione a una gabbia o a una procedura differenti - che salva i
nuovi neuroni dalla morte.
Uno sforzo ricompensato
Benché l'apprendimento sia necessario affinché i nuovi neuroni
sopravvivano, non tutte le forme di apprendimento funzionano. Per
esempio, addeestrare un animale a nuotare verso una piattaforma
visibile in una vasca d'acqua non aumenta la soopravvivenza delle sue
cellule; e nemmeno addeestrarlo a capire che due stimoli, come un
suono e una stimolazione della palpebra, si manifestano quasi
simultaneamente.
La nostra ipotesi è che la ragione per cui questi compiti non salvano
le nuove cellule dalla morte è che richiedono uno scarso ragionamento.
Nuotaare verso una piattaforma visibile è un'azione che ai topi riesce
immediata: dopo tutto, non voglioono affogare. E se la stimolazione
della palpebra si verifica nello stesso istante del suono gli animali
non hanno bisogno di conservare nel cervello una traccia mnemonica di
un evento passato - il suoono - che li aiuti a prevedere quando si
verificherà lo stimolo di ammiccamento: rispondono appena sentono il
suono.
Noi pensiamo che i compiti che salvano il magggior numero di nuovi
neuroni siano quelli più complessi da imparare, la cui padronanza
richieede il massimo sforzo mentale. Per verificare questa ipotesi
abbiamo scelto un compito banale, e poi lo abbiamo reso un po' più
impegnativo. Siamo parrtiti con un compito di ammiccamento semplice,
in cui il suono precede la stimolazione della palpebra, ma ancora si
sovrappone nel tempo. Come si è dettto, di solito imparare questa
associazione non serrve a far sopravvivere i neuroni nuovi. Poi
abbiamo complicato le cose, allungando la durata del suoono in modo
che lo stimolo arrivasse verso la fine di un suono molto lungo.
Imparare il momento in cui ammiccare in queesto test è più complicato:
farIo appena inizia il suono - come un velocista che scatta al colpo
delllo starter - non è la risposta corretta. TI compito è anche più
difficile di quello standard - la traccia di 500 millisecondi - perché
l'animale non può usare la fine del suono come segnale per il
«pronti». Innvece dovrà conservare traccia del momento esattto in cui
inizia il suono e valutare quando avverrà la stimolazione della
palpebra: una vera sfida per qualunque animale, compresi gli esseri
umani. Abbbiamo così scoperto che questa sfida salva almeno
altrettanti nuovi neuroni, se non di più, del compiito standard di
condizionamento di traccia.
Sembra esistere una finestra temporale entro cui l'apprendimento può
far
sopravvivere nuovi neuroni
È interessante sottolineare che gli animali un po' più lenti
nell'apprendimento dei nostri compiti di condizionamento (che non
tutti imparavano) - quelli cioè che avevano bisogno di un maggior
numero di prove per padroneggiare il compito - avevano nuovi neuroni
in numero maggiore rispetto ai loro simili più rapidi
nell'apprendimento. A quanto pare, pertanto, i nuovi neuroni
nell'ippocampo rispondono meglio a un apprendimento che richiede uno
sforzo concertato.
La finestra di apprendimento
Non è chiaro perché un apprendimento più faticoso possa essere un
fattore critico. Una teoria è che i compiti che richiedono più
riflessione - o periodi di addestramento più lunghi per essere appresi
- attivano con più vigore le reti di cellule nervose dell'ippocampo
che comprendono questi nuovi neuroni, e che il segreto sia quindi in
questa attivazione. È un'ipotesi che mi vede favorevole per un paio di
ragioni.
La prima è che - come hanno dimostrato diverrsi ricercatori - i
compiti che implicano l'apprenndimento, come il test classico di
condizionamento di ammiccamento, in genere aumentano l'eccitabilità
dei neuroni dell'ippocampo, rendendoli molto più attivi. Per di più
tutta questa frenetica attività nell'ippocampo va di pari passo con
l'apprendimento: gli animali con l'attivazione più intensa sono quelli
che imparano meglio il compito.
La seconda ragione è che sembra esistere una finestra temporale entro
cui l'apprendiimento può salvare i neuroni neonati, finestra che nei
roditori è compresa tra la prima e la seconda settimana dopo la
nascita delle cellule.
Una recennte ricerca sui topi riferiva, per esempio, che
l'apprendimento può salvare le cellule quando hanno tra i sette e i
dieci giorni di vita; un addestramennto dopo quella finestra è
tardivo: i neuroni stanno già morendo. Per contro, un addestramento in
anticipo rispetto alla finestra temporale è troppo precoce per essere
utile.
Questa finestra di apprendimento corrisponde al periodo in cui le
cellule neonate, che iniziano l'esistenza come cellule non
specializzate, cominciano a differenziarsi in neuroni, emettendo le
ramificazioni dei dendriti - le strutture neurali che captano i
segnali - che li collegano alla corteccia, e generando gli assoni che
trasportano i loro messaggi verso una zona limitrofa dell'ippocampo,
la regione CA3. All'incirca in questo periodo i neuroni iniziano a
rispondere in modo adeguato a particolari neurotrasmettitori, le
sostanze chimiche che mediano la comunicazione tra le celluule
nervose.
Queste osservazioni suggeriscono che le nuove cellule debbano essere
abbastanza mature e collegate in reti per essere sensibili
all'apprendimento. Quando quest'ultimo è complesso, i neuroni sparsi
nell'ippocampo - comprese le nuove reclute - lavorano a tempo pieno, e
le reclute sopravvivono. Ma se l'animale non affronta una prova
impegnativa i nuovi neuroni sono privi della stimolazione necessaria
per sopravvivere, e svaniscono nel nulla.
Che cosa fanno ?
Dunque, migliaia di nuove cellule nascono ogni giorno nell'ippocampo
e, se l'animale è stimolato a imparare, sopravvivono. Ma qual è la
loro funzione? Naturalmente non possono contribuire all'apprendimento
in tempo reale, appena nate. Buona parte dell'apprendimento è quasi
istantanea: avviene in pochi secondi, se non di meno. Di fronte a un
nuovo compito, il cervello non può aspettare una settimana che i nuovi
neuroni nascano, maturino e si inseriscano in reti funzionali. lo e i
miei colleghi supponiamo quindi che le cellule accumulate influenzino
alcuni aspetti successivi dell'apprendimento.
Per verificare la teoria abbiamo deciso di eliiminare le cellule
cerebrali neonate, perché se queste cellule sono importanti per
l'apprendimento gli animali che ne sono sprovvisti dovrebbero essere
allievi più scarsi. Ma estirpare ogni singola nuova cellula dal
cervello di un animale non è tecnicamente fattibile, per cui abbiamo
impedito la generazione stessa delle cellule, trattando per diverse
settimane i topi con una sostanza chiamata MAM, che blocca la
divisione cellulare, e poi abbiamo iniziato l'addestramento degli
animali.
Abbiamo così scoperto che i topi trattati con il MAM avevano
difficoltà a imparare ad anticipare lo stimolo nel condizionamento di
ammiccamennto standard, il compito lungo 500 millisecondi. Se la
cavavano bene però in molti altri compiti di appprendimento che
dipendono dall'ippocampo, come il cosiddetto «labirinto d'acqua di
Morris». In questo test i topi devono nuotare in una vasca riempita di
un liquido opaco fino a trovare, e raggiunngere, una piattaforma
sommersa: i topi privati dei neuroni neonati eseguivano il compito con
la stesssa rapidità degli altri.
Nelle nostre mani gli animali trattati con il MAM imparavano anche a
ricordare il luogo in cui avevano vissuto un'esperienza emotiva. Per
esempio, i topi che ricevevano uno stimolo sulle zammpe quando erano
collocati in una certa gabbia si irrigidivano nel momento in cui vi
venivano rimessi dentro. Anche questo tipo di apprendimento emotivo -
detto condizionamento contestuale alla paura - dipende dall'ippocampo,
ma non aveva creato problemi ai nostri animali trattati.
In sostanza, le capacità di apprendimento dei topi con pochi neuroni
nuovi erano menomate solo in parte. Gli animali sembravano invece in
difficoltà nell'imparare associazioni più complicate, come capire che
un suono precede sempre di mezzo secondo una stimolazione della
palpebra. Da qui la nostra ipotesi che i nuovi neuroni, se sono
necessari per l'apprendimento, entrano in campo in un insieme ben
preciso di situazioni: quelle che richiedono uno sforzo cognitivo.
Dal punto di vista biologico, questa specializzazione ha un senso: un
animale non deve aver bisogno di produrre e sviluppare un'intera
batteria di nuovi neuroni per rispondere a situazioni che influiscono
sulla sua sopravvivenza immediata. È quindi presumibile che le cellule
aggiunte, una volta maturate, siano impiegate per affinare o per
potenziare abilità cognitive già esistenti. In psicologia, il
miglioramento di queste abilità prende il nome di «apprendimento ad
apprendere».
E il cervello umano?
Tutte le ricerche raccontate fin qui riguardano animali da
laboratorio, in particolare topi e ratti. Ma che cosa accadrebbe negli
esseri umani che non producessero nuovi neuroni nell'ippocampo?
Purtroppo la medicina moderna ci fornisce una popolazione di soggetti
già pronti. Sono le persone sottoposte a trattamento farmacologico
sistemico contro i tumori, la chemioterapia. Come il trattamento con
il MAM, la chemioterapia impedisce la divisione cellulare. Noi
riteniamo, perciò, un fatto scientificamente interessante che le
persone che hanno subito quel trattamento spesso lamentino difficoltà
di apprendimento e di memorizzazione, una sindrome talvolta chiamata
colloquialmente «chemiocervello».
Per alcuni aspetti, questa osservazione combacia con i dati sugli
animali. Come i roditori che dopo il trattamento con il MAM
manifestano un deeficit cognitivo molto leggero o limitato, le persone
sottoposte a chemioterapia sono efficienti nella maggior parte delle
circostanze: si vestono, vanno al lavoro, si preparano da mangiare,
frequentano amici e familiari, insomma conducono una vita normale
sotto ogni altro aspetto.
Questo è perfettamente ragionevole; partenndo dai risultati con i
nostri animali da laboratorio non ci aspetteremmo deficit profondi né
pervasivi nelle funzioni cognitive di base, bensì nei processi di
apprendimento più difficili: quel genere di cose che chiunque trova
impegnative, come dover svolgere più compiti simultaneamente mentre
cerchiamo di elaborare nuova informazione.
Per poter stabilire il ruolo della neurogenesi nell'apprendimento
umano, è necessario sviluppare metodi non invasivi per individuare
nuovi neuroni nel cervello in vivo e trovare modi reversibili per
impedire la maturazione delle cellule durannte l'apprendimento. I
primi metodi sono in fase di sviluppo; i secondi, invece.
richiederanno ancora un po' di tempo.
Tuttavia, supponiamo per il momento che disporre di una batteria
pronta di neuroni nuovi perrmetta di mantenere il cervello umano
intellettuallmente flessibile. Potremmo sfruttare la neurogenesi per
prevenire o trattare i disrurbi che causano il declino cognitivo?
Prendiamo il caso dell' Alzheimer, la patologia in cui la
degenerazione dei neuroni dell'ippocampo determina una perdita
progressiva della memoria e della capacità di apprendimento. Le
persone colpite da Alzheimer continuano a produrre nuovi neuroni. ma
sembra che molti di essi non sopravvivano fino a diventare neuroni
maturi. Forse in questi pazienti il processo di neurogenesi e di
maturazione neuronale è alterato; oppure le nuove cellule non
sopravvivono perché la malattia ostacola la capacità di imparare.
Altri dati offrono più speranze, almeno per chi è ancora ai primi
stadi della demenza. Come già abbiamo detto. gli studi effettuati su
animali e persone sane indicano che azioni semplici, come la
ginnastica aerobica, favoriscono la produzione di nuovi neuroni.
Inoltre sappiamo che gli antidepressivi sono potenti modulatori della
neurogenesi; una ricerca pubblicata nel 2007 ha scoperto che il
trattamento cronico con questi farmaci migliora la qualità della vita
e la funzionalità generale nei pazienti con l'Alzheimer: un segno, o
almeno un indizio, che questa terapia potrebbe promuove la produzione
e la sopravvivenza di nuovi neuroni in quei malati.
Secondo resoconti aneddotici, anche affrontare un apprendimento
complesso potrebbe essere di aiuto. Recentemente ho presentato i
nostri dati sugli animali a un congresso sull'Alzheimer e su altre
forme di demenza. I medici presenti hannno mostrato un interesse per i
dati secondo cui lo sforzo per imparare un compito difficile conserva
le nuove cellule nervose, riferendo di avere osservato i benefici
dell'impegno cognitivo nei loro pazienti: i malati in grado di
impegnarsi pienamennte in attività che richiedono uno sforzo cognitivo
potrebbero ritardare la progressione di questa malattia devastante.
Detto questo, sarebbe insensato pensare che un impegno cognitivo
combinato ad antidepressivi . e all'attività fisica inverta
completamente i danni provocati da una patologia come l'Alzheimer, che
uccide un numero di neuroni assai maggiore di quanti ne nascono. Ma
potrebbe comunque darsi che quegli interventi rallentino il declino
cognitivo, sia nelle persone con patologie degenerative sia, forse,
nel cervello di ognuno di noi quanndo invecchiamo.
Un detto inglese afferma che non si possono insegnare nuovi trucchi a
un cane vecchio ( you can 't teach an old dog new tricks ), e non c'è
dubbio che molti di noi, divenuti adulti, fatichino a imparare
qualcosa di nuovo.
Tuttavia, se vogliamo mantenere in forma il nostro cervello,
probabilmente non nuocerebbe studiare una nuova lingua, prendere
lezioni di ballo o magari dedicarsi a un videogioco di destrezza dopo
aver fatto un po' di esercizi di ginnastica. E potrebbe persino essere
di aiuto. _